Assurdità della vita: tra Pessoa, Camus e Kundera
“Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia”. Così il filosofo e letterato Albert Camus si rivolge al mondo nell’opera Il mito di Sisifo, pubblicato in Francia nel 1942. Mettendo la vita nelle sfaccettature più profonde sotto lente di ingrandimento, lo scrittore francese enfatizza la libertà dell’uomo di accettare o meno l’esistenza ardua in cui involontariamente si ritrova; e nonostante le sue ingiustizie, Camus con coraggio risponde di sì alla vita. Un altro pensatore e poeta, il portoghese Pessoa, nel 1982 affronta lo stesso tema, ovvero l’assurdità della vita, in modo completamente opposto, lasciando la sua testimonianza ne Il libro dell’inquietudine. Sarà poi un terzo scrittore, Milan Kundera nel 1967 con il romanzo (troppo poco conosciuto rispetto all’importanza del su contenuto) La festa dell’insignificanza a giungere a una possibile conciliazione tra i due modi estremi di affrontare l’assurdo. L’uomo delineato dalla penna di Kundera incontra a metà strada il prototipo di uomo di Camus e Pessoa: non ricade nella continua attività di rivolta, sostenuta da Camus, e non si lascia andare alla passività come il suo collega portoghese.
I tre autori elaborano riflessioni filosofiche estremamente interessanti, appassionanti, addirittura utili e vitali perché, se si agisce come si pensa, la teoria astratta sul significato dell’esistenza diventa poi concretamente una questione di vita o di morte. In tale ambito, la filosofia è regina dell’arte di immedesimarsi nella prospettiva altrui e nei lontani contesti sociali e storici, astenendosi dal giudizio del vero o falso, del giusto o sbagliato. La tematica trattata si presenta come un prisma che separa la luce, e che i raggi emessi rappresentassero le prospettive degli uomini che lo guardano: sono i diversi colori l’oggetto dell’indagine, non la sorgente di luce bianca. Questo perché la vita non si cela dietro un enigma da risolvere: è un mosaico da contemplare. Senza garanzia di comporre un disegno ordinato e comprensibile.
La problematica in gioco è talmente evidente e percepibile che sia Camus che Pessoa la rilevano, e consiste nell’assurdità della vita. L’assurdo è letteralmente una contraddizione assoluta, caratterizzata da impossibilità o assoluta mancanza di congruenza o convenienza. Più semplicemente, è la sensazione umanamente condivisa del fastidioso contrasto tra la volontà di soddisfare il desiderio umano di infinito e la finitezza della realtà che offre solo cose effimere e limitate.
Secondo Camus l’assurdo è “Questo divorzio tra l’uomo e la sua vita, fra l’attore e la scena” (A. Camus, Il mito di Sisifo, p.8); infatti, “Ciò che è assurdo è il confronto di questo irrazionale con il desiderio violento di chiarezza” (opera citata, p. 21). Camus ha bisogno di elaborare un sistema di pensiero efficace per sopportare un mondo che lo porta ad affermare “Sarò sempre estraneo a me stesso” (op. cit.). La contraddizione tra me (essere umano dotato di desideri) e realtà, (mondo circostante che non lo soddisfa) sembra rendere preferibile morire subito. Ma è qui che Camus interviene prima della scelta allettante di suicidarsi per sfuggire dalla cosiddetta “Indole insensata di questa quotidiana agitazione e l’inutilità della sofferenza” (op. cit. p.7) che è la vita; propone infatti la rivolta come antidoto alla disperazione. Tale spirito di iniziativa lo distanzia da Pessoa. Cavalcando le onde del caso e del caos, ne L’uomo in rivolta, Camus consiglia di dominare la corrente della vita con la forza dell’azione, idea che si percepisce in un’altra opera dell’autore, Il mito di Sisifo, nella quale Camus condensa la rivolta e la vittoria dell’uomo sul suo inevitabile destino nella frase “Bisogna immaginare Sisifo felice”. Sisifo è infatti un personaggio della mitologia greca condannato a spingere un masso fino alla cima di una montagna e vederlo ogni volta rotolare alla base del monte, ripetendo la fatica con la consapevolezza che sia sempre vana. Questa immagine racchiude per Camus il senso della vita: una continua fatica inutile. Il punto di svolta per vincere la sfida di un’esistenza vacua sarebbe trovare la felicità nell’istante presente, nonostante l’inutilità innata di qualsiasi sforzo.
