“Il duca” di Matteo Melchiorre – Premio Bergamo 2023
“Il duca”, ultimo rampollo della ormai decaduta casata dei Cimamonte, abita e osserva da un’imponente tenuta che sovrasta il borgo montano di Vallorgàna, un ecosistema in via di estinzione, una popolazione chiusa in un tempo e in uno spazio cristallizzato in un agglomerato di tradizioni incatenate ad un passato che si appropria del presente. La voce narrante del Duca scorre, come scorre una quotidianità sempre uguale a se stessa, fatta di gerarchie sociali, di lavori manuali e consuetidini reiterate all’infinito. La vita di paese è un eterna pièce teatrale, fatta di attori legati al loro ruolo, adornati da maschere che sfoggiano nelle migliori occasioni.
Questa imperturbabile condizione di equilibrio iniziale, è destinata a vacillare: il casus belli non è altro che una faida per il controllo di alcuni ettari di confine, perpetuata dal giovane Duca di Cimamonte (voce narrante e protagonista assoluto del romanzo) contro Mario Fastréda, anziano imprenditore ai vertici della gerarchia sociale del paese. Scoccata la miccia, in breve tempo l’incendio divampa portando a galla non solo questioni irrisolte, ma anche enigmi da decifrare, turbamenti interiori e controversie morali. Tutto questo, viene magistralmente narrato da Matteo Melchiorre (storico di professione) nel suo ultimo romanzo, edito da Einaudi nel 2022 e finalista alla XXXIX edizione del Premio Narrativa Bergamo.
Quando il passato nutre il presente: tra storia e identità
Ebbene: per effetto di queste cesure, il passato prossimo sprofonda ipso facto nel passato remoto. Diventa qualcosa di completamente altro, e a tal punto che anche le manifestazioni del passato prossimo che perdurano nel presente, siano oggetti, luoghi o ricordi, ammutoliscono e ci divengono estranei. Qualcosa si rompe. Subentra un’estinzione. Ecco. Questo è il tracollo del passato: un repentino sprofondamento del passato prossimo nel passato remoto.
Matteo Melchiorre, “Il Duca” (Einaudi, 2022) pag. 387
Fin dal principio il lettore comprende come questa narrazione memorialistica, scandita dalla prima persona del duca stesso, tenda ad oscillare continuamente tra un “passato remoto” (quello degli antenati Cimamonte) e un “passato prossimo” (rappresentante la vicenda narrata). Il primo si innesta, prepotentemente sul secondo, riuscendo continuamente ad influenzarlo, quasi si trattasse di un burattinaio che condiziona, come fossero sue marionette, tutti gli snodi principali (i cosiddetti “colpi di scena”) attraverso cui la storia procede. Questa applicata da Melchiorre, è una strategia narrativa avente uno scopo ben preciso, che possiamo dedurre solo analizzando alcuni tratti specifici all’interno del romanzo.
In primo luogo, il Duca, nella sua solitaria esistenza, vive alla ricerca di documenti, tracce, indizi, riguardanti la storia della sua dinastia. Ammette di non sentirsi “di un rango superiore” ma rimarca, con un briciolo di insolenza, che la nobiltà non è questione d’animo, ma di sangue. Il suo unico impiego giornaliero sembra essere la lettura dei “Chironica Cimamontium ab anno 1495”, un antico manoscritto contenente le glorie e i dolori della dinastia Cimamonte: apparentemente il Duca analizza il libro per ricostruire storicamente un passato, ma scavando nell’interiorità del personaggio, si comprende come in quel libro, stia invece cercando “frammenti sparsi” della sua identità. Talvolta, questa sua istintuale ricerca lo rende fiero, lo spinge ad azioni eroiche, alla guerra per il controllo di quel territorio a lui tramandato dai suoi antenati, talvolta lo terrorizza, come nel caso del conte Giuseppe Cimamonte, colpevole di efferati crimini e morto nelle oscurità del Bus del Caoròn.
Allora pensai che Maria aveva ragione, e che aveva nominato il senso, la piaga, la catena: archeologo di me stesso. Cos’altro facevo, infatti, se non scavare senza sosta? La villa, le carte dell’archivio, i dipinti e gli altri oggetti dei miei avi, la Chronica Cimamontium, Vallorgàna, la Montagna; qualsiasi cosa purché escavabile, qualsiasi cosa purché percorrendola al contrario mi consentisse di intravedere le plausibili regioni lontane dalle quali proveniamo io e il mondo in cui vivo.
