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Il Fuoco che ti porti dentro di Antonio Franchini – Premio Campiello 2024

Il rapporto tra genitori e figli è una delle macro tematiche di cui, forse, si è maggiormente nutrita la letteratura nell’immediato contemporaneo, conseguentemente all’ascesa e alla rapida saturazione della non-fiction, genericamente intesa. Per fare giusto qualche esempio, limitandoci al contesto italiano e guardando soprattutto alle opere candidate ai principali premi letterari degli ultimi anni – attribuendo virtualmente a detti premi una qualche garanzia di qualità letteraria – troviamo testi come Splendi come vita e Dove non mi hai portata di Maria Grazia Calandrone, La Traversata Notturna di Andrea Canobbio, Da parte di madre di Federica De Paolis, Invernale di Dario Voltolini, Niente di Vero di Veronica Raimo, Come d’aria di Ada D’Adamo e La casa del Mago di Emanuele Trevi, testi che, per certi versi, attraverso la sovraesposizione del punto di vista della voce narrante, affrontano e mettono in scena il groviglio dei rapporti familiari.

Per tentare di dare un’interpretazione a questo fenomeno prendiamo in prestito le parole di Raffaele Donnarumma per cui “contro il mito postmoderno della morte del soggetto, la presa di parola individuale è uno dei fenomeni tipici dell’ipermoderno, insieme fomentato e svalutato dalla rete. L’io appare carico di responsabilità e di investimenti che lo riscattano”[1]. Non bisogna dunque stupirsi troppo se le opere di non-fiction, e i memoir in particolare, mettano al centro i rapporti tra il soggetto ormai riscattatosi nel suo ruolo conoscitivo – e dunque divenuto punto di vista privilegiato – e i suoi altri significativi.

A questa piccola tendenza di testi non finzionali che parlano di relazioni familiari e che vengono candidati a premi letterari prestigiosi appartiene anche Il Fuoco che ti porti dentro, ultimo libro di Antonio Franchini, finalista al Premio Campiello.

Franchini, a partire da un incipit memorabile nel suo essere straniante ed antifrastico (“nonostante sia da tutti considerata una bella donna, mia madre puzza”), ricostruisce la relazione complessa con sua madre Angela, una donna prepotente, irruenta, con degli atteggiamenti molto netti nei confronti della vita, una donna che incarna tutti gli orrori dell’Italia, “il qualunquismo, il razzismo, il classismo, l’egoismo, l’opportunismo, il trasformismo, la mezza cultura peggiore dell’ignoranza, il rancore”, tagliando di netto e rovesciando fin da subito i tentativi di pacificazione che, solitamente, muovono la scrittura dei memoir postumi alla scomparsa di un genitore.

I lettori più affezionati di Franchini ricorderanno che l’autore ha già utilizzato la figura della madre come ombra negativa in altre delle sue storie, tra cui spicca senza dubbio L’Abusivo. In quell’occasione, nel raccontare il caso Siani – un giovane giornalista ucciso dalla camorra – Franchini aveva optato per un montaggio alternato tra una parte pubblica, con la trascrizione delle interviste di alcuni giornalisti, colleghi e conoscenti di Siani e una parte privata in cui venivano riportati i discorsi tra Angela e sua madre, soprannominata il Locusto. L’intento di questo montaggio era quello di “mostrare come certi meccanismi di violenza, di sopraffazione, di amoralità fossero latenti nelle relazioni private della società meridionale, anche borghese, prima ancora che nella criminalità organizzata” rendendo, di fatto, la madre simbolo di un sostanziale disvalore.

In questo caso, invece, Angela dismette i panni dell’allegoria disincarnata e, senza mai trasformarsi in una semplice caricatura macchiettistica, da persona diventa personaggio principale di un racconto sfilacciato e che si svolge e riavvolge lungo i luoghi – Napoli e Milano, soprattutto – e lungo gli anni.

La composizione di questo ritratto – che per l’autore poteva avvenire solamente nella scrittura – si muove secondo due principali strategie enunciative: da una parte Franchini alterna continuamente diverse lenti interpretative, tutte quante modulate sulla semantica dell’avversione, senza mai riuscire a trovare il tono giusto con cui cercare di ricomporre la figura della madre, sperando così di comprenderla meglio (come ha notato Michele Farina: “L’enigma della sua esistenza resiste alle interpretazioni e può imbarazzare critici e recensori; si ha come la sensazione che ogni affondo analitico manchi il bersaglio, che ogni lettura sia al tempo stesso troppo e troppo poco per rendere piena giustizia a questo personaggio”). Dall’altra parte, la figura di Angela emerge dal confronto, spesso impietoso, con una nutrita schiera di personaggi secondari sostanzialmente sempre positivi, a loro volta protagonisti di episodi minori che alternano e frammentano il racconto della vicenda principale. In queste sezioni l’io della voce narrante, altrimenti sovrastato dalla figura ingombrante ed eccessiva di Angela, torna ad assumere un ruolo esposto, ad essere fulcro e filtro conoscitivo.

