“La sindrome di Ræbenson” di Giuseppe Quaranta – Recensione
La sindrome di Ræbenson è il primo romanzo dello psichiatra Giuseppe Quaranta, finalista al Premio Calvino 2023 con il titolo precedente la malinconia dei coralli e pubblicato da Atlantide. È parte della cinquina finalista al Premio Opera Prima 2024 del Master in editoria della Fondazione Mondadori. Un esordio folgorante incentrato su una misteriosa patologia, tra lo psicosomatico e il metafisico, che colpisce il miglior amico del protagonista.
Antonio Deltito, amico e collega del protagonista-psichiatra senza nome, inizia a manifestare delle amnesie dissociative che lo portano a vari ricoveri dove, nel frattempo sperimenta allucinazioni uditive, visione alterata, catatonia e deliri. Essendo impossibile tracciare un quadro clinico che riconduca a una sindrome conosciuta, Deltito viene accompagnato nella gestione dei sintomi e gradualmente dimesso. Nel mentre, il protagonista assiste con sconforto e impotenza alla progressiva discesa dell’amico in questo morbo inconoscibile, che sembra divorarne l’intelletto e la personalità.
La malattia di Deltito, documentata con perizia da diario clinico, conduce lo psichiatra a riflessioni sul loro rapporto, l’amicizia e la mortalità. Trovandosi di fronte all’amico sempre più distante, sempre più altro, quasi un morto in vita per la compagna e la famiglia, la volontà del protagonista di indagare sulla natura delcresce e si fa ossessione quando l’amico gli rivela, in un attimo di lucidità o delirio, di essere seguito da dei ræbensonologi: uomini incaricati di studiarlo in quanto affetto da questa sindrome, come suo padre e molti antenati prima di lui.
«Li chiamava studiosi. Talvolta al cinema non facevamo in tempo di finire di vedere un film che si alzava dalla poltrona, pronto a tornare a casa per rispondere alle loro mail. Gli dissi che questi studiosi cominciavano a occupare spazi che spettavano a noi. Di fronte al mio rimprovero dichiarò che si interessavano certamente a lui, ma anche e soprattutto ai suoi parenti. La sua famiglia era oggetto di studio perché molto longeva. Mi portò l’esempio di due zii che, nonostante avessero più di un secolo di età, erano ancora vivi, e di suo nonno Remigio, emigrato in America, che scomparve nel nulla all’età di centodieci anni in una provincia del Connecticut. Di lui si persero le tracce. Non era il primo scomparso tra i suoi familiari. Ricordo che mi precisò che non erano impazziti. Quanto si arrabbiava quando qualcuno accennava a questa cosa. Mi sento così in colpa per non aver prestato attenzione a questi indizi», sussurrò, con una punta di disperazione. «Stava inseguendo la sua follia già da allora».
La sindrome di Ræbenson, p. 71
Dal decorso ultimo della sindrome e dalle pagine manoscritte lasciate da Deltito il romanzo prende una direzione inaspettata trasformandosi in un giallo intellettuale che echeggia il Bolaño di Stella distante o, per citare un esempio più recente, il bolañano vincitore del Goncourt 2021: La più recondita memoria degli uomini di Mohamed Mbougar Sarr. Tra i misteriosi ræbensonologi, la ricerca di un’eziologia del morbo, la volontà di spiegare e risolvere definitivamente il dilemma della tragica vita di Antonio, il racconto si fa sempre più denso e intricato, trasportando il lettore nel tempo e nello spazio mentre il protagonista invecchia e si danna nella sua instancabile ricerca.
Consumato dal furor di decifrare l’enigma di Ræbenson lo psichiatra non ha altra scelta che quella di cercare di diventare il maggiore esperto di questa sindrome chimerica. Una missione, questa, che rischia di mettere a repentaglio la sua carriera e la sua vita privata ma che promette, d’altro canto, la possibilità di comprendere finalmente Deltito e di svelare qualcosa di più grande e ancora inesplorato.
