IL VANGELO NICHILISTA DEI CALABRESI – RECENSIONE de IL POPOLO DI LEGNO di EMANUELE TREVI
Prima ancora di vincere, nel 2021, l’ambitissimo Premio Strega con Due vite, uno dei romanzo più intimi degli ultimi anni, la penna ammaliatrice di Emanuele Trevi sapeva già come ipnotizzare chi, – per caso o per fortuna – si trovava tra le mani un suo romanzo. Non fa eccezione Il popolo di legno (Torino, Einaudi 2015), un anti-opera capace di plasmare dall’interno di un contesto attuale e tangibile, quello dell’entroterra calabrese, lo sviluppo di un pensiero che si trasmuta, pagina dopo pagina, nel manifesto di una controversa filosofia nichilista contemporanea.
Fin dalle prime pagine il romanzo ci trasporta all’interno di una cornice narrativa, capace di muoversi, al contempo, su due piani tra loro ossimorici. In primo luogo, abbiamo infatti una presentazione cronotopica estremamente nitida, capace di delineare con chiarezza uno spazio, quello di una Calabria disadorna e misera, e un tempo che, pur essendo contemporaneo, è caratterizzato da una profonda staticità, da un senso intrinseco di immobilità. Eppure, nella presentazione dei personaggi e nella descrizione degli spazi intimi in cui essi si muovono, subentra anche una dimensione dai tratti illusori, in cui il protagonista – chiamato semplicemente “Il Topo” – e le varie identità che orbitano attorno a lui, vengono raccontate attraverso il filtro di un pensiero, quello dello stesso Topo, capace di parlare “in terza persona, come se si trattasse di ragionare su un estraneo”.
A partire da queste fondamentali premesse, la storia prende vita, trasportandoci all’interno della coscienza del Topo, che, passo dopo passo, mette a fuoco i contorni della sua personalità, costruita in relazione ai pochi altri personaggi che lo circondano. Il protagonista è un ex-prete che, a seguito dell’incontro con una parrocchiana di nome Rosa, ha rotto il celibato, lasciando il sacerdozio per sposarla. La sua indole è quella del perfetto predicatore. Con una nota di sadismo, il Topo, tende costantemente a sottomettere ogni persona che venga a contatto con lui: ne è perfetta dimostrazione il rapporto che intrattiene con il suo fido compare, “Il Delinquente”. Pecora nera di una nota famiglia della ‘ndrangheta, il Delinquente è al contrario il masochista per eccellenza: la sua venerazione prende la forma di una totale sottomissione nei confronti del protagonista, che non manca di perverse componenti omoerotiche. È proprio tale rapporto l’espediente narrativo che dà adito allo sviluppo della storia.
Al Delinquente infatti, la famiglia – e in particolare i cosiddetti “Zii” – affidano la gestione di Tele Radio Sirena, una piccola emittente di paese, la cui programmazione “consisteva quasi soltanto di televendite e pubblicità di linee telefoniche erotiche ”. Il Topo, durante un pomeriggio trascorso tra alcool e droga, propone la creazione di un programma televisivo e radiofonico: “Le avventure di Pinocchio il calabrese”, che viene subito approvato dal Delinquente. La trasmissione si propone di rovesciare la canonica favola di Collodi, trasformandola da commedia per bambini a tragedia nichilista. Attraverso repentini cambi di registro, il linguaggio infimo che introduce il lettore alla cornice narrativa, muta così in eloquenza, nelle parole che il protagonista rivolge, puntata dopo puntata, ai suoi ascoltatori.
L’opera diventa esemplificativa di come la fiumana del progresso (rappresentata da personaggi come Geppetto, o dalla scuola) sia una forma spietata di annichilimento dell’uomo, simbolicamente rappresentato da Pinocchio, che perde la sua millenaria consistenza lignea per diventare caduca carne, mutilato nelle sue radici e nella sua presupposta identità: legno crocifisso alla carne, doppio speculare di Cristo. Il popolo di legno è composto dunque da tutti quei calabresi che nel difendere la loro secolare staticità, rigettano eroicamente la realtà così come la vedono gli altri, rifiutandosi di commettere gli stessi errori che hanno portato Pinocchio verso la terribile sentenza di omologazione.
