Musica e Teatro

Il Don Giovanni di Mozart e Da Ponte – Il dramma giocoso dell’incontro con la morte

Don Giovanni e Zerlina
Don Giovanni e Zerlina

Il mito di Don Giovanni ha attraversato quasi due secoli di storia prima di incontrare l’abile penna del librettista italiano Lorenzo Da Ponte e il genio musicale del compositore austriaco Wolfgang Amadeus Mozart, per poi proseguire il suo viaggio fino ad arrivare ai nostri giorni, dove per antonomasia il termine “dongiovanni” è diventato un modo di dire nella tradizione popolare.

La coppia Mozart-Da Ponte, ormai consolidata dal grande successo de “Le nozze di Figaro”, nell’anno 1787 è chiamata a lavorare a una seconda commissione offerta dal Teatro Nazionale di Praga. La scelta del soggetto dell’opera è affidata interamente a Da Ponte, il quale dopo aver comunicato a Mozart la sua decisione, riporta nelle sue memorie: “Scelsi per lui il Don Giovanni, soggetto che infinitamente gli piacque”.

Le origini di Don Giovanni

Don Giovanni è un personaggio che nel corso della sua vita nella tradizione letteraria europea ha avuto occasione di parlare numerose lingue e diversi dialetti – spagnolo in principio, francese, inglese, naturalmente italiano ma anche dialetto napoletano e veneziano – e di calarsi in molti stili differenti: drammi teatrali, commedie in prosa, farse, pantomime, balletti e molte altre forme che la tradizione dell’arte di ogni tempo ha proposto.

Tra questi molteplici Don Giovanni, però, è proprio il personaggio modellato da Mozart e Da Ponte ad averne reso il nome un modo di essere: è lui il “dongiovanni” con cui anche chi non ha interessi letterari o musicali ha a che fare ancora ai giorni nostri – si spera, il meno possibile -.

L’opera: Il dissoluto punito ossia il Don Giovanni

Locandin originale per la prima di Vienna, 7 maggio 1788
Locandina originale per la prima di Vienna, 7 maggio 1788

Il titolo completo, “Il dissoluto punito ossia il Don Giovanni”, racchiude fin da subito l’epilogo dell’opera, creando, però, un’atmosfera ambigua. Questo perché il titolo, dal carattere solenne e inquisitorio, appare in antitesi con l’indicazione riportata poco dopo nel libretto: “dramma giocoso” , genere appartenente al mondo dell’opera buffa. Prima che la musica inizi, l’ascoltatore non può far altro che chiedersi: sarà una commedia o una tragedia?

La risposta a questa domanda rimane ancora celata nel libretto, il quale racconta le vicende amorose del licenzioso cavaliere, guidato dalla sua audacia erotica. La trama si sviluppa totalmente attorno alla figura di Don Giovanni, assoluto protagonista dell’opera, di cui vengono narrate, con tono comico, le imprese amorose di dubbia moralità e le conseguenze che queste provocano nelle vite dei numerosi personaggi secondari che contornano le scene.

Troviamo il servitore Leporello, Donna Elvira, dama sedotta e poi abbandonata, i nobili Donna Anna e Don Ottavio, i contadini Zerlina e Masetto. Nell’opera ognuno di questi personaggi è dipendente e succube della figura di Don Giovanni, il quale sembra voler scavalcare Mozart e Da Ponte per diventare lui stesso il regista della propria storia. Contadini, servitori e nobili assumono le sembianze di marionette agitate dai fili dell’arte manipolatoria di Don Giovanni. Tutti ne subiscono l’influenza, ad eccezione di un personaggio, l’unico capace di affrontare il libertino sia fisicamente ma anche per valore e audacia: il Commendatore, padre di Donna Anna.

L’incontro con il Commendatore è l’evento che sconvolge la vita di Don Giovanni. Nella scena prima, i due si affrontano a duello dopo che quest’ultimo, mascherato, irrompe nel cuore della notte nella stanza di Donna Anna con la più ignobile delle intenzioni. La dama viene tempestivamente salvata dal padre, il quale però nel combattimento perde la vita. Don Giovanni, con molta leggerezza, a seguito dell’omicidio fugge, ancora ignaro che la sua azione lo condannerà all’inferno, quando nel finale dell’opera la statua del Commendatore defunto risalirà dall’oltretomba per punire il dissoluto.

