Intervista a Eugenio Griffoni, il poeta della grotta
di Angela Arconetani
Sviluppatore informatico e speleologo, Eugenio Griffoni è autore delle sillogi Fuori dalla tana (2020) e Fernweh (Italic Pequod, 2023). Suoi inediti sono comparsi su «Poesia del nostro tempo», «Crunched», «L’Altrove», «Atelier», «Inverso», «Inutile», «La Rivisteria». Nel 2022 ha vinto il primo premio sezione poesia inedita del Concorso Sinestetica, Pagine Marchigiane (Associazione Versante), Dittico Poetico per il concorso Arte in Versi (Euterpe) e menzione al merito nel premio Paesaggio Interiore (Euterpe).
Nell’intervista riportata di seguito ci rilascia alcune riflessioni in merito a poesia e creazione artistica, correlate al tema della grotta, una costante della sua produzione.
A.A. Cosa rappresenta per lei la poesia?
E.G. Parto da quello che vorrei non sia, ovvero cibo per l’ego. La poesia è qualcosa che rivela. Quando una lirica prende forma vorrei già che non mi appartenesse più, che sia una separazione, come un frutto che si stacca dall’albero, come un ricordo di qualcosa che è stato visto solo per un attimo. È anche uno strumento, un oggetto che puoi osservare. I testi che scriviamo sono poi una lente di quello che c’è dentro e fuori di noi. La poesia è d’altronde anche un modo per salvarsi, un timone tra le maree della vita, può permetterti anche di cambiare rotta. Poi è sicuramente comunicazione rivolta all’inconscio collettivo della società.
A.A. Riprendiamo da qui: che rapporto c’è oggi tra poesia e società?
E.G. Nella nostra cultura la poesia manca, nei nostri dibattiti si è annichilita. Eppure, la poesia è anche della comunità perché può risollevare gli animi. Quando scrivo immagino sempre che dall’altra parte ci sia qualcuno che aprirà una finestra di cui non posso prevedere gli scenari. L’altro è lontano, è dietro l’orizzonte e lascerà cadere quel verso in qualcosa che è per me impensabile. Le possibilità sono infinite. La poesia allora può davvero cambiare il mondo perché, se va a colpire quel giusto punto, può rompere tutto il sistema di costruzioni in modo profondo, preciso e potente, in una vera e propria collaborazione alchemica tra poeta e lettore.
A.A. Lei è speleologo. Cosa rappresenta per lei la grotta, anche in poesia?
E.G. Per me la grotta resta ancora intraducibile. Nel sotterraneo si creano dinamiche di un mondo tra il sonno e la veglia, ai bordi del sogno, come stare in una camera iperbarica. Questo contesto crea sensazioni uniche sulle quali la mente si focalizza. Di conseguenza, la sensibilità di chi scrive viene molto stimolata da questa condizione, facendo rapportare il poeta con il suo buio, con la sua insondabile oscurità. In grotta c’è uno scavo che ha il valore di un’azione spirituale, di un nuovo viaggio dal sentire mistico. Come dico in una poesia, Porte del Paradiso, “la preghiera – si farà goccia”.
A.A. Come ha iniziato a scrivere?
E.G. Ho iniziato ad usare la poesia per comprendermi, attorno ai 24 anni. Poi la vita ha cominciato a “bastonare” e intanto c’era una vibrazione dentro che risuonava in parola. Mi accorgevo che le parole che scrivevo nel mio diario si accorciavano e suonavano come versi. Quando vivevo a Cesena ho iniziato poi a sperimentare la poesia performativa nei poetry slam, fino a che i miei bisogni non sono nuovamente cambiati e la mia scrittura non ha assunto sempre più un tono lirico.
A.A. In che filone ti collochi stilisticamente coi tuoi testi? Quali autori ti hanno influenzato?
E.G. Sicuramente sono un lirico, è il mio modo di approcciarmi al mondo perché mi sento di esserne un osservatore. Ognuno finisce per essere trasportato da una corrente, poi nella vita può capitare di spostarsi. Abbracciare però questo mare nella sua interezza non è produttivo, sarebbe come frequentare tutte le grotte d’Italia. E invece è meglio andare in profondità di quella ‘dietro casa’, conoscere la propria anima a fondo.
