Confessioni di una Millennial,  Racconti

La Nazi-femminista

di Natalia Marraffini

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Di recente ho scoperto di essere affetta da un grave morbo. Un amico durante un acceso confronto iniziò a rivolgersi a me al plurale. A un certo punto esclamò: “Voi nazi-femministe!”. Esatto. È così. Io ero una nazi-femminista senza averlo mai saputo? Se era vero, quando aveva cominciato a infettarmi questo male? Non credevo di essere tanto grave. Le nazi-femministe non sono quelle che vogliono sterminare il genere maschile? Certo, volevo spesso fare di testa mia, ma che il nazi-femminismo mi avesse infestato l’anima non lo credevo possibile. Invece il mio amico se n’era accorto facendomelo presente con una certa convinzione e io iniziai a interrogarmi a riguardo.

Tutto deve essere cominciato quando andavo alle elementari e all’improvviso comparve tra i miei giochi una Ka blu. La Ka era una macchinina bruttina, tozza e tondeggiante, per nulla elegante. Però divenne per me l’auto più bella dell’intero universo. Avevo un tappeto in cameretta dalle forme geometriche, ideale per immaginare piste, stazioni di rifornimento e parcheggi. Avevo il luogo perfetto per trasformare la mia Ka in una Ferrari rosso fiammante pronta a vincere una gara di corsa o per vedermi sfrecciare con il vento tra i capelli su di una spider giallo canarino in un pomeriggio d’estate.

Anche la visione del primo Fast and Furious non fu del tutto ininfluente. Iniziai a volerne altre. I miei genitori erano sfiniti dalle mie richieste, ma non cedettero mai. Davanti agli scaffali del supermercato pieno di modellini di auto bellissime e scintillanti fu decretato che non potevo più avere macchinine perché ero femmina. Sono convinta che il seme del morbo iniziò a germogliare quel giorno. Iniziò, silenzioso, a sedimentare in me uno strano senso di frustrazione legato alla parola “femmina”. Non potevo avere altre macchinine per quello, per via di quella condanna. Ma non potevo farci niente, ero contrariata, arrabbiata e triste, ma i miei genitori sapevano bene e con precisione cosa fosse meglio per me.

Ma quand’è che sono diventata così gravemente una nazi-femminista? Credo che il germoglio del morbo si sviluppò all’oratorio, nel periodo tra le elementari e le scuole medie. Vivevo in un piccolo paesino sperduto e d’estate l’unica attrattiva per i bambini era l’oratorio accuratamente suddiviso in femminile e maschile. I maschi giocavano a calcio tutto il giorno e tornavano a casa sudati, felici, con grandi sorrisi sul viso. Io, invece, ero femmina, dunque ero costretta a fare il punto croce sotto la grande quercia di un cortile pieno di ghiaia su cui era pericolosissimo correre. Ma non per la ghiaia. Per via delle ciabatte volanti lanciate dalle suore al primo movimento di troppo.

Abbandonai l’oratorio, divenni un’eretica e un’eremita. Non avevo più nulla da fare durante l’estate se non attendere che i genitori tornassero dal lavoro. Ero abbastanza grande per stare da sola in casa, ma non per uscire. In realtà, anche se fossi uscita, non avrei avuto nessuno da incontrare. Erano tutti all’oratorio. Tranne la mia migliore amica, che poteva giocare con le macchinine e aveva la Play, ma andava in montagna tre mesi. Eccolo il germoglio: essere una femmina che non voleva fare il punto croce era una condanna. Se non volevo starmene seduta ad annoiarmi mentre i maschi giocavano a calcio, allora questo voleva dire che non volevo essere femmina. Sì, pensai che essere femmina fosse un male, qualcosa di sbagliato. Non è che mi piacesse giocare a calcio, il punto era che volevo correre anche io. Volevo ridere anche io. Volevo saltare, andare sull’altalena, buttarmi giù dagli scivoli e tornare a casa sudata e con il sorriso. Invece no. Solo il punto croce potevo fare. Allora preferivo annoiarmi a casa. La mia era già una prima forma di protesta contro il sistema.  Sì, sono decisamente malata di nazi-femminismo da allora.

