“La casa del Mago” di Emanuele Trevi
Un articolo di Francesca Manzoni
Mio padre si era meritato, a modo suo, l’amore incondizionato che avevo provato per lui, e l’altrettanto incondizionata ammirazione per la sua unicità. Vederlo in sogno come un bestione feroce e dolente, oltre che stupido come tutti i risentiti, che tirava pugni ai muri e bestemmiava digrignando i denti, minacciando di annientarmi, non significava affatto, a mio modo di vedere, che quell’amore era malriposto, o eccessivo; semmai, quei sogni parlavano di me, ovvero di quello che vi appariva nettamente, a ragionarci sopra con la dovuta attenzione, come il mio più grande limite affettivo: la pretesa di amare senza conoscere.
Emanuele Trevi è tornato. Dopo la vittoria, nel 2021, del Premio Strega, con il romanzo “Due Vite” (Neri Pozza, 2021), l’autore romano si candida alla vittoria del Premio Campiello con “La casa del mago” (Ponte alle Grazie, 2023) un’opera che, pur mantenendo quello stile tragicomico e irriverente che contraddistingue la prosa di Trevi, riesce nell’impresa di regalare allo spettatore profonde pagine di introspezione e autoanalisi.
Ancora una volta Trevi decide di non attribuire all’atto di scrittura il compito di donare al suo pubblico un’avvincente storia, quanto piuttosto di utilizzare il romanzo come uno strumento d’indagine, col fine di analizzare e comprendere a pieno quell’enigmatico senso di incompletezza che la morte di suo padre ha portato con sè. Ecco che l’autore-narratore (unica voce all’interno dell’opera) comincia a riflettere su una vicenda profondamente autobiografica: è la decisione di trasferirsi nella casa del mago, lo studio in cui Mario Trevi, celebre “curatore”, psicanalista junghiano, ha vissuto fino alla morte, a creare i presupposti per un viaggio attraverso il tempo, lo spazio e la disciplina psicanalitica, alla ricerca di un senso in grado di colmare il vuoto.
Il romanzo si apre così con un preciso ricordo d’infanzia, che vede protagonisti Trevi, ancora bambino, e suo padre, in procinto di partire per un viaggio a Venezia, in occasione della Biennale. All’apprensione della madre, impaurita all’idea di lasciare da soli un adulto “che non si cura mai del prossimo” e un bambino “con la testa tra le nuvole” si contrappone la frenesia di quest’ultimo, emozionato all’idea del viaggio. Ma è proprio nel corso di una passeggiata a piazza San Marco che, mentre si apprestava a nutrire i piccioni, il piccolo Trevi si rende conto di aver perso suo padre: all’interno della folla frenetiche che popola la piazza, si aggrappa ad un trench marrone, che presto si rivela essere di un’altro uomo.
“Io – che pure intuivo di avere un carattere diametralmente opposto al suo – volevo già da allora essere l’ombra di mio padre, o almeno del suo involucro. Aspiravo a una rassicurante, affidabile mediocrità capace di generare l’unica sintonia possibile con quell’uomo così difficile da interpretare. Se ne andasse dove voleva: io sarei stato lì, un bambino-valletto poco percepibile ma capace di diventargli subdolamente indispensabile. E a pensarci bene sono rimasto uguale, nei suoi confronti, fino alla sua ultima notte”
Ed è proprio a partire da questo aneddoto che il lettore inizia non solo a delineare il profilo di Mario Trevi, ma anche a comprendere l’entità del rapporto che intercorre tra lui e suo figlio. Un ricordo che si configurerà, all’interno del racconto, come una grande metafora, oltre che lo scrigno in cui si cela il senso del romanzo: quello dell’autore non è altro che un tentativo di afferrare, viaggiando tra passato e presente, l’enigmatica e sfuggevole figura del padre, alla ricerca di un contatto e di una vicinanza in grado di colmare quel vuoto lasciato dalla sua morte. Perché infondo, cercare di comprendere chi ci ha cresciuto e amato, vuol dire provare a comprendere, anche se solo parzialmente, noi stessi . Ancora una volta dunque, l’atto di scrittura è il tramite con cui Emanuele Trevi indaga ciò che si cela dietro ricordi ed emozioni, sfruttando, ancora una volta, la straordinaria forza eternatrice del romanzo.
Un romanzo su più piani: tra presente, memoria e psicanalisi
La casa del mago è un romanzo che, dal punto di vista tecnico, viaggia e si muove su diversi piani narrativi: frammento dopo frammento, riflessione dopo riflessione, essi si intersecano, portando il lettore all’interno di un flusso di coscienza che, a partire da spunti e stimoli differenti, regala pagine di profonda introspezione. A partire da uno spazio chiuso e solo all’apparenza claustrofobico, quello dello studio del padre, diventato nel presente la nuova residenza dell’autore, la narrazione si dilata, aprendosi a spazi e tempi differenti, appartenenti non solo alla memoria ma anche allo studio dei manuali e degli oggetti che popolano la casa.
