“In mezzo a un milione di rane e farfalle”: Concita de Gregorio e Beatrice Alemagna raccontano la completezza come un paradossale insieme di parti mancanti
Un articolo di Delia Chiadroni

Tata Carmen
Tata Carmen non viene più perché si è iscritta a un corso di danze latine e va a ballare, adesso, con i suoi nuovi amici che non conosco. Mia madre dice che è vecchia per queste cose ma io penso che è favolosa, invece, con il suo vestito a fiori: la vedo che ride e sono contenta.
Carmen aveva lasciato i figli in un posto lontanissimo, e quando è arrivata non rideva quasi mai. Ora i suoi figli sono cresciuti, e anche noi. Ora va a ballare e ride quasi sempre.
Il quaderno degli assenti
Le “cose perdute” non scompaiono, si cristallizzano in luoghi diversi dai noti. Dapprima fuori di noi, sorvegliate dallo sguardo, queste spariscono per breve tempo, per poi giungere nel contenitore della memoria, che, se occultata per protezione, è in grado di renderle quasi immobili e, in alcuni casi, remote.
«Le persone, le cose che mancano restano nei tuoi pensieri e a volte li occupano tutti, o quasi tutti, si affollano nella testa: è una specie di lavoro convincersi del fatto stranissimo che non sono lì dove dovrebbero».
Questa trasmutazione in ricordi è avverabile tramite le emozioni, calamite attrattive che permettono alle “cose” di non svanire mai del tutto, piuttosto di diventare attingibili a lunga durata. Durata coincidente, attimo più o attimo meno, con la nostra esistenza.
L’emozione non muore, ma può nascondersi, trascinando con sé il ricordo a cui appartiene. Quando scappa via, o è distante, sta a noi recuperarla e mantenerne vivo il contatto, comprendendone il forte valore identitario.
Concita de Gregorio, la penna, e Beatrice Alemagna, la matita colorata, hanno composto un quaderno delle cose perdute dal titolo “In mezzo a un milione di rane e farfalle” (edito nel 2024 da Feltrinelli), raccogliendo, con parole e illustrazioni, ritagli di ciò che manca.
Il susseguirsi di una trentina di racconti, o impressioni, snoda l’obiettivo del quaderno: dedicare uno spazio alla mancanza e sottolineare lo strano fenomeno che ci riguarda tutti, per cui ciò che è assente è più presente che mai nella nostra vita.
«Il quaderno degli oggetti smarriti. Il luogo dove custodire tutto quello che ci manca. Perché restano, le cose che finiscono».
Il viaggio dall’esteriorità dello sguardo all’interiorità dell’emozione suscitata dal ricordo può essere, a volte, alquanto scomodo, per questo ai “grandi” capita di rinunciarvi.
Eppure, la grande scatola della memoria si aziona in autonomia e può giocare scherzi, ravvicinare in un secondo diapositive più che distanti, per spazio e tempo. Così, le preziose illustrazioni di Beatrice Alemagna vengono inserite nella pagina mescolate, non vi è una classifica dei ricordi.
Gli enormi ventagli delle signore agghindate, i mestoli appesi di una casa vissuta, un’espressione inafferrabile, e la gioia di un palloncino ricevuto, accostati fin dalla prima pagina, non compongono un rebus da decifrare, anzi, denunciano l’impossibilità di un qualche disvelamento sulla natura della selezione accurata che effettua la mente.

I lettori
Sebbene la differenzi un linguaggio chiaro, fatto di parole piene, sarebbe riduttivo catalogare la raccolta sotto la dicitura di libro per bambini. I vocaboli, infatti, seppur di facile registro, sono in grado di richiamare il contrasto tra la mancanza, che è aria, inafferrabile e vacua, come appunto sono a volte le parole, e la concretezza dei loro significati, capaci di generare effetti più che tangibili in noi, al pari di un’assenza o di una perdita.
I racconti, perciò, non sono rivolti ad un pubblico strettamente infantile, quanto piuttosto a chiunque scelga di attingere al proprio sguardo bambino, creando un doppio binario interpretativo che rende il libro adatto ad ogni età.
