“Il periodo del silenzio” di Francesca Manfredi
Un articolo di Alice Stroppa
Il nuovo libro di Francesca Manfredi, Il periodo del silenzio, si basa su un’idea tanto semplice quanto geniale: cosa succederebbe se una persona smettesse di parlare? Le parole sono così necessarie e parte integrante dell’essere umano? Queste sono alcune delle domande che ci si pone quando la protagonista, Cristina Martino (C.), inizia a pensare che può vivere meglio scegliendo il silenzio alle parole. Infatti si è sempre trovata meglio nel silenzio rispetto a quando deve parlare, come tanti introversi, e pensa di aver bisogno di “allontanarsi dalle parole per recuperare il loro significato”.
Questa idea, che inizialmente al lettore suona impraticabile, germoglia nella protagonista come una pianta, e Cristina perfeziona il suo piano del silenzio, per assicurarsi di poter vivere rinunciando alle parole. Insieme a questo piano si manifesta una delle grandi doti della narrazione di Francesca Manfredi, la profonda concretezza. Questo progetto e la sua attuazione sono costruiti in maniera pratica e razionale, senza nessun tipo di finzione letteraria. Qualsiasi domanda su come possa una persona vivere senza parlare, quali sono gli effetti collaterali e quali le reazioni della gente, è affrontata in questo libro, senza una pretesa scientifica, ma con estrema chiarezza. Ogni aspetto pragmatico è sciolto nel racconto in maniera più che realistica. Viene anzi da chiedersi se, per scriverlo così bene, l’autrice abbia provato su di sé questa sorta di terapia.
La pianificazione era un lavoro a tempo pieno che mi concedeva giusto il tempo di nutrirmi due volte al giorno e fare conversazione coi miei e mostrargli che non c’era niente che non andava. Ero sicura si fossero convinti che ero depressa. Lo sembravo sicuramente, da fuori. Ma il mio cervello non staccava un attimo. Pensavo a come avrei adattato la mia vita al silenzio. A cosa avrei tenuto e cosa sarebbe cambiato. Il silenzio era un bambino non ancora nato che non avrei potuto tenere in braccio e non avrebbe mai pronunciato il mio nome, un essere fragile di cui avere cura. Studiavo le risposte che avrei dato a chi mi avesse chiesto, anticipavo con liberazione e imbarazzo il momento in cui avrei smesso di farlo. Pensavo alle persone che mi conoscevano di più. Pensavo ai miei genitori. L’avrebbero presa come una rappresaglia nei loro confronti, ed era tutto ciò che volevo evitare.
Se gli esseri umani sono davvero caratterizzati dal linguaggio, rinunciando alle parole deve succedere qualcosa che possa fare comprendere la loro importanza. E forse è questo “qualcosa” che rimaniamo ad aspettare nel corso del libro, incollati alle pagine. Nonostante non sia un libro d’azione, grazie allo stile di scrittura e alle descrizioni puntuali dell’autrice si viene completamente assorbiti dalla lettura, curiosi di vedere come procederà questo periodo di silenzio, cosa farà la protagonista e come cambieranno i suoi rapporti sociali. Infatti, parte del libro descrive proprio come gli altri reagiscono a questo fenomeno del silenzio, a partire dai genitori e dalla sorella, tornando spesso su legami intimi come quello con Giacomo e Daniele e su come cambia l’amicizia con Silvia, la sua migliore amica estroversa.
Silvia veniva a trovarmi di rado, non aveva problemi a parlare per tutto il tempo ma era abbastanza chiaro che non si sentiva a suo agio. Era come se all’improvviso fosse diventata timida. Percepivo la sua difficoltà nelle pause troppo lunghe tra una parola e l’altra, come a calibrarne il peso per fare la scelta adeguata, oppure nei leggerissimi balbettii, una novità per lei. Era sempre stata abituata a essere la più chiacchierona, ma adesso, davanti a nessuna reazione, era come se fosse in imbarazzo, come si prova la prima volta che ti piazzano davanti una telecamera.