Tra i miei autori di riferimento una poetessa che mi ha stimolato molto è Mariangela Gualtieri, ma anche lo spezzino Francesco Maria Terzago e il cilentano Adriano Cataldo. Tra i classici Montale ed Eliot. Importanti sono stati, come luogo d’incontro, anche i festival di poesia: alla Punta della Lingua di Ancona ho apprezzato la poesia liturgica di performance della veneta Ida Travi, mentre ai Fumi della Fornace, festa della poesia di Valle Cascia, ho conosciuto Franco Ferrara, poeta pubblicato da Argolibri col quale ho trovato una spiazzante affinità.
A.A. Com’è cambiata la tua voce poetica dalla prima raccolta Fuori dalla tana a Fernweh?
E.G. Questi due libri sono due scrigni, ma anche due gesti che mettono ordine, separano e danno spazio a un fatto, come un rito. Nel passaggio dall’uno all’altro è venuto meno il mio desiderio di stare sul palco, mi sono allontanato dal mondo dei poetry slam, focalizzandomi più sull’ambiente della grotta.
Fernweh è una parola tedesca che significa ‘nostalgia della lontananza’, un sentire che, come un vento, attraversa tutte le poesie della raccolta. È un libro triste e nostalgico, di abbandono e separazione, ma anche di luci improvvise, di ori e di un Dio che compare in tre poesie. Un libro agitato da una disperata ricerca di verità.
Alcuni inediti dell’autore
(Carso Triestino, Abisso di Gropada 17/12/2023)
Non basterà il sermone
a districare il quesito.
Abbiamo smarrito dell’incontro
la caduta: a chi domanderemo
la forma originaria – il cippo, la
radice – di questa scottante
rimanenza?
Mossi da richiamo, sciami
danzano lo sfondo che sfoca:
lì si perde il nubifragio, lì
svetta indomito
lo scranno del precipizio:
ne lambisci i confini (?).
Continueremo il nostro esodo
nel tempo della goccia.
*
(Messico, Chiapas, campo esplorativo Rio La Venta 18/03/2023)
Non ha fine la muraglia
graffiata dal monarca
che scorre inesorabile.
Perdute altezze
ombreggiano
la vita.
Qui il verde, mia cara,
fiorisce nel sogno – dilaga
e come un labirinto
mi stringe le sembianze.
Poi è il suono
a ridarmi la via:
ancora canta – del Sole
la caduta.
L’intricato Sufismo
della foglia.
Gli aspri colori
della ruggine.
Il dispiegarsi
d’antichi richiami.
Diafana verticale.
Come chi conta le stelle
metteremo insieme le parole,
setacceremo a fondo
il letto di arenaria,
confonderai la tua pelle
con le gemme del rio:
“L’amore
è una questione di fede.”
*
(Spoleto, fondo della Grotta del Chiocchio 21/10/2023)
Giunti – al termine ultimo
tenderemo all’esistenza.
Remoti respiri – indagano:
giù, giù a capofitto
per le scale del Mondo!
Allora, sedendo,
potremo dimenticare
lo scrigno di Nut,
al bocca dei Ciclopi,
il lago sepolto.
*
(Siviglia e grotte andaluse, Capodanno 2023)
Eri la palma
spezzata
nella verticale della visione,
il poster della Settimana Santa (1962).
Eri la spada, la Passione,
la polvere deposta
ai piedi della Madonna. Eri
la sua corona di ruggini,
le guglie abbandonate,
il moresco che ha invaso
i giardini della torre.
Non chiedermi del tempo,
del moto nell’immobilità,
perché ho intravisto la rovina
nelle assenze del paesaggio,
fra questi monumenti funebri
scritti in lingua viva.
E mi spaventa tutto questo:
che abbiamo seppellito il tramonto,
che la rondine becchi
la cenere del nido.
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