LA RESISTENZA DELLE DONNE, di BENEDETTA TOBAGI – Premio Campiello 2023
“La Resistenza delle donne” di Benedetta Tobagi, edito per Einaudi nel 2022, e vincitore del Premio Campiello 2023, fa sentire a casa. Basta aprirlo per iniziare a nuotare in una pluralità di voci, di storie, di nomi, di luoghi. Tutti possono ritrovare il nome di una nonna, il soprannome di una bisnonna, cognomi familiari, eco di storie di “quando c’era la guerra” che a molti sono state raccontate proprio in uno di quei dialetti che spuntano tra le pagine, o con una cadenza e qualche espressione che lo ricordano. Storie ora conservate sotto la pelle e dentro gli occhi di una generazione molto anziana, se non già nella memoria di quelle che la seguono, sfumate nei dettagli, più dense d’aura, non sempre funzionale a tramandare la verità.
In questo senso è indicativa, come volesse guidare alla lettura e alle riflessioni stimolate dal grande impatto emotivo che provoca poi la lettura, la primissima frase che vediamo: “Sai chi sei?”.
Domanda cardine nel mondo di oggi che si presenta diverso in tutto, completamente cambiato nei suoi involucri sociali e quotidiani, mentre nasconde aspetti che di quello vecchio non siamo ancora riusciti a modificare nella loro struttura profonda e a cui vorremmo rinunciare, ma fatichiamo a farlo (in questo preciso momento con dolore e rabbia, aggiungerei). Allora Benedetta Tobagi racconta la storia della Resistenza femminile, delle nostre partigiane, fenomeno chiave ma quasi dimenticato della narrazione di quel momento di svolta della storia italiana, che segna il passaggio a una forma di governo democratica e repubblicana, e che per il mondo segna l’avvento di un secolo brevissimo e preparatorio a questo nuovo e sconvolgente millennio.
Quello che più tocca, in questo mare di storie, è che le protagoniste sono tutte le donne e – aspetto importantissimo – lo sono assieme alle loro fotografie. Mute, trovano tutte voce fra i capitoli. Sono donne di tutte le classi sociali, di molte fedi e idee politiche, di diversissimi futuri ormai comunque anteriori al nostro presente, sono future-anteriori: ministre e madri costituenti, maestre, casalinghe, lavoratrici d’ufficio e di campagna, studiose, e molte altre, ognuna con le proprie differenze, tutte accomunate dalla lotta alla guerra, dalla lotta per il bene e l’amor – seppur timidamente e forse per la prima volta anche – proprio, ma mai solo questo. Combattono per le loro famiglie e per le nostre, per il bene e l’amore umano che è in loro a fondamento di quello di patria, collettivo. Tutte, poi, condividono l’amarezza nei confronti di una società che ha scelto troppo spesso di essere loro indifferenti, di sminuirle, non ricordarle e, così, di non amarle. Tobagi però racconta anche questo e lo denuncia, come riporta che fece Ada Gobetti a un convegno della Cln nel 1965, che non chiese solo ai maschi, ma ai “giovani senza alcuna distinzione di sesso” di studiare e fare ricerca sul loro ruolo, sul loro contributo. Viene voglia di regalare questo libro a un fratello, un amico, dopo averlo letto.
Nella sua ricerca questo pezzo di Storia, che comprende una pluralità impressionante di testimoniante e racconti, viene raccontato e reso nella sua varietà da tale operazione apparentemente semplice e di narrazione familiare, combinatoria di parola e immagine fotografica, come fosse una preparazione strutturale a monte, che lega la narrazione multiforme, frammentata, contaminata di visivo tipica dell’oggi, a immagini dal sapore antico. A prima vista sembrano profumare di lavanda o gelsomini essiccati con un tocco acre di polvere dei cassetti, come le foto in bianco e nero degli album di famiglia, ma a lettura avviata ci si rende conto che l’armadio è quello di un’altra casa, quella della Repubblica Italiana e dei suoi archivi. Una scrittura, dunque, intrinsecamente e strutturalmente contemporanea, di sconfinamenti tra registri, toni e generi, dall’aneddotico allo storico, al vernacolare (l’unico forse a momenti un po’ sforzato per il gusto di chi scrive), al lirico, fino addirittura all’ecfrastico – come il “verso” in corsivo della foto della staffetta Onorina Brambilla (pag 87-88). Le porzioni di testo sono suddivise in numerosi capitoli che restituiscono la complessità, la trasversalità del fenomeno e delle sue sfaccettature, ma che creano anche per il lettore una possibilità di immersione nei frastuoni del caos e nella confusione che sono gli anni, i giorni, gli attimi di guerra, interrotti e bloccati nel vuoto abbacinante della spaziatura dopo ogni sezione, dopo ogni boato.