Matteo Melchiorre, “Il Duca” (Einaudi, 2022) pag. 245
Nella definizione “Archeologo di me stesso”, emerge una delle colonne portanti dell’intero romanzo: l’uso della storia come tramite, essenziale, per contestualizzare le proprie azioni all’interno di quel microcosmo che è Vallorgàna. Il Duca, ritrovatosi orfano a poco più di vent’anni, usa la ricerca archeologica per riempire la sua esistenza di un significato incontestabile e impenetrabile. Chiuso nelle mura del suo palazzo cerca se stesso nel sangue, nella stirpe, che lo rende abile di azioni che non pensava di poter compiere: la sua sfrontatezza, nei confronti del “nemico” Mario Fastréda è un aspetto della sua identità che neanche lui sembra conoscere, la sua tenacia si rivela essere un superpotere che sovrasta una docilità solo apparente.
Sia nel culmine della drammaticità, sia nelle battute finali del romanzo, la realtà non si manifesta mai, agli occhi del narratore, come qualcosa di autonomo e indipendente dal “passato remoto”, ma ogni evento non è altro che un refuso del passato. Il secondo tassello da analizzare, è dunque legato all’atto stesso della faida, che vede due uomini “d’onore” combattere a colpi di dispetti e sgambetti reciproci. Il motivo di questo profondo astio, irrisolvibile col compromesso, risulta essere molto più profondo di quanto l’autore abbia cercato di farci credere nelle prime 300 pagine: la Chironica Cimamontium, ancora una volta, travolge gli eventi, svelando come Fastréda fosse in realtà il figlio illegittimo Ausilio Cimamonte (il nonno del Duca).
In questo momento di “tracollo” emerge dunque come il “presente è schiavo del passato anche quando non se ne sia consapevoli; e il vento, grandiosa sintesi della nostra debolezza, diceva che ogni riferimento, anche se di secolare fedeltà, può venire fracassato in poche ore”. Passato e presente si manifestano come due componenti inscindibili, sia nell’interiorità dei personaggi in gioco, sia nelle azioni che essi compiono, giorno dopo giorno. La morte di Fastréda presuppone, agli occhi del Duca, un perfetto parallelismo con la vicenda di Giuseppe Cimamonte: entrambi vengono trovati esanimi nel medesimo dirupo, il cosiddetto “Bus del Caoròn”. Il raziocinio, che presuppone coincidenza, lascia così spazio a destino e predestinazione, alla ricerca di un ordine superiore inesistente, ma argomentato tramite le lucide armi della Chironica.
E quanto alla gabbia, eccola: la villa e tutta la sua brava sedimentazione storica di cose e genealogie. E poi c’era anche Vallorgàna. Non era anche questa una seconda gabbia? Una seconda gabbia con la sua brava sedimentazione storica di cose e genealogie.
Maria poteva anche aver ragione sul punto della prigionia e della gabbia. Ma chi, in fondo, non è prigioniero di se stesso? E chi non si è costruita la sua propria gabbia?
Siamo tutti architetti della nostra gabbia. Transitiamo o dimoriamo dentro gabbie che qualcuno, oculatamente, può magari scegliere di chiamare contesti.
Matteo Melchiorre, “Il Duca” (Einaudi, 2022) pag. 277
Siamo dunque portati a comprendere come la figura di spicco all’interno del romanzo non sia altro che la storia (intesa come disciplina) che tira i fili della vicenda narrata e guida ogni intento, ogni istinto che pervade la popolazione di Vallorgàna. Una delle grandi peculiarità dell’opera risulta essere il ruolo, quasi antagonistico, riservato a questo “passato ingombrante”: esso contaminando il presente, non solo lo giustifica ai nostri occhi, ma arriva ad alimentare, motivandole, le controverse azioni delle varie personalità in gioco. L’ostinazione del Duca, l’odio di Fastréda nei suoi confronti, la continua ricerca di corrispondenze tra la vita reale e la Chironica: ogni azione non è altro che il prodotto di vite incatenate ad un tempo andato. Solo una bufera così forte da distruggere tutto ciò che è remoto può liberare il protagonista da questa gabbia, spingendolo a restare per ricostruire, riportando ai margini il passato e lasciando che subentri, giorno dopo giorno, il presente.
Vallorgàna: un cronotopo ingombrante
Parlando de “Il Duca” è pressoché impossibile prescindere dallo spazio-tempo in cui la narrazione si inserisce: nel descrivere quel cronotopo montano che è Vallorgàna, Melchiorre non si limita a costruire un paesaggio asettico, ma lo arricchisce di connotazioni toponomastiche precise, grazie alle quali il contesto in cui si muovono i personaggi, appare di un realismo disarmante. Allo stesso tempo però ogni luogo che abita la narrazione è reso “riconoscibile” al lettore, che può immedesimarsi con facilità, ritrovando nella memoria scenari affini.