Accanto a questo duplice meccanismo di indagine, il testo talvolta non rinuncia a commuovere e a tradurre una certa emozione, ma mantiene uno sguardo sostanzialmente sociologico che sceglie di non insistere sulla dimensione patetica, emotivamente intensa e dolorosa degli eventi ma guarda innanzitutto e rende conto delle azioni nella loro dimensione sociale, di costume. Da qui l’uso sistematico dell’iterativo e del commento gnomico che rappresentano l’abitudine, la strutturalità del commercio sociale delle azioni descritte, come gli episodi ripetuti in cui vengono riportati sulla pagina i lunghi monologhi, infarciti di frasi formulari in dialetto, che Angela mette in scena alla mattina, quando il figlio va a trovarla per un caffè.

Franchini, con misura, mantenendo la giusta distanza e senza dismettere mai un intento sostanzialmente sociologico (che avvicina il testo alle auto-socio-biografie di Ernaux), invita i lettori a conoscere sua madre, rende onore al desiderio di Angela di recitare una parte scorretta e anticonformista e prova a rispondere, parzialmente, ad una serie di domande: chi è stata Angela Izzo?  Quale esperienza passata, quale frustrazione, quale ferita rimasta aperta ha reso Angela tanto ostile, irruenta, lontana da qualsiasi forma di pacificazione? Quale motivo, sta alla base della rabbia di Angela: la guerra che ha vissuto da bambina? Il padre mancato troppo presto o la madre apparentemente immortale e capace, a sua volta, di insudiciarle la giovinezza e la maturità? Un sentimento di inferiorità causato dal suo essere donna, fiera, del Sud? Oppure, più semplicemente, il fuoco che porta dentro, che la divora senza alcuna ragione o motivazione apparente?

Come ha notato Michele Farina Angela è certamente rappresentata come una donna

“violenta e viscerale, incline al disprezzo di tutto ciò che non rientra nei suoi assiomi esistenziali, insieme radicati e volubili. È una donna piena di difetti: fatalista, campanilista, la sua visione del mondo è improntata all’utilitarismo in società e al reazionarismo in politica. Sedotta da ogni stereotipo, è capace alla bisogna di cambiare opinione e umore a seconda delle convenienze. Angela si esprime solo per anatemi, capricci, lamenti, imprecazioni e offese, maldicenze e pettegolezzi”

eppure le risposte a cui Franchini sembra pervenire, come si può intuire da quanto detto sopra, non sono mai nette e chiare ma oscillano e si modulano sulla diversa tonalità interpretativa scelta volta per volta dall’autore che non può far altro che giungere alla conclusione per cui  “Chi vuole tentare di capire una persona vera essendo consapevole che conoscere veramente non è possibile e che la persona reale gli sfuggirà comunque, può provare a raccontarla come il personaggio di un romanzo, che è poi ciò che tutti siamo, alla fine, a patto di trovare uno che in un romanzo ci metta”.

L’autore, inoltre, come accade spesso nelle opere non finzionali della stretta contemporaneità, riflette anche sulla sua operazione di scrittura

sarebbe scontato dedurre da quanto ne ho scritto finora che il mio interesse per Angela abbia tutte le caratteristiche della ferita da medicare, e trattandosi di mia madre sarebbe altrettanto ovvio dedurne implicazioni psicoanalitiche pesanti, ma per poco che sia lecito a un autore intervenire a proposito dell’ermeneutica di se stesso, sarebbe un’interpretazione sbagliata o eccessiva. Per me non è stata una lettura liberatoria, nessuna resa dei conti postuma

L’opera di Franchini, in ultima analisi, è un romanzo-memoir affascinante nel suo ribaltare le attese e gli stereotipi del genere (ammesso che un genere costruito interamente sulla messa in scena dell’interiorità di un io sovraesposto possa avere degli stereotipi) per cui, alla fine, i rapporti tra genitori e figli sono dominabili, razionalizzabili e ricostruibili nello spazio pubblico della letteratura. Il grande pregio de il fuoco che ti porti dentro, dunque, è la sua capacità di ricostruire con grande limpidezza linguistica e acume sociologico l’arco biografico di una donna che non evolve mai, che “ha messo nel voler essere personaggio, la stessa determinazione che altri mettono nel voler essere autori” e che nella sua vita “ha forzato i toni, ha calcato la mano, ha esagerato abdicando a ogni delicatezza, pestando con strepitio ogni passo sul palcoscenico della vita”


[1] Raffaele Donnarumma (2011), Ipermodernità: ipotesi per un congedo dal postmoderno. In
“Allegoria”, 64.


https://www.arateacultura.com

https://www.rivistailmulino.it/a/il-fuoco-che-ti-porti-dentro

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