Il fulcro da cui si dipanano i diversi piani narrativi corrisponde ad un presente narrativo in cui l’autore-protagonista, a seguito del trasferimento nella “casa del mago” si trova a vivere. Lo spazio esterno è quello di una Roma contemporanea e frenetica, allegoria di un continuo dinamismo a cui si contrappone drasticamente uno spazio interno, quello di una “casa museo”, in cui il tempo sembra fermarsi in una condizione di stasi perenne. Saranno proprio le “tragicomiche” interferenze a veicolare la narrazione, e a permettere, in diversa misura, lo scioglimento della stasi: in primo luogo emerge la figura della Degenerata, una svogliata signora delle pulizie che Trevi non riesce a licenziare e che, piano piano, si insinua all’interno delle mura di casa. Alla figura della domestica, ben presto, si associa quella di Paradisa, un’amica di quest’ultima con cui ben presto, il narratore, inizierà ad intrattenere una pseudo-relazione sentimentale. Ad accostarsi alle prime due “donne dall’esterno”, reali e tangibili, vi è però una terza entità (reale o allegorica) chiamata La Visitatrice, che di notte, quanto Trevi sta dormendo, si insinua all’interno della casa lasciando mozziconi di sigaretta coperti di rossetto e lattine di birre Tuborg da cui spunta il gambo di un fiore scarlatto. Tutte queste enigmatiche figure, amate e odiate dal protagonista-narratore, danno forma al presente, quasi come se la loro l’energia fosse necessaria per riattivare, all’interno della “casa del mago” lo scorrere di un tempo che, con la morte di Mario Trevi, si era fermato.
A partire da questo primo piano narrativo, entra in gioco la memoria autoriale, composta, allo stesso tempo, sia di “ricordi diretti”, fatti di esperienze condivise dal padre con il figlio, sia di “ricordi indiretti”, composti da una serie di racconti e indagini che vedono protagonista il passato e la giovinezza del mago. È proprio attraverso la rievocazione di questi numerosi frammenti che Trevi riesce ad indagare l’enigmatica figura del padre, cercando di tracciare i bordi di un immagine sfocata ed enigmatica. Ecco che, al primo ricordo d’infanzia legato a Venezia, si sussegue una seconda gita, nel medesimo luogo, ma svoltasi molti anni dopo, quando l’autore è ormai grande e il padre ormai anziano: la ricerca di un riscatto e di un’inversione dei ruoli si rivela però fallimentare, i due vengono derubati a causa di una dimenticanza di Trevi, a dimostrazione di come il tempo non abbia mutato in alcun modo la gerarchia vigente tra i due.
“L’adulto che ero diventato non era diverso dal bambino che, in occasione di una precedente Biennale, aveva afferrato la cintura di un trench sbagliato. Cosa c’era che non andava in me? Erano più di venticinque anni che aspettavo di tornare con mio padre a vedere la Biennale, e avevo ficcato tutti e due nelle grinfie di una fiabesca banda di malfattori gitani, che immaginavo vestiti come gli amici di Carmen radunati all’ombra dei bastioni di Siviglia. ”
L’utilizzo del piano narrativo legato alla memoria, in questo senso, pur servendo a delineare i confini del rapporto padre e figlio, risulta per l’autore, nell’atto di scrittura, quasi un’esperienza catartica, in grado di penetrare all’interno del subconscio e veicolare quell’indagine che, passo dopo passo, sposta il suo focus dall’esterno all’interno, rendendo esplicite tutte quelle sfaccettature e contraddizioni proprie dell’Io autoriale. L’uso del ricordo, configurandosi dunque come l’unica possibilità di un contatto diretto con suo padre, diventa la chiave per l’introspezione più profonda, sentimento che, senza alcun dubbio, ha veicolato la genesi del romanzo.
Un terzo e ultimo piano narrativo risulta essere quello di stampo teorico-psicanalitico, che vede l’autore in procinto di leggere e studiare i numerosi volumi rimasti all’interno dello studio. Attraverso le letture delle opere di Carl Gustav Jung, le fantasie di Miss Miller e la ricostruzione delle relazioni paterne con Ernst Bernhard, Trevi, seduto a quella scrivania che un tempo separava il “curatore” dai suoi pazienti, sembra cercare un varco all’interno della complessa psiche del padre, in un terzo e ultimo tentativo di comprenderlo veramente. Perché quello dell’autore è un percorso di ricerca, un indagine nei meandri della psicanalisi, nel tentativo di trovare una risposta univoca, in grado di giustificare una forma d’amore, quella provata nei confronti dei genitori, tanto incondizionata da non richiedere presupposti, da non necessitare la conoscenza.