E come i Vangeli raccontano e fanno capire l’importanza della vita di Gesú, cosí questo libro, Le avventure di Pinocchio, si potrebbe dire che è il Vangelo dei calabresi, lo specchio dentro il quale questo popolo di legno potrà imparare a conoscere se stesso, ad essere fiero di quello che è.”
Emanuele Trevi – Il popolo di legno (Einaudi, 2015)
Ad un primo livello interpretativo dunque, Il Topo, man mano che il programma acquisisce popolarità, diventa sempre di più la voce di un popolo che cerca disperatamente di sopravvivere al cambiamento, ad un progresso visto come usurpazione di un senso collettivo e identitario, a cui bisogna però opporsi fermamente. La favola di Collodi, filtrata attraverso il pensiero del protagonista, diventa l’equivalente di un testo sacro per il popolo calabrese, assumendo i tratti di una parabola sociale, atta a diventare un monito per una popolazione la cui morale si distacca drasticamente, da quella tradizionale.
E così il personaggio di Lucignolo, simbolo della perdizione, viene trasfigurato in un angelo custode, che, per amore di Pinocchio, vuole distruggere in lui l’illusione di un mondo in cui si possa diventare altro, migliorando, con le buone intenzioni, la vita stessa. Il Gatto e la Volpe, da balordi affabulatori, diventano l’allegoria perfetta della realtà tangibile: essi mettono il burattino al cospetto dei pericoli del buio (venire derubati o addirittura uccisi), da cui però Pinocchio riesce ad emergere, non per la sua intelligenza, ma appunto per la sua natura lignea. Il Grillo Parlante e Geppetto, in questo ribaltamento della prospettiva, diventano due antagonisti: vogliono crocifiggere la fibrosa natura di Pinocchio alla conformità della carne, promettendo una finta e melliflua felicità.
La favola di Pinocchio diventa dunque, man mano che il ribaltamento prende forma e dimensione, un testo sacro, al pari della Bibbia, creando così un parallelismo, fortemente evocato dall’autore nelle pagine del romanzo, tra gli uomini di fede e il popolo di legno. Il Topo, per corrispettivo, ne è il profeta, arrivato sulla terra per trasmettere il verbo, dando forma e senso alla macroscopica parabola che il testo propone. Pinocchio non è altro che una trasfigurazione di Gesù, martire della società contemporanea, annebbiata dalla cultura dell’omologazione e del progresso: la carne docile è esattamente come la croce che aspetta Cristo sul Golgota.
“La naturale conseguenza di tanta umiliazione è che un bel giorno Pinocchio si sveglia ed è diventato un bel ragazzino, un ragazzino di carne come tutti. Si guarda pure allo specchio, questo disgraziato, questo piccolo impostore, ed è felice come una pasqua. Nemmeno la vista del suo corpo di legno appoggiato a una sedia, ormai privo di vita, nemmeno la vista del proprio cadavere, possiamo dire, rovina la sua felicità. Se ne sta lí, il burattino morto, con le braccia che ciondolano nel vuoto e le gambe a croce come uno storpio, la testa abbassata, gli occhi che non vedono piú nulla. Ma io mi chiedo e chiedo a voi tutti, figli del falegname, come possiamo considerare quest’ultima pagina una buona fine per la nostra storia? Chi è questo ragazzino perbene che sfotte il suo cadavere? Cosa vuole davvero?
Pensate a Gesú per capire meglio cosa c’è scritto nell’ultima pagina del nostro libro. La carne di Gesú viene inchiodata al legno della croce. E nello stesso modo, uguale e contrario, il legno di Pinocchio muore appeso alla carne rosea, morbida, stupida che ha ricevuto in premio per la sua sottomissione.”