Dopo il germoglio, venne il tronco. Si formò quando nella solitudine e nella noia estiva trovai, finalmente, qualcosa da fare. La cosa più terribile e sbagliata per una femmina: leggere. La mia famiglia andò in tilt. La bambina voleva leggere. Me lo avrebbero voluto negare, ma non si poteva perché, tutto sommato, era una cosa buona. Le maestre lo consigliavano. Sbuffando mi compravano i libri dalle copertine di colori sgargianti e con i bordi delle pagine tinti di rosa. Il mio preferito era: “Voglio vivere in una soap opera”. La protagonista odiava la sua realtà e viveva immaginando un mondo ideale, perfetto, in cui lei poteva fare quello che le pareva. Esattamente come me. Il secondo nella mia classifica era “Lettere a uno sconosciuto” in cui tre migliori amiche iniziavano di compito per la scuola un’amicizia di penna con dei ragazzi, maschi, di un altro istituto. Le amicizie rivelarono varie sfaccettature come un vero amore o un terribile inganno e le ragazze, con la loro alleanza, superavano ogni difficoltà. Proprio come avrei voluto fare anche io. Avere due amiche con cui superare l’estate. Qualcuno. Invece no, le trascorrevo in compagnia di personaggi immaginari. I miei si chiedevano spesso perché non iniziassi a truccarmi o a pensare di più a come mi vestivo, ma io continuavo a chiedere libri e non volevo fare shopping. Sì, ora ne sono certa. Il tronco del mio morbo fu la lettura, un’abitudine che divenne terreno fertile per quel piccolo arbusto che è diventato la mia malattia.

L’alberello del nazi-femminismo spuntò in me il giorno in cui al liceo, durante l’ora di letteratura, mi misi a sfogliare il manuale. Mi focalizzai a guardare le foto degli autori all’inizio di ogni capitolo e mi resi conto di una cosa che nessuno mi aveva mai fatto notare: erano tutti uomini. Questa consapevolezza mi colpì come una botta in testa. Erano maschi. Eccola. La condanna mia e di tutte le mie compagne di classe. Ventiquattro future donne destinate a non entrare mai nei manuali di scuola. Infatti, in nessun libro di scuola avevo mai studiato una personalità femminile.

Eccolo lì, lo vedete un piccolo alberello di morbo che cresce nella me adolescente? Io lo vedo nitido. Ha le sue radici nelle macchinine che mi hanno negato, nella mia fuga dal punto croce, nell’amore per la lettura di storie dove scoprire se un mondo adatto a me potesse esistere. Esso cresceva grazie alla consapevolezza che per quanto grande potesse essere il mio impegno in qualcosa, in qualsiasi cosa né il mio nome né quello di alcuna delle mie compagne di classe avrebbe mai lasciato il segno. Nessuna di noi avrebbe mai potuto neanche immaginare di restare nella storia. A pensarci bene, la mia malattia era voler fare quello che mi pareva. Volevo essere libera di seguire le mie inclinazioni e la mia curiosità senza freni. Poi, volevo sognare in grande: volevo immaginare di fare cose importanti, ma questo mi veniva negato.

Un ottimo fertilizzante per il morbo che mi affligge fu la questione del motorino. Sognavo di averne uno quando andavo alle superiori. Tutti i maschi ne avevano uno! Perché io no? Mi dissero che non volevano finire col raccogliermi con il cucchiaino sul ciglio di una strada e l’argomento fu chiuso. Io, però, avevo capito benissimo che se fossi stata maschio quel motorino me lo avrebbero comprato. Lo avevano tutti i maschi e una mia amica. Avevo imparato a scegliere le amiche giuste: le eccezioni. Quelle che potevano fare tutto o, almeno, molto più di me. Le più meravigliose amiche che potessero esistere erano quelle diverse e strane. Il capitolo motorino fu breve ma intenso: un tripudio di rabbia e frustrazione adolescenziale. Come potevo non ammalarmi dopo questa ennesima negazione?

Anche decidere di studiare filosofia dopo il diploma non ha giovato alla mia salute. Il morbo nazi-femminista deve aver avuto un altro bel po’ di fertilizzante all’università. La lettura mi aveva infettato talmente tanto il cervello che, a quel punto, volevo laurearmi. I miei genitori ebbero un infarto. Loro si sarebbero accontentati di avere come figlia una giovane donna che a sedici o diciassette anni andasse a lavorare, poi matrimonio, figli e taac. Fatto. A posto. Coscienza pulita. Nonni felici. Famiglia felice. Invece no. Portavo già dentro di me il morbo del nazi-femminismo ben sviluppato senza saperlo. Mi avevano negato le macchinine, il motorino, mi avevano costretta all’isolamento ai tempi del punto croce, non potevo sognare in grande. La frustrazione era troppa. Nessuno avrebbe potuto negarmi la filosofia.

All’università provai a sposare lo stereotipo del femminismo. Tagliai i capelli, decisi di smettere di depilarmi e misi nell’armadio le scarpe col tacco. Mia madre decretò: “Vedrai, tornerai da me strisciando supplicandomi di darti un rasoio!” perché conciata così nessun uomo mi avrebbe più voluta. Avevo raso al suolo le mie possibilità di rimorchio. Se avessi incontrato l’uomo della mia vita conciata così sarebbe scappato via. Però, ero disposta a restare zitella, fu così che conobbi uomini a cui non importava della lunghezza dei miei capelli, dei miei peli, della presenza di trucco sulla faccia o dei tacchi sotto i miei talloni.