La possibilità di studiare la sindrome di Raebenson era arrivata in un periodo della mia vita in cui i giochi di potere all’università mi avevano escluso dal favore di alcuni intermediari; solo un paper con un alto impact factor, o tale da generare enorme sorpresa nella comunità scientifica, avrebbe permesso di redimermi e di ottenere la nomina agognata prima della scadenza.
La sindrome di Ræbenson, p. 137
L’autore sfodera, nel suo esordio narrativo, tutta la sua conoscenza psicologica e medica per plasmare un mondo e dei personaggi profondamente credibili e approfonditi, coniugando il rigore scientifico (con tanto di note a pié di pagina) a una profonda fascinazione letteraria che inietta una dose generosa di fantasia romanzesca nel romanzo. Sono forti le suggestioni di un’immaginazione borgesiana, tra la ricerca di uno pseudobiblion scritto da un medico mai esistito e i viaggi per incontrare strani figuri in possesso di segreti.
Decisamente riuscita anche la scelta di includere un comparto iconografico di fotografie scattate o manipolate dall’autore per aggiungere una patina di “verità” documentaria alle scoperte del protagonista. Se la scelta fototestuale che dialoga diegeticamente con la narrazione scritta non può che rimandare a Sebald e ai suoi eredi (in ambito italiano è opportuno ricordare il recentemente scomparso Giuseppe Marcenaro, Filippo Tuena o Michele Mari archivista di sé stesso in Leggenda privata), la compresenza di realtà e finzione anche nella fotografia conduce a degli esiti piuttosto originali e coinvolgenti.
L’intuizione vincente de La sindrome di Ræbenson è giocata tutta nell’interstizio tra realismo e fantastico, dove il fantastico è dapprima surrealismo soggettivo indotto da una patologia e poi, gradualmente, come per un contagio progressivo, sempre più pura “letteratura come menzogna”, per citare il saggio capitale di Giorgio Manganelli. Come altri scrittori-medici prima di lui, Giuseppe Quaranta ha saputo mettere la realtà a servizio della letteratura e usare quest’ultima per esplorare il possibile e l’impossibile, recidendo con precisione chirurgica il sottile filo che separa verità e finzione, “normalità” e malattia, vita e morte.
Ma quando pensiamo che i confini della nostra pena coincidano con quelli del mondo ci illudiamo. A nessuno, in realtà, è concesso di sentire la totalità del mondo, tranne ad alcuni, forse pochissimi. Queste persone ingrandiscono all’infinito la perdita di qualcosa”, scrive ancora Deltito pensando forse a sé stesso, “tanto da finire per scontrarsi con i limiti della loro disperazione; solo a quel punto si disperano di non potersi disperare anche della totalità. Nel momento in cui concepiscono questa sete, intuiscono dentro loro stessi un sentimento che li porta a cercare quest’eterno ovunque, e per il fatto di non trovarlo, la rinuncia a essere sé stessi, o in una forma più bassa, disperatamente non voler essere un io, o nella forma più bassa di tutte: disperatamente voler essere un altro, diverso da sé stesso, augurarsi un nuovo io, in un altro luogo”. Palam et clam. Penso, leggendo queste parole, che Deltito stesse davvero vagando in uno di quei posti in cui era stato; che, al momento opportuno, come si era promesso, si sarebbe trasferito lì per passare il resto dei suoi giorni. Provava, Antonio, il dolore più tremendo per la perdita di qualcosa? Era tale da non aver spazio a sufficienza per essere contenuto. Si era scontrato con i limiti della sua disperazione, aveva cercato di espanderli. Non c’era riuscito e aveva dunque rinunciato alla propria identità. Era per questo che voleva essere un altro, altrove.
La sindrome di Ræbenson, p. 154
Con La sindrome di Ræbenson, Giuseppe Quaranta ci consegna nelle mani un esordio solidissimo, dallo stile maturo e raffinato e dalle intuizioni ben sviluppate. Resta da vedere quale sarà il percorso futuro di questo scrittore, che si presenta già ai blocchi di partenza in forma smagliante.
Giuseppe Quaranta, La sindrome di Ræbenson, Atlantide, 2023, 262 pp., 18 euro