Paragrafi e fotografie si nutrono reciprocamente per restituire all’oggi una Storia le cui verità chiedono di essere prese a carico. Due momenti intrinsecamente legati, proprio come quelli dell’atto fotografico: prima la luce imprime la materia che ha attraversato su una superficie, e poi questa pelle, avendo fatte proprie le tracce indessicali emanate dalla materia viva, le trasforma in un’icona, un’immagine. Qualcosa che, nonostante l’apparente assenza di commento, racconta storie che superano persino quelle concretamente vissute dalla materia che la luce ha voluto verificare e appartengono a una dimensione umana, ma altra, più alta. Roland Barthes chiama questi aspetti della fotografia studium e punctum. Lo studium è quello impostato dal fotografo, è l’analisi compositiva e logica che l’autrice fa per ricomporre storicamente e accuratamente i fatti, da giornalista e studiosa quale è. Il punctum invece è quella parte che sovviene al singolo soggetto osservante, che lo punge, che tracima dalla memoria e scatena l’avventura racchiusa in ogni fotografia. Così la Tobagi scrittrice dà vita, fa vivere al lettore tutta l’umanità imprevedibile sottesa alle foto che ha estratto dagli archivi e con le quali ha costruito il libro. In un passo le confronta lei stessa a quelle “ufficiali” che conserviamo nella memoria collettiva, come gli scatti di Robert Capa: la mater dolorosa della seconda guerra mondiale ad esempio, una “donna” sola, un tipo di donna sola, il cui punctum, a ben guardare, rivela effettivamente l’artificiosità dell’abilissima fotografia di posa di lui, la cui (non) verità idealizzata della società patriarcale e prestabilita è aumentata dal confronto tra le pagine con la puntura di verità delle pose delle donne reali. Reali, diverse, non tipologiche e davvero vissute, ritratte nelle pose che loro hanno scelto per sperimentare quell’esperienza di micro-morte che Barthes vede nella pratica fotografica, rendendo momentaneamente eterno il transitorio.
“La resistenza delle donne” dunque è un libro che, per capire e riflettere sulle direzioni giuste e le scelte da intraprendere per il domani, recupera storie di quel passato che ancora guarda le nostre spalle, inserendosi così nel tessuto narrativo e iconico dell’oggi, ancorandolo al nostro presente, nell’attualissima dialettica tra parola e immagine. Entrambe reclamano una più “naturale” ontologia nel contemporaneo, costituito in realtà da un profondo ibridismo e co-dipendenze tra le due. Il mondo digitale, ad esempio, dove prima o poi ogni forma del visivo entra e si afferma, si basa in realtà su un linguaggio binario e sull’interazione parola-immagine: fatichiamo ormai a trovarle separate. Il mondo dell’arte fin dagli anni ’80 riflette sulla propria natura e la funzione delle storie, della parola, della rappresentazione. La letteratura si ripensa in senso cinematografico, si ambientalizza sulle nuove piattaforme intrinsecamente grafiche, visive, delle nuove forme mediali. Il cinema si narrativizza nella serialità.
Si tratta di una riflessione collocata alll’incrocio tra il narrative turn – le cui prime teorie appartengono proprio agli anni ’70 e 80′, di eredità post-strutturalista dove tutto, persino la Storia, sembra essere uno storytelling manipolabile e opponibile alla logica razionale – e l’iconic turn, teorizzato dal pioniere di cultura visuale W.T.J. Mitchell sulle orme delle intuizioni a cavallo tra i due secoli scorsi di Aby Warburg nel progetto incompiuto dell’Atlante Mnemosyne. Quest’ultimo è un atlante visionariamente costituito di soli documenti-immagine, raggruppati e riordinati incessantemente, progetto aperto e dedicato alla memoria di un’umanità che dimostra come da sempre e prima di tutto si avvale e affida alle immagini per appagare l’innato bisogno di raccontarsi, per potersi formare. Mitchell, cento anni dopo propone una teoria dove la realtà sembra sfogliarsi nelle apparenze, dove l’autorialità artistica non è più garante e non soddisfa tutto il campo del visivo, ormai retto da tensioni bilaterali tra guardante e guardato che rischiano di far sfuggire le immagini dal controllo umano, lasciando loro totale indipendenza.
Tobagi in questo libro riconduce le immagini alla mano e alla scrittura, rispettandone l’autonomia operativa di vera e propria traccia in senso fotografico. Guidata da onestà intellettuale e da quel bene per e di tutti, servendosi delle malleabilità contemporanee riesce, con strumenti insieme narrativi e iconici, a creare una dia-logica tra immagine e parola che dà non solo giustizia alle nostre ave, ma anche solidità a verità che sono per noi, oggi, fondamentali e fondative.
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https://it.wikipedia.org/wiki/Benedetta_Tobagi