Questo approccio non durò a lungo, dopo aver rinnegato per qualche anno lo stereotipato mondo della femminilità, me ne riappropriai secondo i miei personali equilibri e con la consapevolezza che la mia vita o la mia capacità di rimorchio, non sarebbero state intaccate dall’assenza di trucco o dalla lunghezza dei miei capelli.

Adesso, forse, qualcuno potrebbe chiedersi se all’università io non abbia studiato le mega-femministe storiche che costituiscono lo scheletro del morbo che ora mi opprime. Non sta proprio nella letteratura femminista la radice del nazi-femminismo che mi affligge? No. La vera radice sono le macchinine. Sì, ho studiato delle femministe, mi hanno fatto capire tanto sul perché della mia frustrazione, mi hanno dato parole per definire meglio la realtà che ho vissuto. Ma il mio morbo ha un nucleo più viscerale, che proviene dall’infanzia, da quel periodo della vita in cui le cose ti segnano in modo irreversibile o quasi. Avrei potuto studiare tutte le femministe del mondo, ma nessuna avrebbe mai potuto definirmi tanto quanto quella negazione profonda. Nulla mi avrebbe mai potuto far ammalare come tutti i divieti che sono seguiti a cascata negli anni. Fino ad arrivare alla contraddizione assoluta: l’ansia di uscire di casa.

Ne sono certa, a creare in me una voragine che fu colmata dal morbo del nazi-femminismo fu mia madre che per anni mi tormentò dicendomi di stare attenta agli stupratori in stazione tutte le volte che uscivo di casa. Lo diceva con leggerezza, giudicando ciò che indossavo. Non c’era nulla nel mio armadio che andasse bene. Basta. Mi avevano negato troppe cose. Io questo disagio non lo volevo. Così, a vent’anni decisi di fare kung fu perché nessuno mi doveva dire come vestire e io volevo sentirmi sempre al sicuro. Ero in un vicolo cieco: non potevo né andare in stazione né imparare a difendermi. Entrambe le cose erano sbagliate perché ero femmina. Non c’era una via di uscita. L’unica soluzione era quella di uscire con qualcuno e di farsi riaccompagnare a casa. Magari da un fidanzato. Il fatto è che non mi andava di avere un ragazzo che si prendesse cura di me come se fossi ancora una bambina da venire a prendere e da portare a casa. Un fidanzato-genitore? No, grazie. Furono mesi duri perché quasi tutti mi dicevano che non ero adatta a uno sport di combattimento e che mi sarei fatta male. Avevo solo il supporto delle mie amiche, di quelle eccezioni che mi hanno dato speranza negli anni.

Da quell’anno minaccio tutti con la cicatrice che ho sulla mano comparsa dopo solo otto mesi di allenamento: frattura scomposta, a farfalla, del quarto metacarpo. Sono stata operata due volte e sono stata bionica per sei mesi. Ci ho messo più di un anno a guarire. Ma ha funzionato. Quella cicatrice ha una potenza psicologica infinita perché io, se voglio, spacco i culi, e nessuno può più dirmi di non andare in stazione la sera o come mi devo vestire. Piuttosto, posso dire agli altri che gli stupratori non si annidano come spore in stazione. Si trovano nelle case, si nascondono negli animi degli stessi fidanzati che ti accompagnano in stazione e che ti riaccompagnano a casa, in mariti che si prendono cura di te come se fossi una bambina. Gli stupratori si trovano in famiglie malate e distorte, in relazioni tossiche di dipendenza emotiva ed economica. Solo molto raramente li vedi in stazione.

La mia cicatrice pallida, sottile, lunga quanto tutta la mano dalla nocca al polso ha un valore inestimabile. È una cicatrice contro il sistema. Quel taglio è uno spartiacque dalla me che non sapeva cosa dire quando le dicevano di non andare in stazione vestita così, alla me che fa esattamente tutto il cazzo che le pare e ha sempre la risposta pronta. È un limite sottile e candido sulla mia mano destra, quella con cui afferro tutte le cose che gli altri non mi vogliono dare. La mano con cui scrivo, quella con cui adesso non mi lascio sfuggire niente. È una ferita, sì, perché ottenere tutto ciò che mi viene negato è difficile, a volte è una sofferenza e spacca. Crea uno stacco tra me e le persone, genera una distanza. Spacca le palle alla gente e spacca l’anima. Ma è anche un segno, un simbolo che ha un significato. Una storia da raccontare, una risposta alla mia famiglia, alle suore e alla società intera. Nella contraddizione di non poter né andare in stazione né andare a kung fu io ho fatto tutto. Anche a costo di rompermi. Quella cicatrice incarna il limite che mi ha plasmata, è il limite che non ho mai potuto attraversare e che è dovuto diventare casa mia, ma che ho deciso di spezzare. È un confine immaginario verso l’ignoto. Un futuro ignoto che rifletterà esattamente con me stessa. Sarà esattamente me quella sconosciuta che sta al di là: una donna che ancora non conosco, che posso solo intravedere, ma che coincide con i miei desideri e i miei sogni. Quella cicatrice lo dimostra. È la mia base solida verso il futuro insieme alla mia collezione di macchinine, alla mia moto e alla mia libreria. Ognuno ha i suoi punti fermi nella vita. I miei sono questi.