A favorire tale duplicità è l’immagine di una Vallorgàna statica, immutabile e imperturbabile: anche se il tempo l’ha usurata, spegnendo gli antichi fasti, cerca di sopravvivere, nascondendosi nella gabbia del passato. Quando “Il Duca” si trova nella condizione di abbandonare il paese, prende coscienza di come la sua vita nella villa non fosse altro che un rifugio dalla realtà, un’autoimposta privazione della libertà di vivere nell’oggi.
Mi sentii allora di aver come ritrovato, nella sua interezza, il filo del miei ultimi dieci anni, nel corso dei quali avevo fatto della villa un riparo, che mi ero augurato capace di tener lontani i tumulti, i cambiamenti, le decisioni. Non aspiravo che a gustare, nella bonaccia e nel piú grande egoismo, i conforti di una defilata, e ammettiamolo: doratissima, diserzione dal mondo.
A questo fine, è evidente, Vallorgàna e la Montagna erano stati luoghi ideali in cui nascondersi. La storia, pensavo allora, lasciandoseli un poco indietro e quasi dimenticandoli, li ha isolati in una loro foschia, nell’illusione di una stasi. Nulla e nessuno, avevo anche pensato, quando mi ero ritirato in villa, sarebbe venuto a reclamarmi in un mondo rinchiuso e appartato, e che per giunta un po alla volta, da sé, andava spegnendosi.
Matteo Melchiorre, “Il Duca” (Einaudi, 2022) pag. 419-420
Quello di Vallorgàna è un cronotopo estremamente ingombrante, per il semplice fatto che la sua storia sembra muoversi in coincidenza con quella dell’ultimo Cimamonte. Analizzando gli sviluppi in parallelo, notiamo come entrambi, pur cercando di preservare una stasi eterna, sono vittime dell’atto perturbante (la verità su Fastréda da un lato, il massacro del vento dall’altro) che li devasta nel profondo. Il loro viaggio termina con l’approdo nel presente, con la volontà di proiettarsi al futuro, ammettendo le reciproche debolezze e cercando così di sottrarsi ad un destino incerto. Il Duca cerca di esistere al di fuori della montagna, ma nelle battute finali, si rende conto che non può; la montagna, allo stesso modo, ha bisogno del Duca per aggirare l’oblio.
Melchiorre dipinge dunque un panorama montano che, pur riprendendo alcuni topos letterari canonici, si mostra non solo nei suoi tratti virtuosi, ma anche nelle sue componenti più aspre e spigolose. Vallorgàna può essere percepita come “quinta essenza del silenzio e del raccoglimento” solo da un occhio inesperto: solo chi, come il Duca, ne fa parte, riesce a specchiarsi completamente in essa, vedendo riflesse le proprie debolezze e contraddizioni.
Tra finzione e realtà
In ultima battuta, all’interno del romanzo, emerge un file rouge che può identificarsi come punto di convergenza tra la finzione narrativa e l’attualità. Riducendo la trama al suo minimo denominatore comune, vediamo come ogni evento significativo ruoti attorno ad una “guerra” fratricida per lo spostamento di un confine. Le motivazioni di ambedue le parti sono legittimate da una diversa interpretazione (o meglio, manipolazione) della storia passata. La discordia provoca un inarrestabile “effetto domino” che ha come estrema conseguenza la morte e la distruzione. Spogliando dunque la narrazione da ogni costrutto, è possibile riflettere sul legame che questo romanzo può avere con l’oggi, con la stretta attualità. Quanti conflitti, ancora oggi, si combattono sulle spalle della storia ? La risposta è senza dubbio scontata. Tanti, troppi.
Attraverso “Il Duca”, Matteo Melchiorre, ci spinge a riflettere non tanto sull’importanza della storia, ma su quanto essa possa risultare, anche in mani apparentemente innocue, una pistola fumante. In qualche misura l’autore sembra analizzare la sua stessa materia di studio, senza mai sacralizzarla, ma inserendola in un contesto astratto dal quotidiano, nel quale le conseguenze di un “abuso del passato” possono essere percepite con una straordinaria semplicità e chiarezza.
È senza dubbio giusto mettere le mani avanti e chiedersi quanto di quest’ultima riflessione sia il frutto della mente di un recensore inesperto e quanto sia veramente nell’intenzionalità autoriale. Rimane, al termine della lettura, il piacere di un ottimo romanzo, e qualche spunto, di innegabile applicabilità attuale.