La chiave di lettura nell’ouverture

Se l’ascoltatore volesse trovare una risposta alla domanda ancora irrisolta a proposito della caratterizzazione stilistica dell’opera, potrebbe provare a schiarirsi le idee attraverso l’ouverture, ovvero il breve brano sinfonico eseguito prima dell’apertura del sipario e che al suo interno contiene i temi e le melodie principali dell’opera, come una sorta di trailer per i moderni film.

Riconoscendo in esso i vari episodi melodici che caratterizzeranno le vicende che accadranno in seguito, ci accorgiamo subito che il primo personaggio descritto dalla musica di Mozart non è il protagonista dell’opera, Don Giovanni, bensì il Commendatore. L’accordo di re minore con cui l’opera esordisce è lo stesso che nel finale secondo annuncerà la risalita dall’oltretomba della statua del vecchio padre ucciso per mano del giovane cavaliere. Inoltre, re minore è per natura una tonalità tragica, assolutamente in contrapposizione con la dicitura di “dramma giocoso”, ma perfettamente in stile con l’aura di solennità drammatica che circonda la figura del Commendatore.

L’ouverture procede con un accompagnamento degli archi in un pesante ritmo puntato, una reminiscenza tragica dallo stile francese degli ouverture di Lully, che vuole rappresentare i lenti passi di pietra della statua nelle tenebre, mentre flauti e oboi trovano nelle note lunghe tenute una sonorità spettrale. Proseguendo, un altro elemento che definisce il clima di turbamento e tensione sono le sincopi nella melodia dei primi violini, immagine sonora dell’equilibrio precario di Don Giovanni sulla soglia dell’inferno, accompagnate dalle quartine di sedicesimi dei secondi violini che delineano le crepe nella terra che si sgretola pian piano sotto i piedi del libertino.

Non è un caso che questo frammento melodico così importante sia stato affidato proprio ai secondi violini: l’andamento ritmico ossessivo e gli intervalli aumentati e diminuiti fanno pensare a un movimento nelle profondità della terra, e di conseguenza non potevano che provenire da una sezione interna della famiglia degli archi, come se Mozart avesse voluto mettere in subbuglio le viscere dell’orchestra per ottenere la stessa reazione nell’ascoltatore.

Dopo un susseguirsi di scale ascendenti e discendenti in continuo divenire sui passi della statua, e arrivati sull’accordo di dominante, improvvisamente ma con una consequenzialità impressionante: re maggiore. L’accordo sul quinto grado della scala è comune nelle tonalità maggiori e minori, quindi il passaggio armonico è immediato. Più complessa è invece la carica emotiva che questa modulazione sprigiona: tutt’un tratto, dal profondo degli inferi, veniamo introdotti nella tonalità solare delle feste e delle bravate di Don Giovanni, del suo spirito frizzante, distaccato e noncurante della sofferenza altrui.

Al termine dell’ouverture è finalmente svelato il mistero dell’incongruenza tra titolo e didascalia: il Don Giovanni di Mozart e Da Ponte è il prototipo perfetto della fusione tra il genere serio e quello comico, è un capolavoro in continua trasformazione e ambiguità tra riso e pianto, dove non esiste più il paradosso tra buffo e tragico ma in cui questi due stili che sembrano agli antipodi si completano a vicenda.

Tra opera buffa e opera seria

La reciproca contaminazione tra opera buffa e opera seria trova il suo culmine nel finale primo dell’opera, dove per la prima volta tutti i personaggi sono riuniti sul palco in occasione della festa organizzata nel palazzo di Don Giovanni.

Al ballo, “aperto a tutti quanti”, partecipano contadini, nobili, servitori, musicisti, uniti nei festeggiamenti celebrati dalle parole del proprietario di casa: “viva la libertà”. Attraverso questa frase, Don Giovanni assume per un attimo l’identità tipica del libertino, cioè il libero pensatore che non si piega a nessun dogma e proclama la sua assoluta indipendenza, e viene temporaneamente accantonata la sua proiezione distorta dal desiderio erotico, ma che si riconfermerà poco dopo.

