La Cameriera – Confessioni di una Millennial
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A Suns
Ho iniziato a farela cameriera sul finire delle scuole superiori e quando ho smesso, molti anni dopo, ho capito che cameriera ci sono nata e ci resterò per tutta la vita. Ho lavorato in discoteche, pub, bar e pizzerie. Ogni locale ha le sue peculiarità ma c’è un fil rouge che lega insieme tutte queste esperienze come se fossero una. Un filo rosso che oggi è per me un gomitolo composto e ordinato, ma allora no, era una matassa tutta annodata e scomposta in cui inciampavo in continuazione.
Tutto è cominciato con le discoteche. Lì più che la cameriera facevo la raccatta-bicchieri. Cioè, mentre tutti si sbronzavano, si strusciavano, ballavano e perdevano coscienza io recuperavobicchieri negli angoli piùremoti e impensabili del locale. Ne ho trovati ovunque: per terra ai bordi della pista da ballo, conficcati nei posacenere, accanto ai cestiniosu qualunque superficie libera che potesse ospitarne uno. Anche nei bagni. La gente perde pudore in discoteca e i bicchieri diventano vittime di questa totale assenza di consapevolezza. Un vero sballo.
Fu un tipo moro, latino, dallo sguardo passionale a parlarmi di quel filo rosso per la prima volta. Una sera mi si avvicinò vaneggiando del destino. Sì, l’ho scoperto così.Si tratta del filo che ogni persona porta, fin dalla nascita, legato al mignolo della mano sinistra e che lo uniscealla propria anima gemella. È una leggenda giapponese che lui conosceva bene e mi disse che noi eravamo destinati a incontrarci. Era il fato a portarmi nella sua esistenza. Ero il suo futuro. No, era solo l’alcol, ma lui non lo sapeva quindi mi invitò a ballare. Il mio rifiuto fu corredato da un sorriso, d’altronde avevo davanti un cliente sbronzo. Fraintese? Prese il mio no per un sì? Non aveva sentito bene per la musica troppo alta? Fatto sta che tentò di baciarmi. Quando lo spintonai viaquel filo si annodò e per la prima volta ci inciampai.
Nei giorni successivi pensai che forse era la discoteca che non faceva per me. Inoltre gli orari notturni erano molto faticosi. Perché non lavorare in un pub? Avrei finito prima e sarei stata più tempo dietro a un bancone piuttosto che in mezzo a clienti ubriachi. Sembrava un’ottima idea. Trovai impiego in un piccolo pub di paese con molti clienti fissi e poco casino. Per tre sere a settimana eravamo io e il capo, custode e protettore della mia persona. Per lo più spillavo birre, friggevo patatine e, a fine serata, caricavo i frigoriferi di bibite che recuperavo dal magazzino. Cosa poteva andare storto? Nulla a parte il fatto quel semestre all’università finivo di lavorare alle 2.00 di notte e avevo lezione alle 8.00 del mattino, ma per la me ventenne era un dettaglio irrilevante.
Questa volta il mio fil rouge era brizzolato, pallido e sempre un po’ brillo. Una sera mi disse: “I tuoi occhisono occhi da cerbiatta e il tuo seno è perfetto, come due coppe di champagne”. Eravamo legati da un filo rosso:il nostro incontro era scritto nel destino. Fin dalla nascita la vita aveva prestabilito che ci saremmo incontrati e che il nostro amore ci avrebbe cambiato la vita. Era un vero peccato che fossi fidanzata. Fidanzata? Ma davvero? Certo. Fidanzata? Ma veramente? Sì. No, mafidanzata? Realmente? Certo. Peròl’anello non ce l’avevo. Se avessi guardato bene al mio mignolo c’era quel filo, lo stesso che era legato al suo. Ci univaper l’eternità. Questo fidanzato che avevo, invece,era solo passeggero, me lo sarei dimenticato presto. Eppure, Dopo qualche settimana, quando si accorse che non sarei tornata single si offese. Così Cercava di insultarmi: “Ma dove fai shopping? Al reparto bambina? Con quelle tettine che ti ritrovi è certo!”. Hey, ma il mio seno non era perfetto come coppe di champagne? Non più.Il capo, mio custode e protettore, durante questi dialoghi di altissimo livello, guardava la partita.
