La storia corre, l’Umanità s’arresta- la crisi Covid-19
CRISI E RILEVANZA DELLA STORIA
Al giorno d’oggi appare lampante la perdita di centralità della conoscenza storica nella società contemporanea: benché sia più ampia che mai la possibilità tecnica di produrla e divulgarla, sia la storia che i suoi adepti sono sprofondati in una profonda crisi d’identità. Negli ultimi decenni, nel campo storiografico, le mode intellettuali e i neologismi disciplinari si sono susseguiti con frequenza inusualmente elevata, portando talvolta al sovrapporsi di schemi interpretativi e a svolte semplicistiche. Specialmente in ambito europeo, gli storici sembrano aver smarrito la storicità quale dimensione della realtà e del pensiero: fuor di essa, la storia non può che trovare complesso adempiere alle proprie ragion d’essere.
Da sempre la storiografia offre uno spaccato della società in seno alla quale viene prodotta; sicché le odierne fibrillazioni della disciplina storiografica ricalcano le difficoltà in cui naviga la storia sul piano sociale, ove si è diffusa la convinzione che serva a poco o nulla. Si tratta d’una sorta di declassamento della storia che ha coinvolto sia ambiti generali, quali la formazione culturale della classe dirigente e l’opinione pubblica; sia il campo educativo. Tre ambiti connessi l’un l’altro: le classi dirigenti odierne, operanti in una temperie economicista, sono più improntate ad elaborare una politica culturale volta ad incentivare le conoscenze tecniche, sovente a scapito di quelle umanistiche; la popolazione scolastica dei sistemi democratici, formatasi nel predominio del sapere tecnico-scientifico, terminati gli studi diviene parte dell’opinione pubblica e sfocia nella massa degli elettori; così favorendo il perpetuarsi d’una classe dirigente sensibile a temi strettamente pratici, giostrantesi in una politica che rischia di ridursi all’amministrazione d’un presente privo d’orizzonti che spazino oltre la successiva tornata elettorale.
Pur in un tal circolo vizioso, non è risibile una certa qual richiesta di storia proveniente da consistenti settori sociali. Troppo spesso, però, ci si trova subissati di nozioni cronachistiche: una storia esposta in maniera superficiale si riduce ad un mero elenco di fatti passati slegati tra loro; ad un’erudizione sostanzialmente inutile. Quella non più pensata, ma solo ricordata, non è storia, bensì cronaca. Per intenderci: non ha grande importanza ricordarsi l’anno esatto in cui venne stipulata la Pace di Caltabellotta: questo è pane per specialisti. Conta invece acquisire una sensibilità storica, che insegni il metodo critico della storia: è fondamentale per la nostra esistenza in quanto umani. Innanzitutto, ci educa a dubitare: dubitare dei dogmi, delle verità assolute che comprensibilmente ricerchiamo per sentirci al sicuro in un mondo caotico; ma che troppo spesso giocano sulle nostre paure ed imbavagliano il libero pensiero.
È questo un dubbio metodico su cui poggia ogni pensiero scientifico, poiché chiarifica come la verità sia dinamica, qualcosa cui si tende consci di non poterla mai afferrare appieno: ciò è fondamento d’ogni progresso. Le stesse scienze fisiche e matematiche, che sembrano consegnare un sapere certo e definitivo, trattano piuttosto di possibilità, proprio come la storia: se essa ha scelto di non farsi scienza è stato per meglio aderire alla complessità umana; non perché sia un sapere secondario.
La realtà stessa è una possibilità, provvisoria e affatto necessaria: è bene che gli Occidentali rammentino quanto la democrazia e il benessere non siano né eterni, né dovuti; che l’intera civiltà umana recuperi un proficuo rapporto col proprio passato e si ricordi d’essere creatrice del proprio destino. Tanto più importante in un’epoca in cui pochi hanno di che credere e molti vanno avanti a testa bassa: sopravvivono, non esistono.
Ogni pretesa “fine della storia”, ogni percepita astoricità del tempo odierno, è in realtà frutto della storia stessa: un prodotto dei confusi tempi contemporanei. Invero, la dimensione storica è la più profonda dell’essere umano, gli è connaturata. Ogni istante Homo produce storia, persino quando ritiene d’essersi fermato a sostare: poiché la storia è vita.