Ma la protagonista non sta intraprendo questo percorso come un esperimento, è più una sfida con sé stessa, un mettersi alla prova in maniera estrema per autodeterminarsi. Scegliendo il silenzio mette al primo posto sé stessa, ed è disposta a rinunciare a tutti quegli aspetti esteriori che si esprimono in parole, come l’educazione, o alle persone che non appoggiano la sua scelta.
Non si tratta neppure di uno sciopero del silenzio con un qualche fine sociale. Pur non volendo, inizialmente, tagliarsi fuori dalla società, inevitabilmente comincia un lento scomparire da essa che subisce un’accelerata quando il suo silenzio viene notato e diffuso sui media di comunicazione. Durante tutto il libro la critica ai media e social è aperta e si evidenziando soprattutto il modo differente con cui le persone si presentano sui loro profili, riplasmando la loro immagine. È il caso di Sivia, la migliore amica di C., che le risulta quasi insopportabile sui social. Per evitare di partecipare a questa farsa la protagonista si cancella da qualsiasi piattaforma, rinunciando anche agli aspetti di intrattenimento e ai video sciocchi che lei e Silvia amavano condividere. Ma non basta per evitare l’ipocrisia dei social: il suo silenzio diventa un trend, e si crea una community che travisa il suo non-detto.
I follower di Silvia erano cresciuti durante il lockdown ma la sua agente sosteneva che fossero ancora pochi. La rimproverava di non essere costante nelle interazioni e nelle condivisioni, di iniziare rubriche o Q&A e poi di piantarli lì di punto in bianco senza addurre motivazioni, di non pubblicare abbastanza look, di essere troppo impetuosa e scurrile, di non curare la sua community. “Tutto vero,” commentava Silvia rollandosi una sigaretta, il filtro tra le labbra che rendeva le vocali identiche. “I miei follower sono principalmente quarantenni arrapati e adolescenti incapaci di provvedere a sé stessi. Non sanno nemmeno usare la ricerca Google. Ed è assolutamente vero,” concluse accendendosi la sigaretta, “quando dicono che la tua community ti rappresenta.” Mi sentivo fortunata a non avere una community che mi rappresentasse.
È inoltre importante evidenziare come Francesca Manfredi sia in grado di rendere sulle pagine uno strano fenomeno che solitamente appartiene ai suicidi: a fatto avvenuto, tutti i conoscenti rileggono la vita del defunto in funzione del suicidio, cercandone le tracce come se fosse stato prevedibile. Lo stesso processo è descritto in queste pagine, con una doppia visuale: infatti il libro è diviso in una prima parte, narrata da Cristina stessa, e una seconda parte narrata da sua sorella Elena.
Nella prima parte, più corposa, si mettono in luce aspetti problematici che C. ha sempre trovato nel linguaggio, riflessioni sulla sua arbitrarietà e potenza, disseminate lungo tutto l’arco della sua vita. E nel frattempo, come queste esperienze e la costruzione del suo carattere l’abbiano sempre più avvicinata al silenzio. Lo stesso processo di scoperchiamento delle cause avviene anche nella seconda parte, per mano di Elena, che descrive da un’altra prospettiva la vita e i silenzi di sua sorella, e arriva a capirla. Con queste due parti, l’autrice descrive in maniera perfetta il processo investigativo che conduce le persone a spiegarsi il perché delle scelte altrui.
Infine, è importante capire come sia difficile esprimere la bellezza di questo libro e il suo equilibrio, la capacità di affrontare temi molto complessi suggerendo al lettore una visione che non essendo mai un bianco o un nero suscita sempre nuove domande. Si è accennato ad alcuni temi, come l’utilizzo delle parole, l’influenza del linguaggio sui legami tra persone e sulla specie umana, lo schiamazzare sui social. Nel libro c’è molto altro, eppure non c’è moralità, non si esprimono giudizi. Ed è questa mancanza di condanna che rende la profondità di questo libro una lettura scorrevole e leggera, mai ammorbata dalla possibile pesantezza dei temi. Nessun dubbio sul fatto che le parole utilizzate per scrivere questo libro siano state soppesate e cesellate, come dimostra il risultato finale.