“Il Colibrì” di Sandro Veronesi – La vita come ricerca di uno “skopós” – Vincitore Premio Strega 2020, diventato film di Francesca Archibugi
L’esistenza umana, nella sua totale precarietà, non è altro che un susseguirsi di istanti tra loro concatenati, intrappolati nello scorrere del tempo. La vita si basa essenzialmente sulla ricerca di uno scopo, in greco skopós (dal verbo “guardare”), inteso come “l’oggetto su cui si fissano gli occhi”.
Attorno a questa riflessione si sviluppa l’intera psicologia dell’ultima opera narrativa di Sandro Veronesi: “Il colibrì”. Pubblicato nell’ottobre del 2019 dalla casa editrice “La nave di Teseo”, il romanzo ha riscosso un eccezionale successo di pubblico e critica, arrivando a conquistare la giuria del premio Strega.
Reduce da una vittoria nel 2006, Veronesi sfida la storia e straordinariamente vince, per la seconda volta, il più prestigioso premio letterario in Italia. Prima di lui solo Paolo Volponi era riuscito in tale impresa, conseguendo tale merito nel 1965 e nel 1991.
Dopo la traposizione cinematografica di “Caos Calmo” nel 2008, diretta da Antonello Grimaldi e interpretato da Nanni Moretti, anche “Il Colibrì” diventa un film, grazie alla sceneggiatura di Francesca Archibugi. Nell’articolo di oggi, però, non ci concentreremo sull’opera cinematogafica, quanto piuttosto sul romanzo di Veronesi, che ancora una volta si conferma capaci di ispirare trasversalmente molteplici forme dell’arte.
LA TRAMA
L’intera narrazione si focalizza e ruota attorno alla vita di Marco Carrera, un “uomo come tanti”, estremamente ordinario. Il protagonista è il colibrì perché, “come il colibrì impiega tutta la sua energia nel restare fermo”. A differenza dei personaggi che lo circondano, Marco non possiede l’istintuale tendenza umana al cambiamento. Come il colibrì è capace di volare all’indietro, il protagonista riesce a fermare il tempo fino a risalirlo, riportando alla memoria indelebili cicatrici di un passato ostile, percepito come una concatenazione di eventi che si perpetuano caoticamente nello scorrere del tempo.
“E però, soprattutto, questo stare sempre fermi, facendo tutta quella fatica, a volte non è la cura, è la ferita”
Alla tendenza di Marco all’immobilità si oppone, per contrappasso, l’inevitabile mutamento della vita, al quale non è possibile sottrarsi. Figlio di un matrimonio costruito su bugie e intolleranza, comprende per la prima volta il senso del mutamento con la morte precoce della sorella, da lui amata profondamente. Diventa oculista e sposa Marina, una donna che non ama. Da lei ha una figlia, Adele, con la quale vive un rapporto di morbosa simbiosi. Per tutta la vita è in balia di un amore impossibile, platonico ed epistolare con Lisa: un rapporto tanto profondo, sincero e reale, quanto irrealizzabile.
In un preciso istante della sua vita, si rende conto però che tali eventi non erano caotici o casuali: la vita di Marco prende forma, acquisisce un senso. Miraijin, figlia di Adele, morta poco dopo averla partorita in un tragico incidente è “l’uomo nuovo”, colei da cui l’umanità potrà ricominciare. Ogni singolo evento conduce a lei, a quella bambina che Marco dovrà allevare, crescere e rendere donna. Miraijin è lo skopós della vita del protagonista, ne costituisce il senso.
“Tutto il dolore provato negli anni diventa il basalto sul quale si fonda il nuovo mondo, i ricordi diventano destino, il passato futuro”
LA STRUTTURA DEL ROMANZO
Per quanto concerne la struttura del romanzo, Veronesi trova la perfetta chiave di immedesimazione, riuscendo a combinare le emozioni del protagonista con quelle del fruitore.
La narrazione è caratterizzata dall’alternarsi di capitoli dove viene raccontata la storia di Marco in terza persona e capitoli composti da lettere, mail e SMS tra i vari personaggi. Questo “stratagemma narrativo” risulta estremamente efficace nel suo alternare momenti in cui le redini del racconto sono in mano alla “focalizzazione zero” di un narratore onnisciente a momenti in cui il romanzo diventa epistolare, assumendo caratteri intrinseci, confidenziali, fraterni.
