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“Il fuoco invisibile. Storia umana di un disastro naturale” di Daniele Rielli – Premio Strega 2024

di Lara Bortolai

Agosto 2013, poco lontano dalla festaiola Baia Verde – quella dei balli, del lido Samsara e dell’olio abbronzante – in un campo vicino a Gallipoli sta succedendo qualcosa di meno rumoroso, ma ancora per poco. Alcuni ulivi iniziano a seccare in modo anomalo, le foglie da verdi si fanno rosse, poi brune e poi come bruciate. “Il fuoco invisibile. Storia umana di un disastro naturale” (Rizzoli, 2023) di Daniele Rielli, nella dozzina del Premio Strega 2024, racconta l’incendiaria epidemia del batterio Xylella che da quei primi disseccamenti ha ucciso ad oggi 21 milioni di ulivi in Puglia.

La narrazione segue dall’inizio la storia umana che si dispiega a partire dall’epilogo di quella di tanti alberi-simbolo delle vite personali, della famiglia dell’autore – in particolare del padre, che da Bolzano periodicamente affronta il lungo viaggio, rigorosamente in auto, di ricongiungimento col suo podere e che come password del wifi ha la parola “oliocrazia”; ma prima ancora del nonno, che poco prima di morire ha fatto un sogno strano: un suo grande albero era bruciato come consumato da un fuoco invisibile -, dell’intera comunità salentina, dell’Italia stessa, Paese mediterraneo nelle cui vene scorrono vino e olio.

Contro il terribile patogeno arrivato dalla Costa Rica (importato attraverso il commercio di piante ornamentali) e che nella provincia di Lecce ha trovato il suo clima ideale e un insetto vettore, la Cicalina sputacchina, non ci sono rimedi: Xylella si moltiplica nei vasi xilematici delle piante ostruendoli, muovendosi controcorrente rispetto alla linfa grezza e colonizzando lentamente ma inesorabilmente tutta la pianta. Almeno, questa è la storia divulgata dalla scienza. Si potrebbe anche definire come la verità strappata alla natura dopo notti insonni di studi e test, ma non accettata da una comunità che rifiuta la conseguenza più impattante delle procedure di contenimento di un patogeno che le norme europee censiscono tra quelli da quarantena: il taglio della pianta infetta e delle vicine perché l’epidemia non si propaghi.

L’autore stesso si avvicina alla vicenda a partire dall’interesse narrativo per la vulgata social (#difendiamogliulivi) e non solo – una delle prime ricerche online lo fa incappare nell’intervista a una Pm della procura di Lecce – del complotto, con argomentazioni e accuse che possono ricordare la sinossi di Avatar. Dagli scienziati che avrebbero importato dolosamente il ceppo per favorire il trapianto di ulivi transgenici della Monsanto ai rimedi della nonna per il contenimento, la mala informazione e le interferenze emotive di una comunità spaventata dall’emergenza non sono state arginate nemmeno da una lucida gestione politica, con una classe dirigente più preoccupata di non perdere consenso in vista delle imminenti elezioni regionali che dai richiami dell’Ue o dagli avvertimenti della comunità scientifica.

Rielli indossa i panni del figlio, poi si mette in quelli dei ricercatori del CNR di Bari e dello IAM di Valenzano – ripercorrendo la prima identificazione del batterio grazie all’intuizione dell’emerito Martelli fino alle estenuanti ore del folle interrogatorio dell’indagine della procura –, degli agricoltori e frantoiani che tentano di salvare i frutti dei sacrifici di una vita e persino dei negazionisti più incalliti. La sua penna si piega all’occorrenza a una chiara prosa scientifica, ma anche giornalistica e saggistica e cuce i ricami più romanzeschi agli stralci di conversazione o persino di trascrizioni, come nel caso degli interrogatori. Insomma, un romanzo di non fiction del livello cui ci ha abituato la prosa francese contemporanea con Carrère, capace di farsi divorare con interesse attraverso la tessitura di una rete complessa di livelli e tempi della narrazione. Rielli interseca la storia personale a quella di personaggi e di episodi ben costruiti, dieci anni dopo quel primo allarme dell’ottantenne Martino stupito dal fenomeno dei disseccamenti al genero dirigente del CNR di Bari, passando per il marzo del 2015 in cui l’autore decide di tornare a lavorare su una storia ambientata in Salento (dopo aver passato i tre precedenti anni a farlo per Lascia stare la gallina, suo primo romanzo per Bompiani), fino alla data in calce all’ultimo capitolo: Roma, gennaio 2023.