Emanuele Trevi – Il popolo di legno (Einaudi, 2015)
Anche in questa sovradimensione allegorica però emerge il concetto di contrario e di ribaltamento del senso tradizionale: se infatti il Testo Sacro e i suoi profeti divulgano un messaggio che induce i fedeli a credere in qualcosa di trascendente, che va oltre la mera tangibilità delle cose, la parabola di Collodi, nella chiave interpretativa proposta dal Topo, si propone di spingere il popolo di legno verso la più assoluta insensatezza del reale, verso una concezione dell’esistenza nichilista, che non fornisce all’uomo alcuna possibilità di redenzione o fiducia nel progresso e nel cambiamento. Anche il tentativo di migliorare se stessi, attraverso l’istruzione che porta alla conoscenza, è solo il perpetuarsi di un’illusione che si scontra con la natura statica di una società profondamente ancorata al passato.
Il punto di vista attraverso cui il Topo descrive la realtà si inserisce perfettamente all’interno del panorama filosofico e narrativo nichilista postmoderno. Il Topo, simbolo di un antropocentrismo e di un individualismo assoluto, ci mostra una visione eretica e amorale dell’esistenza, priva di ogni tendenza verso una qualsiasi forma di finalismo. Pinocchio nello scegliere di non andare a scuola, compie un atto profondamente eroico, non solo perché l’istruzione conduce verso l’omologazione, ma anche perché essa “è solo una finzione” e “le orecchie di legno, a differenza di quelle di carne, sentono solo quello che vogliono sentire.”
In questa profonda “transvalutazione dei valori” sentiamo, pagina dopo pagina, l’eco degli scritti di Nietzsche: la continua e repentina negazione della morale e delle tradizionali forme di conoscenza, suggerisce una visione della vita che, implicando l’accettazione di ogni istinto biologicamente intrinseco all’uomo, non può essere soggetta a critica morale. Per questo motivo quando un Pinocchio qualsiasi decide di correre nel Paese dei Balocchi, agli occhi del popolo di legno non prende una strada errata, poiché persegue ciò che gli viene dettato dalla sua indole.
Proprio quando la penna di Trevi sembra aver delineato un quadro completo della “dottrina del Topo” ecco che un inaspettato finale rigetta lo spettatore nell’oblio: la figura della Fata Turchina, il contrario del contrario, l’anti-nichilismo per eccellenza, riesce a mettere in crisi anche il profeta. La creatura dall’azzurra criniera, descritta nei primi capitoli come un “foro, l’inesorabile emorragia dei suoi significati, dei suoi consigli” si trasmuta, nelle battute conclusive in un identità che, per quanto opposta, è complementare al protagonista. Lei è un corpo d’aria, lui un corpo di legno: opposti in tutto, ma uguali nel non essere materia e carne.
“Il Topo aveva ancora una manciata di secondi. La cosa più interessante del legame tra Pinocchio e la Fata è la loro incapacità di proteggersi a vicenda. Perché questa, senza dubbio, è la forma più alta dell’amore, abbandonare al proprio destino colui che si ama”
Emanuele Trevi – Il popolo di legno (Einaudi, 2015)
Quest’ultima parabola, così volutamente ambigua, apre la mente ad una molteplicità di sensi possibili: è forse l’atto finale della vita di un nichilista, la negazione del suo stesso nichilismo? Oppure, proprio nella prossimità della morte, si arriva alla coscienza che tutto, anche le visioni più disparate dell’esistenza, siano sostanzialmente illusioni inconsistenti? A noi spettatori, ascoltatori delle “Avventure di Pinocchio il calabrese”, questa risposta, non è data.
Il popolo di legno, in ultima battuta, è uno straordinario lavoro anti-narrativo: la scrittura complessa mette, ancora una volta, in luce le incredibili capacità di un autore che si delinea, romanzo dopo romanzo, come uno dei più validi della nostra generazione. Emanuele Trevi, attraverso un linguaggio che non teme il contrasto tra registro trivale e colto, dimostra di saper introdurre l’elemento narrativo all’interno di una riflessione filosoficamente complessa, che non vuole soddisfare o compiacere il suo lettore, quanto turbarlo con le proprie domande, confonderlo e spiazzarlo, in un continuo e costante allenamento intellettivo. La letteratura si riconferma, nelle mani di questo straordinario autore, il frammento parziale di un percorso più ampio, diventando chiave di volta grazie alla presenza di un consapevole fruitore.