Il lettore si trova così di fronte a una visione della realtà quasi totale: conosce i personaggi non solo attraverso una prospettiva esterna, razionale e divulgativa ma anche tramite l’autobiografica espressione delle loro emozioni. Questo permette un notevole incremento del senso empatico, inducendo così il lettore a percepire l’intero svolgersi della trama come qualcosa di reale, dimostrato dalle parole dei personaggi stessi.
La dimensione temporale
Peculiare ed estremamente funzionale alla trama è la mancanza di un ordine logico-cronologico degli eventi narrati: Veronesi costruisce il romanzo sulla distruzione pressoché totale della fabula attraverso continue alternanze di analessi e di prolessi che rendono l’intreccio estremamente caotico.
Il lettore, in altre parole, per la maggior parte del romanzo assimila frammenti della vita di Marco, completamente disconnessi e indipendenti l’uno dall’altro, sprofondando velocemente nella confusione più totale. Il senso comune di questi eventi, solo apparentemente indipendenti, rimane incognito fino alle ultime pagine del libro.
La sensazione che si prova nel leggere “Il colibrì” è quella di comporre un “puzzle” di ricordi: ogni singolo frammento è definito nella forma e nelle sfumature di colore ma non assomiglia neanche lontanamente al quadro totale. Solo al termine del romanzo riusciamo finalmente a vedere l’immagine completa, definita in ogni minimo dettaglio, ritrovando quell’unità che prima non riuscivamo a comprendere.
Questo stratagemma narrativo ha la funzione di creare un parallelismo tra le sensazioni provate dal lettore e quelle provate dal protagonista. Il senso di smarrimento che il fruitore prova per tutto il corso dell’intreccio è analogo allo smarrimento del protagonista stesso, anche lui spettatore inconsapevole della sua stessa vita.
In questo modo Veronesi abbatte il “muro emotivo” che separa il personaggio principale dal lettore: noi, come Marco, non comprendiamo ma siamo desiderosi di comprendere quale sia il senso della sua vita, la ragione per cui un uomo debba provare tanto dolore, l’utilità, lo “skopós”.
Libero arbitrio o predestinazione ?
Alla dimensione temporale sopracitata si lega il cardine dell’intero romanzo, il sottile filo conduttore che lega, con rapporti netti di causa ed effetto, tutti gli eventi della vita di Marco.
Prendiamo in analisi uno di questi fili conduttori. Il protagonista coltiva per molti anni l’amicizia con Duccio Chilleri, anche detto “L’innominato”. A lui, la società ha attribuito la fama di “iettatore” in seguito ad una serie di coincidenze che hanno portato le sue “invettive” ad avverarsi. Marco racconta di essere “immune” alla sfortuna portata da Duccio a causa di una teoria chiamata “occhio del ciclone”:
“Come non si subiscono conseguenze se ci si posiziona al centro dei vortici ciclonici che devastano coste e città, se ci si manteneva a stretto contatto con l’innominabile, come faceva Marco, non si rischiava nulla”
Il colibrì, Pag. 40
Verso i vent’anni Marco e Duccio, amanti del gioco d’azzardo, partono per un viaggio aereo verso il casinò di Lubiana. Quando l’aereo è prossimo al decollo, l’innominato perde il senno, si alza in piedi, urla, diventa incontrollabile:
“Guardali, ripeteva, sembrano già morti; guarda quello, ripeteva, guarda quell’altro, è come vedere la foto sul giornale. Marco continuava a ripetergli di rilassarsi, ma l’ansia dell’innominabile cresceva sempre di più”
Il colibrì, Pag. 68
I due ragazzi si trovano costretti a dover scendere da quell’aereo, che poco dopo sarebbe precipitato, “inghiottito dal mare della Cilicia”. Questo evento causò l’incontro con Marina, hostess della medesima compagnia aerea che, per un’ulteriore coincidenza, non si trovava in servizio. Dal loro incontro nacque Adele, che donò a Marco una nipote da crescere: Miraijin, lo “skopós” della sua vita.
Da questa breve ma significativa concatenazione di eventi sorge spontanea la riflessione, anch’essa in parallelismo tra noi e il protagonista, sul binomio libero arbitrio-predestinazione. Il romanzo affronta questo argomento in maniera implicita ma costante, portando alla luce concezioni radicate nella storia della filosofia e della letteratura: le scelte e le azioni sono totalmente frutto della nostra volontà o siamo soggetti a una forma provvidenziale di destino?