Non si tratta di un’inchiesta ben confezionata, né di un reportage diluito in uno stile narrativo, ma propriamente di un romanzo, e questo appare evidente al lettore quando incappa nella parte terza intitolata “Storia sconosciuta dell’ulivo”, dove Rielli in un paio di efficaci quadretti sfata il falso mito storico del primato dell’ulivo da olio extravergine del Salento, cavallo di battaglia dei negazionisti e di una certa narrazione nostalgica di un’arcadia perduta. Gli ulivi secolari fino a quel momento ritenuti immortali sono stati in gran parte piantati a Gallipoli per la produzione dell’olio lampante nei frantoi ipogei, a metà Settecento Carlo Borbone favorì lo sviluppo della monocoltura dando incentivi fiscali a chi disboscasse o convertisse i terreni per piantare tali alberi. Le due varietà scelte, l’Ogliarola e la Cellina, sono piante possenti, dalle ampie chiome che permettevano ai contadini di coltivarci sotto, eludendo le tasse; meno efficaci, in realtà, in vista della produzione alimentare che avrebbe davvero interessato il Salento solo dopo il crollo del mercato dell’olio lampante con l’avvento dell’elettricità. L’extravergine, poi, è un’invenzione che risale al 1960. Se a questo si aggiunge un’industria italiana non proprio rapida nell’innovazione e un fabbisogno d’olio molto superiore rispetto alla capacità produttiva, è facile capire come la centralità della produzione di olio della zona vada un poco ridimensionata, o meglio, come ci si debba rendere conto che prima dell’arrivo del batterio la produzione aveva già le sue debolezze e un mercato piuttosto elitario visti i prezzi della concorrenza spesso importata, per esempio spagnola.

La ricostruzione storica della presenza e fortuna degli ulivi ora decimati dal batterio è il primo tassello di un’argomentazione antropologica che s’insinua qua e là tra le pagine e culmina negli ultimi capitoli del romanzo. Uno in particolare è interamente dedicato alla ricostruzione del tarantismo, leggenda che narra della taranta come danza curativa contro la follia indotta dal morso di un ragno velenoso, in realtà occasione rituale e quindi codificata e “purificata” per tante donne di liberare impulsi repressi e oggi mito adombrato e non sempre conosciuto dietro le quinte della moderna e popolare Notte della Taranta. Rielli delinea il profilo dell’homo sapiens che è homo narrans in grado di codificare la natura e i suoi misteri all’interno di un sistema simbolico in cui cerca una forma di catarsi. Gli archetipi simbolici mutano nel tempo, ma riaffiorano in tante manifestazioni emotive collettive; la nostra epoca vive un contrasto: “Abbiamo un cervello narrativo – dichiara l’autore in un dialogo-intervista con Amedeo Balbi sul suo canale YouTube per l’uscita del libro – ci organizziamo socialmente attraverso le storie però poi progrediamo dal punto di vista materiale e di sapere puro attraverso metodi non narrativi come quello della scienza”.

“Il fuoco invisibile” mette un accento interessante proprio su questa tensione tellurica tra il metodo scientifico come chiave interpretativa della natura e i bias cognitivi delle nostre mitopoiesi culturali – cui ci appigliamo spesso proprio quando la realtà è più complessa e disastrosa -, e, cosa doppiamente notevole, lo fa da dentro una narrazione, da un romanzo.


PDR #48 IL FUOCO INVISIBILE: la vera storia della strage degli ulivi. Daniele Rielli e Amedeo Balbi – YouTube

Il fuoco invisibile – Rizzoli Libri

Aratea Cultura

Lara Bortolai

Redattrice di Letteratura

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