Il piccolo può farne tesoro per imparare a non reprimere, a non scacciare ciò che sembra più facile allontanare, l’adulto viene invitato a recuperare ciò che è stato rigorosamente soffocato.
Durante la lettura, sarà piacevole e inaspettato scoprirsi ancora capaci di estrapolare dagli eventi la struttura base, e di ripristinare i nostri occhi secondo un’osservazione del mondo non ancora corrotta dal meccanismo della rimozione.
Si tratta di un invito al radicamento e alla centralità delle emozioni, pure e ancora dotate di integrità.
Quando ciò a cui siamo legati d’improvviso manca, gli altri «dicono cose assurde tipo passerà, dai tempo al tempo, non ci pensare usciamo. Vuoi pane e nutella, vuoi un gelato?», ma se, anziché cercare una distrazione capace di allontanarci dal vuoto che proviamo, vi entrassimo dentro, scopriremmo quanto ciò che il vuoto conserva sia sorprendente e benefico.
Incontrare l’assenza
Al giorno d’oggi si è disabituati ad interagire con l’assenza. I racconti inseriti nel quaderno ne supportano, al contrario, il necessario processo di validazione.
«Vediamo. Chi manca. Se non sono venuti loro, allora vado io. Ecco, questo si può sempre fare: andare a riprendere gli assenti. Tenerli nel quaderno, dargli un posto dove possono stare. Per esempio Marco.»
Dialogare con ciò che è assente risulta necessario, permette a ciò che manca di continuare ad esistere e, a chi gli dà spazio nei propri pensieri, di reintegrare insieme al ricordo parti che sono costitutive, a cui altrimenti rinuncerebbe. La completezza è descritta come un paradossale insieme di parti mancanti, e ottenuta, quindi, attraverso la collazione delle nostre assenze.
Parlare con le perdite, e pensarle, le fa esistere. In questo quaderno c’è vita, trascorsa e anelata, una rappresentazione degli eventi per nulla sfumata e nostalgica, ma puntuale e potente, in cui non echeggia una malinconia fumosa e senza contorni, piuttosto la tangibilità dell’assenza.
«Non è male, in fondo, parlare a chi non risponde. […] Certo non è una grande consolazione, ma un’occasione», un modo per entrare in contatto con il proprio io, scoprendo che quello che manca ha una forma molto simile a ciò che si desidera.
Il desiderio
L’assenza non è solo di qualcosa che non c’è più, ma anche di qualcosa che ancora dev’esserci. La meccanica del desiderio è strettamente legata a quella dell’assenza, perché accogliere ciò che manca aziona l’impazienza del nuovo e alimenta l’immaginazione.
All’inizio, il desiderio può coincidere con la speranza di riottenere ciò che ci era capitato di avere e che ora non abbiamo più, ma capita poi che cambi forma, e divenga inedito, proprio durante l’attesa della sua realizzazione. Un impulso che ci permette di connettere il passato con il futuro che vorremmo, svelandoci i nostri attuali desideri e consentendoci, quindi, di aprire gli occhi al presente.
In conclusione, se la perdita e la mancanza vengono d’istinto connesse all’immobilità di qualcosa che non potrà tornare più, è anche vero che queste sono in grado di attivare la nostra fantasia, capace di mettere in luce intimamente la direzione da seguire e azionare il vero moto della vita.
https://www.feltrinellieditore.it/opera/in-mezzo-a-un-milione-di-rane-e-farfalle
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2 commenti
Ilaria
“parlare con le perdite, e pensarle, le fa esistere”, ho amato questo passaggio e molti altri. Incontrare l’assenza può farci male ma può anche costringerci a ripensare il nostro passato e il nostro futuro.
Complimenti per questo articolo, Delia, continua così!
Matteo
Una chiave di lettura per nulla scontata, che vede tutti, dai piu grandi ai piu piccoli, protagonisti dei racconti del libro di Concita De Gregorio. In effetti, dovremmo tutti imparare ad accettare l’assenza per scoprire che “ciò che manca ha una forma molto simile a ciò che si desidera”. Bravissima Delia 🙂