Racconti

Il trapezista – Un racconto di Nicola Vavassori

Trapezista
Illustrazione di Dalila Rosa Miceli

Starò zitto. E il mio silenzio, il mio tacere innocuo, vi ucciderà tutti quanti. Morirete, voi, nel sussurro del mio corpo che attraversa il cielo. Morirete ed io vivrò. Perché io sono libero, sì. E voi no.

Resterete straziati e a fiato mozzo, mentre io ruberò i vostri sguardi. Sarò pendolo alla vostra ipnosi: oscillerò scandendo i rintocchi siderali di un tempo che non scorre più. Salirò più in alto e stroncherò con un volteggio l’applauso appena nato, molesto, in un angolo di stolti. Dondolerò come impiccato, mi lascerò cullare dal vento e guarderò voi.

Voi, schiavi che seguite la mia libertà sfrecciare e fischiare sopra  ogni cosa, come lucciola, saetta, deltaplano. Voi, porci di Circe pronti al macello, richiusi nella prigione della vostra inetta umanità. Fatti non foste per vivere laggiù, ma per inseguire il cielo. E invece restate chiusi nella vostra caverna, avidi di voi stessi, egocentrici e muti. Sta, l’uomo, come corpo morto sta, tracotante ma cieco, e non conosce la luce. Mentre io vibro accanto a Dio, trafitto da un raggio di sole.

Ma quale democrazia? Quale libertà sessuale, di stampa o di opinione? Quale “partecipazione”? Questa è libertà. Vivere è libertà. Vivere davvero, al di sopra di ogni caverna, non oltre i limiti della natura, ma al di là di quelli che l’uomo si è costruito attorno.

E intanto i negri protrarranno la loro tortura, flagellati sotto le fiamme del mezzogiorno, ridotti a miseri fantocci, sporchi di terra e di sangue. Le mie parole non possono assuefarli al dolore e alla fatica, non possono proteggere le loro donne dallo stupro. L’inchiostro con cui ho macchiato i miei fogli non è in grado di salvare un paese fatto di finti esseri umani, che si fa chiamare America con orgoglio. Cosa ne sanno, quelli di là del mare, di ciò che America riserba ai propri schiavi? Io l’ho visto con questi stessi occhi che ora guardano tutti voi dall’alto. Io l’ho visto e l’ho pianto, gridando al fallimento di un secolo di barbari. “Diciannovesimo” lo chiamano, con superiorità, come fosse il futuro di pace sognato dai filosofi antichi. Invece questo tempo presuntuoso sputa sugli uomini, senza pudore, senza pietà, viola i diritti della vita e soffoca chi li difende.

Io l’ho visto e l’ho pianto, io l’ho pianto e l’ho scritto, ma fui soffocato. Mai una sola copia del mio romanzo fu palpata da un vile schiavista o da un pensatore assetato di giustizia. Bruciati, carbonizzati, estinti tutti quanti i miei volumi, come fossi un eretico, un matematico. E per quale motivo? Per aver cantato la libertà. Per aver denunciato il crimine universale dello schiavismo davanti ad America la coraggiosa. Additato come criminale e rivoluzionario, anch’io fui reso schiavo da una società fuori posto. Escluso dai locali come un negro, sommerso da lettere d’ingiuria e minacce di morte, esiliato in casa mia dalla voce di bianchi magnati con baffi di velluto e animo di orco. Così, privato della mia stessa libertà, nel tentativo di difendere quella altrui, ho scelto di riprendermela da solo.

Basta con la città, basta con le feste mondane e le giocate in borsa. Basta con il mio lavoro da scrittore e giornalista in questo schifo di cemento. Me ne vado in campagna, dove l’aria sa di bianco e il cielo fugge le nuvole grigie. Io e Mimì, Mimì ed io, aggrappandoci all’amore come unica chiave per le nostre catene. Ed ora volo libero dall’inchiostro e dalla fama, gonfiando il petto come una vela e guardando in basso a voi che siete rimasti schiavi.