Una sera, ormai in chiusura,rimanemmonel locale solo noi tre. Avevamo smesso di dargli da bere già da un po’ perché stava esagerando. Si fecero le 2.00 e ormai potevo staccare. Però non avevo parcheggiato vicino al pub quella sera e sentivo quel filo così tanto stretto al dito che quasi non ci passava il sangue, quasi me lo staccava, quel dito. Il capo non si accorse di nulla e quel filo mi arrivò in gola, si annodò lì rendendomi incapace di dire una cosa semplice. Temevo che questo tipo mi seguisseuna volta uscita dalla porta. E poi… Non sapevo. Non osavo dirmi cosa temessi. Non sapevo nemmeno pensarlo. Forse non era niente, mi stavo immaginando tutto.
Dopo più di mezz’ora presi coraggio e andai. Nella testarimbombava la sua voce che elogiavai miei occhi da cerbiatto, il mio seno a coppe di champagne. Poi lo sentivo disprezzare la mia maglietta comprata al reparto bambina. Come immaginavo, uscì dietro di me. Alla prima svolta cambiò strada, ma fu solo quando misi in moto e partii che quel nodo si allentò, tornai a sentire l’aria entrare nei polmoni e il ditodi nuovo attaccato al resto della mano.
Finire così tardi in settimana era insostenibile. Un semestre poteva bastarmi. Forse lavorare in pizzeria poteva fare il caso mio. Trovai un posto in un locale che faceva parte di una catena, staccavo al massimo alle 23.00 e portavo ai tavoli solo da bere o il dolce, non dovevo neanche scottarmi le mani con i piatti bollenti.Fu un bel periodo perché dovevo vestirmi di nero: ero anonima. La gente che va a mangiare la pizza non si cura della cameriera, è lì per stare con gli amici o in famiglia. Quando ci sono i compleanni canta, applaude, è felice. Solo raramente si sbronza e, se accade, c’è sempre qualcuno della compagnia che smorza i comportamenti eccessivi. Le persone erano concentrate su sé stesse e io potevo svolgere il mio lavoro senza inciampare mai in quel filo rosso.Forse quel filo non era neanche mai esistito, me lo ero solo immaginata.
Mi illudevo. Ricomparve durante un diciottesimo. Di quel filo ricordo solo il flash della foto che mi venne fatta. Stavo consegnando alcuni piatti sporchi al lavapiatti e alle mie spalle c’era una tavolata di neomaggiorenni. Il flash illuminò tutta la parete e anche la mia schiena. Fu allora che scoprii che il mio culo è un’opera d’arte e che i clienti non li puoi mandare a fanculo, che sono solo ragazzi. E io nulla. Imbrigliata in un filo rosso ormai pieno di nodi che non riuscivo a districare. Continuavo a inciamparci dentro.
Forse era colpa mia. Se solo il mio culo non fosse stato un’opera d’arte. Forse stavo esagerando. Forse vedevo cose che non esistevano. Mi venne un’idea geniale: la soluzione era lavorare di giorno. Basta gente sbronza, basta gente che festeggia, basta tornare a casa tardi la sera che poi il giorno dopo avevo lezione. Finii in un centro commerciale tutti i week end a fare i cappuccini con tanta schiuma belli caldi o i caffè macchiati freddi con latte a parte e zucchero di canna. No, scusi, avevo detto bello caldo macchiato freddo. E il dolcificante? Ah ecco. Non era zucchero di canna? Buona giornata, arrivederci!
Frenesia tanta, contatto umano poco. Per un po’ fu un idillio. Niente sbronzi, i clienti abituali erano pochi e per lo più servivopassanti pieni di buste per lo shopping. Imparai a sorridere sempre, scoprii che un sorriso smorza ogni malumore e che la gentilezza sconfigge qualsiasi gesto stizzito. Le persone più scorbutiche rimanevano spiazzate dalla mia allegria e, alla fine,mi rispondevano congarbo.
Hey, ma il fil rouge? Smilzo, slanciato occhi azzurri. Notò la minuscola scritta in un angolo della mia t-shirt “angel&devil” e mi chiese: “Sei un angelo o un diavolo?”. Una domanda ingenua epriva di secondi fini. Sorrisi e andai a preparargli la spremuta. “Eddai non te la sarai presa? Sei un angelo è ovvio”. Un nodo stretto stretto ai nostri mignoli portava quel filo ad accorciarsi. Eravamo destinati a essere l’uno dell’altra. Era un peccato che io fossi fidanzata. Fidanzata? Ma davvero? Certo. Fidanzata? Ma veramente? Sì. E l’anello? Non si usa più. Ma io ero lo stesso il suo angelo. Un angelo dalle ali imbrigliate in un filo rosso che non riuscivo a vedere, un filo tutto annodato che non ero capace disciogliere. Ero una cameriera. Ero lì per servire da bere e sorridere, lui era uno dei pochi clienti abituali.