Ma non è solo l’estrazione sociale a differenziare personaggi presenti nella stessa scena, bensì anche la loro provenienza stilistica: ci sono i nobili Donna Anna, Donna Elvira e Don Ottavio che appartengono al clima dell’opera seria, i contadini Zerlina e Masetto che derivano dal mondo dell’opera buffa, come anche il servitore Leporello. La coesistenza di questi personaggi in un unico ambiente crea un’atmosfera instabile piena di colpi di scena, in un apparente caos perfettamente organizzato da Da Ponte. Ciò che rende questo finale una delle più geniali pagine di musica mai scritte è l’abilità di Mozart nel trasformare in musica il pluristilismo del libretto.

Mozart impiega in questa scena tre orchestre in palcoscenico: la prima, quella più grande, suona un minuetto, una danza in 3/4 destinata al ceto aristocratico sulla quale danzano i tre nobili. In contemporanea la seconda orchestra, composta da soli archi, esegue una contraddanza in 2/4 , tipicamente contadina dedicata a Zerlina. Nello stesso momento la terza orchestra, anch’essa composta da soli archi, suona un Ländler, ovvero un valzer campagnolo tedesco, in 3/8 sul quale ballano Leporello e Masetto. In questa poliritmia magistralmente sviluppata, ogni personaggio trova una sua precisa identificazione caratteriale oltre che sociale. Nella sovrapposizione controllata dei ritmi il nobile danza con la contadina, il personaggio buffo con quello serio, in una molteplicità di elementi che coesistono e si completano tra loro.

Non ultimo per importanza, è anche il personaggio di Don Giovanni ad essere pervaso dal dualismo che caratterizza l’opera nella sua struttura: qual è il suo ruolo, è il buono o il cattivo? All’ascoltatore l’ardua sentenza. Per tutta la storia, Don Giovanni è lanciato in continue avventure erotiche, per il puro gusto di conquista, compie azioni riprovevoli, non segue alcun principio morale, è un assassino, non si interessa al male che provoca, è un manipolatore, un bugiardo, e tutt’altro che un animo nobile. Sembrerebbe quindi avere tutte le carte in regola per essere classificato come personaggio negativo, ma il modo in cui la musica lo presenta al pubblico, in un clima sempre leggero e giocoso di festa, lo fa apparire quasi come un eroe positivo, un vecchio amico per cui non ci facciamo nessun problema a coprirgli le spalle, anche se si concede qualche scappatella.

Ma quindi, perché un personaggio che, tutto sommato, non appare così malvagio e a cui lo spettatore si affeziona viene punito con la dannazione eterna all’inferno? La risposta appare chiara nel secondo atto: finché Don Giovanni si prende gioco dei vivi, anche con la peggiore delle azioni, ciò che ne consegue appartiene al mondo terreno; il problema si manifesta quando la sua arroganza lo porta a spingersi fino a sfidare la morte nelle sue prese in giro, comportamento che sarà la causa della sua punizione in arrivo direttamente dall’oltretomba.

Don Giovanni sfida la morte

Max Slevogt - Don Giovanni: l'incontro con la statua del Commendatore
Max Slevogt – Don Giovanni: l’incontro con la statua del Commendatore

Nella scena del cimitero, scena ventunesima, vi è un improvviso cambio di atmosfera: il timbro dell’orchestra si scurisce ed entra in gioco l’elemento sovrannaturale. “Di rider finirai pria dell’aurora”, sono le parole che sopraggiungono dal sepolcro del Commendatore alle orecchie di Don Giovanni e Leporello, come lugubri rintocchi di campane.

Il libertino non si lascia intimorire da questo tremendo avvertimento, ma al contrario organizza un buffo siparietto nel quale incita il suo servitore a invitare a cena la statua del Commendatore. In questa scena in cui la tensione drammatica è palpabile, ancora una volta viene sovrapposto l’elemento comico, ovvero le battute del povero Leporello che, nelle vesti di ambasciatore, non sa se essere spaventato più dalla spada di Don Giovanni, che lo obbliga a far da intermediario, o più dal fatto che la statua di un morto interagisca con lui e gli risponda.

