La (breve) distanza tra Italia e Pakistan: Hijra di Saif ur Rehman Raja – Premio TIR 2025

Tra le varie tendenze della letteratura italiana degli ultimi vent’anni, la cosiddetta letteratura migrante emerge come un elemento fresco, capace di dire qualcosa di nuovo sul paese in cui emerge e prolifera. È il caso di Cassandra a Mogadiscio di Igiaba Scego o L’unica persona nera nella stanza di Nadeesha Uyangoda, libri che ri-descrivono rispettivamente il passato storico e il presente dell’Italia con la lucidità di chi, per ragioni etniche e identitarie, si trova al contempo dentro e fuori dai confini nazionali. Appartenere a due culture – caratteristica spesso svantaggiosa nella quotidianità di un’Italia ancora razzista e intollerante – nello scrivere si rivela una risorsa: garantisce uno sguardo bifronte, abituato a posarsi su contraddizioni e ingiustizie altrimenti difficili da riconoscere.
Hijra incarna alla perfezione questo paradigma, e anzi, lo supera: il romanzo edito da Fandango, vincitore del Premio TIR 2025, racconta il travaglio migratorio, ma anche la nascita di un sincretismo armonico tra due mondi. L’autobiografia di Saif ur Rehman Raja è la storia di ragazzo che decide di diventare italiano senza rinnegare nemmeno un briciolo della sua identità di pakistano e di omosessuale. Così come sua madre unisce diversi tipi di spezie per preparare byriani e salen, Saif mescola con sapienza gli ingredienti che compongono la sua identità, meticcia nel senso più positivo del termine. Il risultato sorprende, perché nel metaforico piatto di Saif sembra esserci spazio per tutto: i film di Bollywood e l’amore per le spezie combinati con la laurea in Pedagogia a Bologna, il suo essere gay e la fede in Allah, l’afa di Rawalpindi e quella dell’estate pugliese. Non c’è kitsch in questa mescita, anzi. Hijra è un romanzo aggraziato, di una finezza che a volte contrasta con i soprusi narrati e che cresce man mano che il protagonista comprende come farvi fronte.
Le angherie subite da immigrato in Italia non sono purtroppo le prime per il protagonista. Picchiato, abusato sessualmente, ignorato e criticato sin da bambino, Saif ur Rehman, in urdu colui che ama la giustizia, risponde alle violenze con l’inclusione, all’intransigenza con la scrittura. Nomen omen, si direbbe in latino. Tuttavia, Hijra è ben lontano dall’essere un resoconto eroico delle imprese del bambino-scrittore: se mai, è in primis una fotografia della società pakistana, con le sue luci ma soprattutto con le sue ombre.
Saif cresce in una società estremamente maschilista che pone la famiglia, le apparenze, e la salvaguardia dell’onore familiare sopra qualsiasi desiderio individuale. Un contesto di repressione delle emozioni e del desiderio, dove la violenza è una delle poche forme di espressione previste per il genere maschile. Il Pakistan è una terra che ama, ma che sotto molti aspetti non ricambia il suo sentimento. Saif viene punito, prima per il suo orientamento sessuale – hijra è un termine dispregiativo utilizzato nella lingua urdu per indicare gli omosessuali – poi per essere partito, suo malgrado, alla volta dell’Italia. Da quando si trasferisce, i ritorni nel suo paese natale assomigliano a un’involontaria ammissione di colpa che i parenti esigono. Pur contribuendo al benessere economico di chi è rimasto, Saif e la sua famiglia non appartengono più alla comunità: sono considerati stranieri.
Straniero in patria, straniero nella sua nuova casa bellunese, un contesto a dir poco ostile e chiuso. Da adolescente, Saif si ritrova in quella condizione sintetizzata brillantemente da Sandor Marai: «[lo straniero] non crede più nella possibilità. Non ha più un’identità, il mondo in cui ha creduto non esiste più, è profugo e nessuno gli riconosce un’identità nuova. Il passato è perso per sempre, non c’è più futuro»1.
Tuttavia, nella confusione e nel vuoto di chi è rigettato come un organo in un trapianto Saif trova il varco, una risposta alle due realtà che lo respingono: fare l’esatto contrario. Il ragazzino protagonista di Hijra abbraccia le tradizioni e gli usi di un’Italia nei migliori dei casi indifferente, nei peggiori brutale. E riesce a farla sua, a tal punto da essere ammesso all’università di Bologna, dove finalmente trova un ambiente e delle persone interessate a uno scambio umano prima che interculturale.
Ecco che elementi apparentemente antitetici si incastrano e convivono senza antinomie. Saif accoglie le opportunità che l’Italia offre restando ancorato alle sue origini; perdona chi non capisce, ma si sforza di non giudicare; ama chi prova a capire. Alle ostilità dei due paesi contrappone una curiosità ecumenica, alle etichette un’identità porosa, capace di assorbire anche l’odio.
Il tutto espresso con la naturalezza, talvolta anche l’eleganza, di una prosa che ha il sapore della confessione spontanea. Hijra è un libro di valore, non tanto e non solo perché trasmette un esempio positivo di integrazione. L’autobiografia di Saif ur Rehman Raja conquista per l’accordo armonico che crea tra due mondi apparentemente opposti, ma in realtà assai simili: le strade polverose di Rawalpindi e la fosca e turrita Bologna non sono mai stati così vicini.
Bibliografia:
Saif ur Rehman Raja, Hijra, Roma, Fandango, 2024
1Sandor Marai, Il sangue di San Gennaro, Milano, Adelphi, 2010, p. 333;
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