Questi mesi di lockdown pressoché globale offrono una chiara esemplificazione di quanto asserito.
La storia ai tempi del Covid-191
V’è un motivo per cui molte delle più recenti epidemie della storia hanno avuto origine in Oriente. Nella fattispecie, la pandemia da Covid-19 è scoppiata per la collisione tra due Cine molto diverse tra loro, eppure intimamente intrecciate. L’economia del Dragone è infatti caratterizzata da imponenti migrazioni interne stagionali (coinvolgenti centinaia di milioni d’individui) che muovono dalle povere campagne interne per riversarsi nelle sovraffollate città costiere, benestanti e affamate di manodopera: le due aree non possono fare a meno l’una dell’altra; ma è una dinamica che favorisce lo scoppio di ricorrenti epidemie. L’avvio d’un superamento delle condizioni endemiche che hanno creato l’odierna crisi da coronavirus è stato finora rimandato da Pechino: la classe dirigente cinese è restia ad aperture riformistiche, dacché teme per la sopravvivenza del sistema monopartitico. La pandemia in corso mostra però come la questione non riguardi solo la Cina, ma il mondo intero: le riforme s’impongono con urgenza. Nella gestione della crisi il PCC si gioca una buona fetta della propria legittimità, interna ed estera. I cinesi hanno sacrificato la libertà in cambio d’una crescita sostenuta: se quest’ultima dovesse ingolfarsi, potrebbero anche tornare sui propri passi. L’epidemia mina infatti le fondamenta dell’economia della Repubblica Popolare; giunge inoltre in una fase di acuta tensione geopolitica, il che si riverbera sul piano internazionale.
La Cina non vuole essere percepita come causa dei guai in corso, ma come la potenza che ha aiutato il resto del mondo a superarli. Con questo proposito, Pechino continua ad inviare forniture sanitarie e personale medico in Europa, Africa, America Latina, Estremo e Medio Oriente: punta insistentemente sulla “nuova via della seta sanitaria”, per contribuire alla lotta al coronavirus nei paesi importatori di prodotti made in China; nonché riaffermare il proprio soft power e contrastare la campagna propagandistica mossa da Trump, volta ad imputare la Cina come unica responsabile della pandemia agli occhi del mondo (e degli elettori statunitensi). L’attuale fase di difficoltà del rivale strategico fa gola agli USA: l’Aquila americana sta favorendo la recrudescenza di faglie interne al Dragone (da Hong Kong a Taiwan), grazie ad un’offensiva a tutto tondo. Gli USA sono il paese più colpito al mondo dal Covid-19, ma non per questo rinunciano all’egemonia globale. Oltre a rispondere sul piano propagandistico alle iniziative di Pechino e Mosca, Washington non molla la stretta economica sui rivali (dalla Cina all’Iran) e non si astiene dal mostrare i muscoli: il frequente passaggio di aerei e navi da guerra rischia di infiammare ulteriormente i mari cinesi e l’Indo-Pacifico. Non solo: chiama all’adunata gli alleati, spronandoli all’azione; sia a livello bilaterale che sovranazionale (tramite l’OMS, ad esempio). Nel solo vicinato cinese, Giappone ed India hanno già risposto all’appello, preparandosi entrambe alla fuga d’investimenti dalla Repubblica Popolare, con New Delhi che rinforza i contingenti militari lungo la contesa frontiera sino-indiana; mentre Taiwan ne approfitta per rimarcare la propria indipendenza de facto.
Il terzo pretendente all’egemonia globale, la Russia, è in grave difficoltà. L’epidemia ha stravolto i piani di Mosca: dal 2014 (sanzioni Occidentali a seguito dell’annessione della Crimea), Putin ha perseguito una politica volta a diminuire la propria dipendenza dall’andamento dell’economia mondiale. Il crollo del prezzo del petrolio e del rublo e l’aumento della disoccupazione obbligano la Russia a mutare i propri piani. Washington si concede persino il lusso di pubblicare un comunicato congiunto con Mosca, in occasione del 75° anniversario dell’incontro fra i rispettivi eserciti sul fiume Elba, in un Reich nazista sconfitto. Evento rarissimo: un riavvicinamento russo-americano certo muterebbe la storia del XXI secolo. Washington si limita a contrastarne le iniziative propagandistiche in Europa: richiamando all’ordine specie l’alleato italiano (reo di aver accettato gli aiuti cinesi e d’aver fatto scorrazzare sul territorio nazionale medici militari russi).