Da un lato troviamo esemplificato il pensiero di Kierkegaard, secondo cui è la scelta a definire l’essenza del singolo. Il libero arbitrio è un atto razionale ed ogni uomo è diretto responsabile di ogni sua azione. Questa condizione di libertà assoluta porta alla ricerca di un senso alla base di ogni decisione. L’assenza di tale criterio può condurre l’uomo o verso la “passività”, dunque la mancanza di scelte indipendenti, che porta altri a scegliere per lui, o verso l’angoscia, una profonda inquietudine derivante dall’inesistenza di tale criterio.
Dall’altro lato si pone in antitesi la riflessione manzoniana, che nei Promessi Sposi amplia il concetto di “Provvidenza Divina”. Renzo e Lucia riescono a raggiungere, solo grazie alla loro bontà d’animo, la tanto agognata felicità: il loro percorso li porta ad un ricongiungimento, possibile solo in seguito ad un travagliato distacco e numerose peripezie. La “Provvidenza Divina” irrompe nelle loro vite come un fattore esterno al loro controllo, impossibile da comprendere nella sua totalità.
Cercando, per quanto difficile possa essere, di prescindere dalla componente religiosa, vediamo i due protagonisti muoversi nel mondo senza comprenderne il senso, alla continua ricerca di una giustificazione alle loro sofferenze. Solo al termine dell’opera letteraria saranno abilitati ad annoverare il concetto di Provvidenza, clemente nei confronti degli uomini buoni, in particolare degli oppressi. Il concetto di “libero arbitrio” si trova marginalizzato a favore dell’eterogenesi dei fini: quello che il singolo persegue come fine o scopo diventa un mezzo per altri fini nella prospettiva di un’istanza superiore.
Ci troviamo di fronte a un quesito senza risposta, due scuole di pensiero antitetiche che spingono i concetti di libero arbitrio e predestinazione alle estreme conseguenze. Veronesi, nel romanzo, propende verso una visione del mondo “sorvegliata” da un ordine superiore, mantenendo sempre aperto lo spiraglio del libero arbitrio. Se infatti, l’intera vita di Marco Carrera ci appare come il frutto di un “progetto superiore” destinato a realizzarsi nella figura di Miraijin, la sua morte per eutanasia ci ricorda il potere del libero arbitrio e della scelta. Il protagonista, consapevole della sua malattia, prende in mano il suo destino, e sceglie autonomamente di morire.
Veronesi sembra dunque propendere per una collaborazione tra il libero arbitrio, sempre presente nell’atto stesso della scelta, e la predestinazione, secondo la quale tutte le azioni compiute sono indirizzate verso un fine specifico.
La “guerra” dell’uomo contemporaneo: libertà o verità
In uno degli ultimi capitoli del romanzo, “L’uomo nuovo (2016-29)” l’opera compie la sua epifania. Marco riconosce la straordinaria potenza della bambina che è destinato ad allevare: Miraijin, prima fanciulla, poi adolescente e infine donna, fa parte di una schiera di “uomini nuovi” e “donne del futuro” destinati a salvare il mondo, che lentamente si sta sgretolando sotto i nostri occhi. L’obiettivo delle nuove generazioni sarà quello di:
“combattere una guerra che nessuno avrà voluto combattere prima, anche se ormai sarà chiaro da tempo che di quello si trattava, una guerra, una guerra feroce tra verità e libertà, tu, quelli come te e tutto il vostro pubblico di bambini e adolescenti (tantissimi), di ragazze e ragazzi (tanti), e di adulti (pochi), e di vecchi (pochissimi), schierati dalla parte della verità, essendo la libertà ormai stata trasformata in un concetto ostile, digrignante, e imperdonabilmente plurale”
La guerra che le nuove generazioni si troveranno a combattere è dunque quella contro l’eccesso di libertà: se ogni uomo è libero di fare tutto, allora è libero di essere caritatevole ma anche di essere meschino, di mostrare tolleranza ma anche di essere intollerante, di avere un credo ma anche di imporlo agli altri, di valutare ogni vita umana come di uguale importanza ma anche di respingere i profughi e rimandarli nei lager. Uomini e donne “del futuro”, le nuove generazioni, hanno il compito di perpetuare la verità, divulgandola tramite i canali di comunicazione più disparati: Instagram, Facebook, YouTube.
Veronesi acquisisce l’idea del conflitto tra verità e libertà dalla lettura di un saggio di Rocco Ronchi, intitolato “Metafisica del populismo” pubblicato sulla rivista “DoppioZero” il 12 novembre 2018. In questo saggio Ronchi esplica le premesse teoriche alla base del populismo, definendolo come un movimento “radicato nel terreno della moderna metafisica della libertà”.