E quindi basta denaro! E già mi sento più libero, come se il mio negriero avesse smesso di fustigarmi. Questo è il trucco: estraniarsi da tutto ciò che il mondo ci ha propinato e vivere come un uomo appena nato che di fronte ha solamente la natura. Bisogna passare al vaglio se stessi e distillare, filtrare ogni surplus, ogni accessorio che la caverna ha affiliato al nostro nome. Bisogna dimenticare la gloria e l’onore, e così ogni altro stupido valore che l’immonda civiltà ci ha inciso sul petto.

Ma allora bisogna dimenticare anche l’amore. E dunque addio Mimì, addio per sempre, perché non sarò mai davvero libero finché dovrò condividermi con te. Anche l’amore mi ha reso schiavo e il mio volere non può sottostare al tuo, Mimì, anche se sei l’unica donna ch’io abbia mai amato.

Mi libero così dalle mie catene. Fuggo dalla frusta della civiltà corrotta. Come un ubriacone io dipendo dalla libertà e la cerco in ogni parte di me stesso, in ogni angolo della mia baita, in ogni panorama mozzafiato, in ogni notte di pece senza stelle. Bramo ciò che ho professato e che mi è stato tolto. Libertà che non esisti nel pensiero razionale.

E allora che si uccida anche il pensiero. Tabacco, alcool, marijuana, sia fatto tutto ciò che può liberarmi l’anima da questa prigione di carne. Mi sento libero e piango di gioia mentre il mio intelletto bestemmia, mutilato e sul punto di implodere. Vedo ciò che non esiste, vedo Dio, vedo la luna. Faccio l’amore con chi voglio, uccido, scrivo poesie. Sei forse questa, libertà?

No, io voglio di più, io voglio volare. Soltanto così, penso, potrò finalmente sentirmi libero. Voglio volare, assoluto da ogni vincolo, completamente abbandonato a me stesso e al mio destino infame. Mi trascino fino in città e lì incontro un circo ambulante, una carovana di folli che la libertà l’hanno trovata già da tempo. Vivono nell’oltre, e l’oltre è la loro casa. Superate le tende rosse e bianche si viene accolti per qualche ora in un universo senza leggi, a metà tra l’inquietante e la poesia. Anarchia dei sensi, uomini e bestie che convivono sullo stesso palcoscenico. Da oggi sarò parte di loro. E compio la mia ultima metamorfosi: da scrittore a trapezista.

Così ora volo sopra di voi, pubblico pagante, che guardate nella mia direzione come fossi un Santo, un’apparizione. Non ho più legami, vincoli, relazioni, doveri, non conosco “se” o “forse”, non accetto condizioni o altri nodi. Starò zitto. E il mio silenzio libero, il mio tacere innocuo, sprezzante, sicuro, rimbalzerà, rimbomberà tra i vostri petti come un proiettile d’argento.

Ma è quassù, in questo vuoto silenzio, che mi chiedo, al culmine della mia esibizione, se è forse questa, libertà? E anche se credevo di non aver più catene, percepisco di essere ancora schiavo dentro. Sento il giogo del negriero, la fatica del lavoro, le lacrime di sangue. Forse anche l’essere qui dinanzi a voi è un limite: i vostri sguardi sono le mie catene. Forse anche queste altalene che mi dondolano come un pendolo di Foucault sono freni per la libertà. Il mio stesso corpo materiale, forse, è un ostacolo invalicabile, tra me e l’essere libero. Sono ancora schiavo, come un negro è schiavo di quelle piantagioni maledette. Io non sarò mai libero davvero. A meno che…

Come posso svincolarmi, penso, come posso sciogliermi, strapparmi da questo immenso sbaglio? Quale libertà resta, a me che volo, se non di lasciarmi cadere?

Così cadrò giù. Sarò Prometeo e Icaro di fuoco, bagliore che si biforca per le sbarre della vostra cella. Sarò Lucifero di piume e di male che s’infrange al centro della terra. Sarò il sole che si tuffa nel mare, una cometa che sparisce nell’oscurità.


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