Del resto, in queste ultime settimane gli stessi USA hanno i propri problemi interni su cui concentrarsi: l’uccisione di G. Floyd, avvenuta il 25 maggio, ha scatenato proteste che hanno oramai trasceso la matrice razziale, tramutandosi in un violento sfogo popolare che infiamma la crisi occupazionale-sanitaria ed illumina le contraddizioni insite nella stessa democrazia statunitense. Al momento è difficile intuire quale direzione stia prendendo il fenomeno e se si esaurirà o meno senza produrre rilevanti conseguenze.
Nel Vecchio Continente è la vicenda eurobond ad aver tenuto banco in questi mesi di crisi: in sunto, aumentare il debito pubblico per finanziare la ripartenza economica, condividendolo fra tutti e 27 i membri UE. Una discussione che ha contribuito ad acuire i dissidi già presenti in seno europeo, specie fra Nord e Sud. L’Italia ha in mano un enorme potere di ricatto: se Roma dovesse crollare, porterebbe con sé l’intera Unione; questo Berlino lo sa. La Germania ha preso le distanze dall’intransigenza dei partner settentrionali, scegliendo di soccorrere le economie in difficoltà: una decisione coerente con la necessità di tener agganciati al carro tedesco quanti più mercati possibile (dato che metà della sua ricchezza si basa sull’export).
Tuttavia l’intesa sulla creazione del recovery fund rimane una proposta della Commissione, frutto d’un compromesso fra posizioni inconciliabili che, peraltro, dovrà passare al vaglio del Consiglio Europeo ed essere validato dai Parlamenti degli Stati membri. Merkel ha inoltre chiarito come lo scostamento dall’ortodossia dell’austerity sia temporaneo: non solo per la materiale impossibilità di sostenere da sola mezza Europa. Il 5 maggio, la Corte costituzionale tedesca ha dichiarato parzialmente incostituzionali i programmi di quantitative easing (la politica monetaria perseguita da Draghi dal 2015). La Corte è stata creata dagli americani dopo la sconfitta nazista: l’aspirazione a mantenere la Germania uno Stato dedito al commercio ed estraneo alla strategia è l’ideale che l’ispira. Berlino vive un’inevitabile crisi di identità: deve stabilire se rendersi fulcro geopolitico del continente oppure accontentarsi del ruolo di potenza economica. L’emergenza provocata dal virus ha approfondito tal dilemma. Gli USA, veri egemoni d’Europa, osservano guardinghi: per la prima potenza mondiale i fantasmi della storia non si sono mai sopiti.
Dal canto suo, l’Italia rimane (pressoché inconsapevolmente) aggrappata all’improbabile eventualità che Berlino torni a farsi centro d’un impero, sotto il vessillo dell’UE: Roma non può rialzarsi senza un aiuto esterno. Per quanto dolorosa sia, è questa la realtà d’un grande Paese in declino.
Dopo quanto accaduto, pochi ricorderanno come il marzo del Vecchio Continente si sia aperto con l’ennesima crisi migratoria: migliaia di profughi siriani, rilasciati dalla Turchia, si sono infatti riversati verso la frontiera greca, dove sono stati bloccati da Atene. Sul luogo, anche gruppi d’estrema destra. Prima che il coronavirus irrompesse nelle nostre vite, l’UE ha riconfermato l’incapacità di giungere a soluzioni comuni in periodo di crisi: paga Ankara per assumere la funzione di campo profughi d’Europa, consegnando all’ormai inaffidabile vicino anatolico un enorme potere di ricatto; così tradendo gli ideali dai quali è risorta la comune casa europea dopo la follia bellica.