Pessoa dal canto suo, come un pescatore in attesa lungo il molo, guarda le onde infrangersi sugli scogli da lontano, e invece di dominare il mare, si lascia bagnare dolcemente. Contrariamente a Camus, lo scrittore portoghese dichiara “Non ho la forza di ribellarmi a quest’assurdità” (il libro dell’inquietudine, p.123), sottolineando il concetto con “Preferisco una sconfitta consapevole della bellezza dei fiori, piuttosto che una vittoria in mezzo ai deserti” (op. cit. p.128). Pessoa accetta la vita e i suoi contrasti, lasciandosi cullare dalla tempesta e non si dimena rischiando di ostacolare la corrente; si arrende prima della battaglia perché in fondo crede che non ci sia nessun tesoro, tant’è che scrive: “tutto quello che cerchiamo lo cerchiamo per ambizione. Ma quell’ambizione non la si soddisfa mai, e allora siamo dei poveri; oppure crediamo di soddisfarla, e allora siamo dei pazzi ricchi” (op. cit. p.199). Pessoa è talmente chiuso nella sua inquietudine che non cede neanche all’amore: “non amiamo mai nessuno. Amiamo solamente l’idea che ci facciamo di qualcuno. È un nostro concetto (insomma, noi stessi) che amiamo” (op. cit. p. 237). È una di quelle persone che passa più tempo a programmare che agire: “Avremo ciò a cui rinunciamo perché, sognando, lo conserviamo intatto” (op. cit. p.257). A un uomo come Pessoa, la rivolta di Camus fa quasi tenerezza, tanto è vero che dichiara “È mille volte preferibile non agire che agire inutilmente, frammentariamente, insufficientemente, come succede alla superflua e vana maggioranza degli uomini”(op.cit.). Gli scritti di Pessoa sono un capolavoro da scoprire, e meritano di essere riconosciuti ( e quantomeno conosciuti da tutti) poiché leggendoli sembra di sfiorare con mano l’essenza della vita. Con le sole parole il poeta si presenta ai lettori e sembra di conoscerlo davvero, lui stesso ci svela il motivo: “Ogni azione è, per sua natura, la proiezione della personalità sul mondo esterno” (op.cit p.269).
Tra attività e passività, è bene anche individuare una via di mezzo, un’ulteriore modalità di affrontare l’esistere. Forse Kundera ne La festa dell’insignificanza, con la leggerezza che solo un’anima quieta e trasparente come la sua può avere, fornisce una risposta che è sempre stata davanti ai nostri occhi. Nella scena finale, guardando dei bambini che si tengono per mano al parco, il protagonista esorta ogni lettore al gesto risolutivo, come un fedele amico che esalando l’ultimo respiro rivela il segreto della vita:
L’insignificanza, amico mio, è l’essenza della vita. È con noi ovunque e sempre. È presente anche dove nessuno la vuole vedere: negli orrori, nelle battaglie cruente, nelle peggiori sciagure. Occorre spesso coraggio per riconoscerla in condizioni tanto drammatiche e per chiamarla con il suo nome. Ma non basta riconoscerla, bisogna amarla, l’insignificanza, bisogna imparare ad amarla. Qui, in questo parco, davanti a noi, guardi, amico mio, è presente in tutta la sua evidenza, in tutta la sua innocenza, in tutta la sua bellezza. Sì, la sua bellezza. L’ha detto anche lei: l’animazione perfetta – e del tutto inutile -, i bambini che ridono – senza sapere perché – non è forse bello? Respiri, D’Ardelo, amico mio, respiri questa insignificanza che ci circonda, è la chiave della saggezza, è la chiave del buonumore…
Ecco il suggerimento finale per affrontare l’assurdità della vita come inevitabile e inutile fatica, senza combatterla o farsi sopraffare: amarla. Perché, seppur assurda, non si è mai – in fondo – soli.
Bibliografia:
Albert Camus, Il mito di Sisifo, edizione Bompiani
Pessoa, Il libro dell’inquietudine, Feltrinelli
Milan Kundera, La festa dell’insignificanza, Gli Adelphi