Il mio sorriso si smorzò e gradualmente scoprii di essere lenta. La mia menteproduce pensieri in millesimi di secondo che dilatano il tempo, lo infrangono e lo riavvolgono. Fisso gli istanti e ho le visioni. Vedo cose dove non ci sono, dove non accade niente e, allo stesso tempo, sono cieca, percepisco grovigli in cui inciampo solo io. Il mio corpo, però, è lento a reagire. Pigro. In quel bar mi chiamarono sempre meno fino a non chiamarmi più, presero un’altra perché io ero troppo lenta. Tempo dopo, vidi al bancone una ragazza mora, riccia con un fiore rosso tra i capelli e un sorriso da fare invidia a chiunque. Io ormai desideravo un lavoro in cui non fosse necessario sorridere né servire da bere. Non ne avevo più voglia.
Mi era rimasto in mano un gomitolo ingombrante e pieno di nodi. Solo dopo gli studi e molti altri lavori ho iniziato a capire: resterò per semprecameriera dentro di me, forse lo sono sempre stata. Connessa ai destini di uomini a cui dovevo solo servire da bere. Connessa alla storia di tutte le donne destinate solo a servire da bere al proprio uomo. Un giorno ho deciso di riordinare quel filo che si è rivelato impossibile da tagliare. Ora ha una forma anche se mi si stringe ancora in golatutte le volte chesono costretta a dire che sono fidanzata e non è vero, tutte le volte che un pischello mi grida A’BBONA dal finestrino, o quando un uomo da un cantiere mi lancia un fischio, oppure quando in metro un fantasma mi sfiora per sbaglio il culo. Il mio culo, che è un’opera d’arte.Quel filo ora ha un nome: patriarcato. Ha una dimensione: quella della molestia. E si connette direttamente alla paura che non sapevo dire quando avevo vent’anni, la paura che non avevo il coraggio nemmeno di pensare:quella di venire stuprata di notte fuori da un pub mentre torno a casa dal lavoro.
Cameriera ci resterò per sempre, anche se ora so dare un nome alle cose. Produco pensieri che percorrono la mia mente a mille chilometri orari, ma il mio corpo è lento a reagire. Sono cieca, non noto i fili in cui inciampo e, al contempo, vedo cose che non ci sono. Ho le visioni. Vedo fili che non esistono. Quel filo ha ricamato in testa ad alcuni uomini che io non ero lì solo per servirgli da bere, ero lì perdiventare la loro donna. Quel filo mi aveva fissato in mente che potevo solo sorridere, servire e tacere. D’altronde i clienti non li puoi mandare affanculo e, poi, il mio “no”, in realtà, è un “sì” eho un culo che è un’opera d’arte. Quindi forse è colpa mia?Forse è solo che ero già una cameriera quando da bambina tutta la famiglia si aspettava che fossi io, la nipotina femmina, a preparare il caffè per il nonno e non potevo dire no.
Alla fine ho capito di essere inciampata in grovigli che, in realtà, non incontro solo io. Forse agli occhi di alcunisarò per sempre una cameriera, come tutte le donne che sono state destinate a servire il proprio uomo fin dalla nascita. Ancora non si recide quel filo. Ancora gli altri, a volte, si aspettano da me un sorriso e che serva da bere a qualcuno. Si sorprendono quando non lo faccio. Ma oggi so dare un nome alle cose invisibili che vedo. I pensieri che la mia mente produce a mille in porzioni di tempo inesistenti li so dire.
A volte leggere un racconto è come indossare lo sguardo di qualcun’altra, provare un paio di occhiali che sono i suoi occhi. Alcune di queste volte quegli occhiali non li puoi togliere più. Adesso potrai vedere il nodo che è sempre stato sulmignolo della tua mano sinistra e forse non riuscirai più a smettere di vedere quel filo. Ci inciamperai quando si aggroviglierà e, a volte, stringerà così forte da strozzarti, maora saprai dargli un nome.
Hai vissuto qualcosa a cui non sai dare un nome? Sai esattamente cosa hai subito ma non hai ancora trovato un posto sicuro dove parlarne? Rivolgiti all’associazione Suns che dà supporto a chiunque abbia avuto esperienza di abuso sessuale sotto qualsiasi forma o sfumatura. È un luogo protetto in cui confrontarsi con chi ha vissuto esperienze simili oppure dove ricevere supporto psicologico e legale gratuitamente.
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