La Turchia è per suo conto attivissima: s’accorda con Mosca per spartirsi la Siria nord-occidentale, mentre Assad dipende sempre più da desiderata esteri(è stato costretto dai russi a fermare l’offensiva nella Siria del nord) e l’Iran si fa sempre più isolato; fa ribollire il Mediterraneo orientale, dove difficilmente la nuova missione navale europea (Irini, a guida italiana) intaccherà le mosse di Erdogan; infine, spadroneggia nel conflitto libico, che a quello siriano è legato. La Libia non esiste più: vi sono diverse Libie con diversi padroni. Il generale Haftar è sostenuto specie da Egitto, Emirati Arabi e Russia; il premier Al-Serraj dalla Turchia, il cui maggior coinvolgimento (finanziato dall’emiro del Qatar) ha risollevato le sorti del padrone di Tripoli. Qui, come in Siria, le medie potenze regionali combattono per procura su territori stranieri; s’allenano ad un nuovo tipo di guerra, che prevede l’uso di mercenari sostenuti da droni militari. Tutto ciò al prezzo del sangue di inermi popolazioni martoriate da anni di guerra civile. Nemmeno questi mesi hanno fermato i combattimenti, se non per pochi giorni: appare palese come nessun attore coinvolto in queste sporche partite abbia interesse a porre presto termine alle distruzioni. La storia continua a ripetersi: se pur qualcuno l’ascolta, spesso lo fa con orecchie da mercante.
Anche il Sudamerica è in fermento: l’emergenza sanitaria e la conseguente crisi economico-finanziaria stanno accelerando tendenze precedenti alla pandemia. S’inaspriscono le crisi politico-istituzionali in Venezuela, Bolivia e Brasile; mentre l’Argentina è ormai prossima a dichiarare il nono default della propria storia.
Lo stesso Polo Nord si sta scaldando, in tutti i sensi: di questi mesi è la decisione statunitense di riaprire un’ambasciata in Groenlandia, avanguardia del Nordamerica, facendovi affluire milioni di dollari. Contromossa alle manovre russo-cinesi nel settentrione del mondo. Le grandi potenze non vedono l’ora che la rotta del Nord sia scevra di ghiacci, per far entrare anche l’Artico nell’arena della storia.
E dopo?
Nulla è più globale della pandemia: eppure, essa innesca risposte assai diverse da parte delle principali potenze, anche alleate. Nell’urgenza sanitaria ogni nazione ha reagito per sé, disinteressandosi delle altre (o interessandosi tardivamente ed interessatamente ad esse: vedasi la cosiddetta “diplomazia delle mascherine”, un must di questi mesi). Reciproci sono tuttora i tentativi di approfittare della situazione: il fisiologico viaggiare della malattia espone i rivali al contagio in momenti diversi, ne svela le contraddizioni, ingolosendo chi si trova nella fase meno acuta. Anziché diminuire in vista del comune interesse, la belligeranza aumenta. Protagonisti USA, Cina, Russia, Turchia, Iran, Giappone, Germania: le prime tre per la primazia globale; le due successive per puntellare le proprie zone d’influenza; le ultime per tentare di riconquistare un parziale margine di manovra, dopo la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale.
Le potenzialità per far gemmare da tal crisi una nuova e migliore realtà ci sono: il King Oil, il petrolio, è stato detronizzato; l’economia mondiale subirà un’enorme contrazione nel 2020. Potrebbe essere il momento opportuno per attuare il tanto decantato e necessario green deal e dar nuova linfa tanto all’ambiente quanto all’economia; per superare il paradigma neoliberista, la più arrogante e nociva forma di capitalismo che potesse essere prodotta. Il virus però, oltre ad illuminare le aberranti tendenze dell’odierna umanità, potrebbe scombinare la postura delle maggiori potenze: non sufficientemente per crearne una nuova gerarchia ed un nuovo ordine globale; abbastanza per incendiare il pianeta.
L’attuale emergenza sicuramente passerà alla storia: se come principio d’una svolta o d’un dramma, ad ora non è dato saperlo.
Fonti e bibliografia
Per questo articolo sono stati consultati i numeri delle riviste Limes, Easywest, Internazionale, ISPI uscite tra i mesi di marzo e maggio 2020.
https://www.limesonline.com/category/il-mondo-oggi
https://www.whitehouse.gov/briefings-statements/joint-statement-president-donald-j-trump-president-vladimir-putin-russia-commemorating-75th-anniversary-meeting-elbe/
http://ilbolive.unipd.it/it/news/cina-covid19-coronavirus-origine-epidemia
https://www.arateacultura.com