La casa come un “museo vivente”
“Su tutto però prevaleva la sensazione di non essere mai veramente solo: come se in quella casa il presente convivesse con il passato, o magari con il futuro, generando delle continue sovrapposizioni.
Protagonista assoluta dell’opera, come suggerisce il titolo stesso, è senza dubbio la casa del mago un’entità statica, cristallizzata nel tempo, ma abitata da molti fantasmi del passato, in grado di creare numerose stanze della memoria che cercano di sopravvivere all’inesorabile scorrere del tempo. La scelta dell’autore-protagonista di trasferirsi è dettata, in apparenza, dall’impossibilità di trovare un acquirente, come se l’abitazione respingesse, con tutte le energie a sua disposizione, chiunque provasse a violarne l’intimità. Ecco che, in poche pagine, si comincia a delineare il profilo di una casa museo, in cui gli oggetti possiedono un significato diverso rispetto a quello puramente tangibile e materiale, capace di rivelarsi solamente a posteriori, solo a seguito della morte del padre.
“Oggi non c’è praticamente nulla, perché io conservo questa scrivania solo come un ingombrante cimelio, un monumento alla memoria. Ci ho sistemato sopra dei quaderni, dei libri, un portapenne, che se ne stanno lì a prendere la polvere, ma non ci lavoro mai, mi mette a disagio; scrivo e leggo sul divano, o sul letto, e ovviamente non devo curare nessuno. È il pezzo più notevole – non fosse altro che per le dimensioni – del museo di mio padre: una bizzarra congerie di oggetti di cui sono diventato il curatore e il custode, e di cui queste pagine sono una specie di catalogo ragionato.”
La descrizione di quello che, un tempo, era lo studio di Mario Trevi è infatti caratterizzata dalla presenza di continue madeleine proustiane, capaci di fornire l’innesco per l’evocazione di una memoria quasi involontaria, fatta non solo di ricordi privati, ma anche di fantasmi del passato e varchi verso nuove e inesplorate dimensioni, quelle della psicanalisi, studiata e approfondita attraverso la lettura di tutti quei libri precedentemente appartenuti a suo padre. Ecco che tutti gli oggetti si riempiono di significati nuovi e inediti, che proprio Emanuele Trevi, nel ruolo di figlio, ha il compito di costudire con cura: non solo manuali, ma anche vasi in ceramica, collezioni di sassi perfettamente lucidati e una coperta bucata da un foro di proiettile, l’oggetto più prezioso all’interno del museo.
Attraverso la creazione di una “casa museo”, Trevi si trova così a ricoprire il ruolo del custode-ricercatore, provando, allo stesso tempo, a fermare il tempo e ad indagare la natura nascosta degli oggetti, alla ricerca di un segno in grado di fornire una panoramica più completa e cristallina della figura di suo padre: il risultato delle sue indagini non sarà altro che un viaggio di profonda introspezione e di analisi del proprio Io. Nel tentativo di dipingere un quadro sincero della figura di Mario Trevi, l’autore finisce dunque per produrre un autoritratto di se stesso: tutte le domande che fino a quel momento si era posto, tutti gli arcani che si celano dietro a quel mago enigmatico, non possono far altro che rimanere inconclusi e sospesi, in un viaggio che non è più atto alla scoperta, quanto all’accettazione di tutti quei misteri che, inevitabilmente, si celano dietro l’amore incondizionato provato per suo padre.
Saranno proprio le interferenze prodotte dal mondo esterno, la Disgraziata, Paradiso e la misteriosa Visitatrice ad intaccare l’aura di sacralità costruita attorno alle mura di casa, riportando il tempo alla sua linearità e permettendo all’autore di costruire una nuova memoria e nuovi ricordi all’interno di uno spazio considerato, fino a quel momento, ostile. Al termine del romanzo il viaggio si apre a nuovi orizzonti spazio-temporali, portando l’autore fuori da Roma, prima in un piccolo paese delle Langhe, dove il padre è nato e cresciuto e poi a Ginevra, in Svizzera. La “casa del mago” esiste ancora e probabilmente non ha smesso di essere un museo, ma proprio nell’accettazione di non poter decifrare a pieno suo padre e di non poter trovare in quella tana un senso al suo amore, Trevi ha ricominciato a sentire quel misterioso mago-curatore che l’ha cresciuto, vicino.
Tracciare un profilo per trovare un contatto: quando l’amore non necessita la conoscenza
Emanuele Trevi affidandosi, ancora una volta, alla memoria autobiografica, regala al lettore un romanzo fatto di straordinaria sincerità, autoironia e introspezione. Un’opera che, pur partendo dai presupposti di un indagine, nei meandri dell’identità di un padre ormai scomparso, si rivela ben presto essere un percorso di crescita e trasformazione di un Io Autoriale incapace di trovare in ciò che lo circonda e nella psicanalisi un senso a quell’incondizionato amore genitoriale che ha provato, e che ancora prova.