La riflessione nasce e si sviluppa sulla rassegna del concetto di “libertà” attraverso i secoli, distinguendo tra una “libertà dell’intelletto giudicante”, propria degli antichi e una “libertà del volere”, propria dei moderni.
Per quanto riguarda la “libertà dell’intelletto giudicante” (o libertà razionale) essa è esemplificata dal mito platonico della caverna: “Bisogna “rialzarsi” e procedere in direzione del sole splendente anche se gli occhi fanno male”. Tale libertà tende a identificarsi con l’onestà intellettuale, definita come un rinnovato esercizio di sottomissione alla luce dell’evidenza. Dunque, in questo caso si prende a riferimento una libertà impersonale, astratta, che acconsente al vero a prescindere dai dogmi: una libertà per la verità.
La “libertà del volere” pone le sue radici nel pensiero di Cartesio, il cui credo nell’onnipotenza divina lo porta a non tollerare nessuna limitazione alla sua libertà, nemmeno quella che lo vincolava al rispetto delle “verità di ragione”. Ad ampliare ulteriormente questa concezione di “libertà esistenziale” è Dostoevskij nel romanzo Memorie dal sottosuolo: il protagonista afferma di sentirsi legittimato alla ribellione nei confronti della verità razionale, rivendicando così il suo diritto assoluto all’errore come errore. L’uomo del sottosuolo è “il volto dell’anarca, il volto del ribelle o, come meglio sarebbe dire, dell’insorto”
Il mondo populista in cui, sia noi che Marco Carrera viviamo, si appella alla “libertà esistenziale” da intendersi come libertà del soggetto dalla verità. Il compito di Miraijin, allegorica rappresentazione delle nuove generazioni, è quello di ritornare ad una “libertà razionale” intesa come libertà del soggetto per la verità. Veronesi parla di una “guerra” che non verrà più combattuta con armi e bombe ma con il potere divulgativo dei social network che, pur essendo un’“arma a doppio taglio”, sono la chiave per la divulgazione e la vittoria della verità.
Un inno alla speranza
Le nuove generazioni sono da anni marcate con il timbro della sfiducia. In pochi credono nel potenziale dei giovani, pochi ne parlano, ancora meno ne scrivono. Il colibrì di Sandro Veronesi è un romanzo destinato a diventare canonico, non solo per la bravura dell’autore nel creare un opera che sappia raccontare una “storia normale” senza scadere nella banalità, ma anche, e soprattutto, per l’eredità che lascia.
Per un giovane, oggi, leggere “Il colibrì” vuol dire commuoversi, non per la trama o per le avvincenti storie dei protagonisti ma perché per la prima volta le “nuove generazioni” sono speranza per un mondo migliore. Il mondo del digitale non è denigrato ma è esaltato dall’autore, che ne vede i reali potenziali divulgativi. Il futuro del mondo è in mano a Miraijin e a tanti altri che, come lei, sono destinati a usare tutte le armi a loro disposizione per perpetuare la verità.
Alla fine del romanzo ci rendiamo conto di un fattore importante: noi possiamo essere lo skopós del mondo. Marco Carrera capisce esplicitamente che il futuro è nelle mani di noi giovani e che abbiamo tutte le armi necessarie per vincere la guerra.
Veronesi, infatti, parla di predestinazione, affermando che il futuro del mondo è nelle mani di “uomini nuovi” alla ricerca di una verità che non sia soffocata dall’eccesso di libertà. Tale ordine superiore viaggia di pari passo con il libero arbitrio: la motivazione e la necessità di lottare vengono dal singolo che può scegliere, in completa autonomia, di vivere nel nome di tali verità.
Alla fine dei giochi l’autore si propone di perpetuare un “atto di fiducia” nei confronti delle nuove generazioni: così forse, tra molti anni, in un mondo nuovo costruito sul caposaldo della verità ricorderanno “Il Colibrì” di Sandro Veronesi come un simbolo di speranza.
Questo messaggio di speranza, capace di fornire al lettore il senso di completezza di un quadro completo e definito, viene sacrificato da Francesca Archibugi, che preferisce limitare la narrazione ad una panoramica sulle peripezie provocate dalla tendenza di Marco Carrara a perseguire sempre e comunque il Bene. La trasposizione cinematografica rimane così ancorata alla definizione di ”dramma strappalacrime italiano”, perdendo un occasione per lanciare un messaggio che in molti avrebbero voluto ascoltare.
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https://it.wikipedia.org/wiki/Caos_calmo_(film)