Ma mi stavo interrogando su questo morbo nazi-femminista che mi affligge, non divaghiamo. Quando ho iniziato a lavorare in ufficio il mio approccio alla vita sconvolgeva colleghi e colleghe. Ripenso a quando mi facevano vedere le foto dei loro bambini o del loro matrimonio ed ero sinceramente felice per loro. Ripenso a quando mi chiedevano se ero sposata o se avevo figli e io dicevo di non volermi sposare e di non volere bambini. Ripenso a quando mi veniva detto che avrei cambiato idea, a quando mi dicevano che dovevo trovare solo la persona giusta, l’anima gemella. Una volta, una persona di quelle tra le mie eccezioni, mi ha detto che una buona relazione è più simile a una ben oliata catena di fast food piuttosto che a una favola. Non esistono relazioni perfette, ma per lo più rapporti in cui condividendo valori comuni ci si confronta, si collabora per degli obiettivi comuni e si cresce insieme. Credo più alle mie eccezioni che a tutti gli altri. Piuttosto che l’anima gemella preferisco mettere su una bella catena di fast food con qualcuno. Sì, potrei cambiare idea. Ma non ho mai detto a chi ha messo su famiglia che cambierà idea. Invece a me lo hanno ripetuto troppe volte.

Garantire la sopravvivenza del genere umano non è il mio desiderio più grande. Il mio sogno è essere esattamente me stessa, ma questo non piace alle persone che incontro e mi dicono che cambierò idea perché sono ancora giovane. Se voler essere libera significa essere nazi-femminista, allora lo sono. Questo morbo è cresciuto in me fin da quando sono nata e hanno messo il fiocco rosa sulla porta.

Ho pensato che, forse, il nazi-femminismo non è un morbo, ma un abito che mi casca a pennello, che un po’ me lo hanno cucito addosso e un po’ mi è piaciuto così tanto che non me lo voglio più togliere. Sono andata a cercare da dove arriva questo termine. A quanto pare la prima volta che è stato usato indicava tutte quelle donne che desideravano sterminare il genere maschile attraverso l’aborto. La cosa mi ha fatta ridere. No, questo tipo di sterminio non fa parte dei miei interessi, però pare che oggi questa parola stia a indicare tutte quelle come me. Quelle che non ridono più a una battuta sull’inferiorità delle donne o sul fatto che sono oche o rompicoglioni. Infatti quel giorno non ho riso alla battuta del mio amico e lui mi ha fatto presente cosa sono diventata. 

Mi sono scelta questo bell’abito del nazi-femminismo perché fin da quando sono bambina cercano di sterminare dentro di me ogni sogno. Nessuno mi ha dato una soluzione sostenibile quando volevo andare in stazione da sola, quasi nessuno mi ha incoraggiata quando volevo imparare a combattere. Allora, nessuno a parte me si è fatto male. Mi sono fatta male per essere me. Se ne sono stati tutti lì a dirmi che non potevo andare in stazione, che non potevo andare a combattimento. Così, ho scoperto di essere nazi-femminista perché c’è qualcosa che voglio sterminare: i giudizi, i pregiudizi e questa apatia. Questo starsene in un angolo a guardare, a dirmi tutto quello che non dovrei desiderare. Voglio sterminare questo starsene muti e increduli quando la vicina della porta accanto viene stuprata dal marito. No, gli stupratori non si trovano in stazione di solito.

Vorrei sterminare questo silenzio. Voglio che si sappia di tutte le macchinine che non ho avuto, del punto croce che mi ha condannata alla solitudine, del kung fu che mi ha rotto la mano. Voglio che si sappia che ogni negazione è stata per me una voragine che ho colmato come ho potuto. Rompendomi le ossa. È per questo che sono nazi-femminista, ma di un tipo particolare dato che, in realtà, si tratta di autolesionismo. Infatti, continuo a farmi del male da sola, e non ho nessuna intenzione di smettere.

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Natalia Marraffini

Autrice della rubrica "Confessioni di una Millennial"