La statua accetta l’invito, e nel finale secondo si presenta alla mensa di Don Giovanni introdotta dall’accordo di re minore che aveva aperto l’opera, e scandendo le celebri parole “Don Giovanni! A cenar teco m’invitasti e son venuto”. Per la prima volta il libertino è colto di sorpresa, ma a differenza di Leporello rifugiato sotto al tavolo, non è paura quella che prova, ma è stupore, in quanto inaspettatamente si trova di fronte a qualcuno in grado di affrontarlo.

Don Giovanni mantiene la calma e risponde con tono serio, ma ciò che chiede di fare è ridicolo: preparare un altro pasto per il convitato di pietra. La statua rifiuta di cenare, in quanto provenendo dal mondo dei morti “si pasce di cibo celeste”. La sua presenza alla mensa del cavaliere è dovuta solo al buon costume di ricambiare l’invito: “verrai tu a cenar meco?”. Secondo la tradizione, solo persone di uguale condizione sociale potevano partecipare alla stessa tavola: per Don Giovanni, accettare l’invito della statua sarebbe stato equivalente ad accettare la condizione di morto, presentandosi alla mensa dell’oltretomba.

Nonostante Don Giovanni sia di fronte alla morte, nelle parole che seguono si ritrova la sua più vera essenza: “A torto di viltade, tacciato mai sarò”. Al cavaliere non interessa l’onore, l’unica cosa che conta per lui è la libertà, il principio che ha guidato la sua vita e che ora, anche nella morte, non vuole tradire. Ed effettivamente rimane coerente: quando la statua gli propone diverse occasioni per pentirsi e cambiare vita, Don Giovanni sceglie liberamente di morire, rispondendo sempre con un secco “No!”. Il paradosso sta nel fatto che non avere regole e morale, lo obbliga a essere testardamente fedele al proprio libero arbitrio, rifiutandosi di piegarsi anche di fronte alla morte.

Don Giovanni viene trascinato all’inferno dalla gelida mano di pietra della statua del Commendatore, ed esce di scena con un urlo di puro terrore. Il mondo dei vivi non è mai riuscito a spaventare il libertino, ma nonostante il suo spezzante coraggio, nella morte perde se stesso e conosce infine la paura.

Per i nobili imparruccati seduti nei teatri alle prime rappresentazioni dell’opera, l’urlo di Don Giovanni risuona come l’avvertimento che anche un cavaliere del loro rango possa avere un destino simile e trovare la dannazione eterna. Per questo motivo il “dramma giocoso”, per essere rappresentato e applaudito nei teatri, non avrebbe potuto avere questo finale che grida allo scandalo.

Questo è il fin di chi fa mal

In alcune testimonianze è riportato che Mozart preferisse far terminare il Don Giovanni con la discesa del protagonista nell’oltretomba, omettendo la scena finale in cui tutti i personaggi si riuniscono per esplicitare la morale dell’opera. Il sestetto conclusivo, non a caso in re maggiore, però, non cambia la tremenda conclusione della vicenda: è come gettare un bicchier d’acqua sulle fiamme dell’inferno. Il carattere dell’opera non cambia, non c’è alcuna redenzione, ma è utile solo per spegnere la paura nell’animo degli spettatori altolocati.

Tutti i personaggi trovano il loro lieto fine: Donna Anna e Don Ottavio si sposeranno, Donna Elvira andrà in ritiro in un convento, Zerlina e Masetto torneranno allegramente in campagna, mentre Leporello cercherà un padrone migliore. E per Don Giovanni? “Questo è il fin di chi fa mal” cantano tutti in coro. Ma noi sappiamo, dopo aver analizzato l’opera, che il fin di Don Giovanni non è causato dal mal che ha fatto in vita in quanto “dongiovanni”, ma per lui le porte dell’inferno si spalancano nel momento stesso in cui sbeffeggia la statua del Commendatore nella scena del cimitero e quando, ostinato nel suo credo, rifiuta di pentirsi a cena nell’incontro con la morte.


https://it.wikipedia.org/wiki/Don_Giovanni

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Francesca Benesso

Redattrice in Musica e Teatro