Il Canto del Profeta di Paul Lynch – Premio Strega Europeo 2024
Prophet Song, il quinto romanzo dello scrittore irlandese Paul Lynch, edito 66thand2nd e tradotto nell’italiano Il canto del profeta da Riccardo Duranti, ha già ottenuto il prestigioso premio per opere in lingua inglese Booker Prize e ora corre per il Premio Strega Europeo.
Un titolo ambizioso, enigmatico, che fa uno strano effetto nel mondo odierno dove, se da un lato è diffusa la tendenza a pronunciare profezie, urlate o silenziose, complottiste e arzigogolate o mitigate e ragionate, umane e non – dai filtri invecchianti alle più raffinate e recenti opere artistiche che mostrano il potere predittivo inquietante delle intelligenze artificiali – dall’altro è diffusa una perdita di centralità e fiducia necessarie per affidarsi e seguire i cosiddetti profeti, parola che al plurale, oltretutto, perde un po’ pregnanza. Il futuro planetario, ecologico, umano, sociale e politico preoccupa, non necessariamente ma spesso, con declinazione negativa; sentiamo come una chiamata ad occuparcene, a intervenire, ad arginare, a contribuire a scelte di direzioni insieme a una grandissima sfiducia e senso di impotenza.
L’effetto di questo titolo è dunque un particolare contrasto tra un campo semantico che rimanda all’antico, all’originario e al contempo al presente che sembra già intriso di futuri; porta il lettore a cercare sin dalle prime pagine risposte a domande che sorgono spontanee: chi sarà il profeta? Di che cosa canta? A chi? Chi lo seguirà? Chi lo ostacolerà?
Il “canto” si apre con uno strano coro a due voci, isolate nella loro forma di citazione introduttiva: la prima “nulla di nuovo sotto il sole” è tratta dall’Ecclesiaste, un testo biblico antico appartenente sia alla tradizione giudaica che a quella cristiana, che suona come un’eco tanto lontana quanto proverbialmente viva e, nella propria banalità, provoca ancora un effetto come straniante, riflesso poi nella seconda voce, cupa, di Brecht, peculiare maestro di questa tecnica:
E poi si rimane sospesi, schiacciati, dentro una narrazione dove non arriva nessun profeta. Appena un personaggio può sembrare un buon candidato sparisce presto, inghiottito dalle righe che, senza pause o respiri, sprofondando in un tempo sempre più buio dove la libertà, il libero arbitrio, la vita, la sopravvivenza vengono gradualmente negati. Nessuno canta, mai.
Il lettore si stanca e nel seguire la storia dimentica le sue domande, alle quali la risposta arriva solo nel penultimo paragrafo, pagina 272, forse ormai un po’ deludente, almeno alla percezione di chi scrive, che più che una risposta è una conferma: non c’è il canto, non c’è il profeta, ma proprio il Prophet Song che è un canto eterno e costante che accompagna l’umano mentre gli umani vivono le loro piccole vite, fatte di cose piccole, che nei momenti come quello del tempo narrato sembrano immense: salutare il proprio consorte che torna a casa la sera, bere del latte, pettinarsi i capelli.
Tutte cose che colei che si rivela la protagonista del libro perde in uno sgretolamento effetto valanga di un’Irlanda contemporanea ma non meglio identificata, dove sale al potere un partito fascista. L’intenzione è dichiarata sin dalle prime pagine: cosa accadrebbe se in Europa, laboratorio primo di democrazia, la libertà e la pace che “diamo per scontate” ad avviso dell’autore, venissero tolte, se perdessimo tutto quello che consideriamo civiltà? La storia è costruita proprio su questa ipotesi, nella sua formulazione più ovvia: partito unico, imposizioni non giustificate, abolizione di diritti e della magistratura, dissenso e manifestazioni represse, eliminazione fredda e silenziosa dei dissidenti, censura e manipolazione mediatica, schieramenti polarizzati ciecamente e non politicamente, emarginazioni sociali, violenza e paura e così via. Un fascismo che vuole rappresentarli tutti, storici, ipotetici e temuti, dilungandosi in dettagli purtroppo già noti e indagandone gli effetti – ovvi, dal punto di vista della successione di accadimenti – su una famiglia socialmente nella media e intellettualmente appena sopra questa, la famiglia protagonista “perfetta” per questo tipo di situazioni storiche, composta abilmente – forse un po’ arbitrariamente – da tutte le età: Eilish, la madre, inizialmente microbiologa ed ex-accademica che man mano si riduce ad essere solo essere umano e madre, il padre anziano, un marito sindacalista e quattro figli, dal primogenito adolescente quasi adulto all’ultimo non ancora svezzato.
Non il punto di vista della minoranza, dello svantaggiato, del cattivo, dell’eroe o eroina, dell’<altro>, ma il punto di vista più normale e canonico che si potesse creare, per far pensare al lettore da subito che in quella storia vuole mettere in scena proprio lui, lettore qualsiasi del ceto medio che vive in democrazia, in una distopia che lo riguarda. Lynch sembra avere questo intento: farci entrare in storie che vediamo dal di fuori, come i parenti della protagonista che vivono all’estero, come le voci “della comunità internazionale” che, ovattate, entrano significativamente a tratti nella storia.
La narrazione in terza persona assume il punto di vista di Eilish, ma non è tanto il suo sguardo, quanto proprio il suo corpo a farsi testimone, filtro, cassa di risonanza degli eventi che la circondano e a restituire al lettore le sensazioni e le emozioni, il vissuto dei personaggi; quando è lo sguardo ad essere la dimensione preminente, è uno sguardo che si volge dall’interno all’esterno, spesso attraverso il filtro di una finestra, volto a dettagli che la rimandano a continue riflessioni sul proprio passato e la cesura inspiegabile di questo con il presente, o sul tempo di chi la circonda, scene che coincidono spesso a momenti di crisi, di scelte impossibili da prendere eppure imposte. La sospensione trasparente delle finestre che alla fine, simbolicamente, si disintegrano sotto gli attacchi della guerra civile, non è l’unica soglia: anche gli specchi hanno un ruolo molto importante, il rispecchiarsi delle generazioni l’una nell’altra e la crisi dell’io emergono come tema forte e, in antitesi, ci sono spesso porte che si aprono e si chiudono. L’ingresso e l’uscita di casa o al lavoro sono fatti che nella vita “scontata” non coglieremmo come rilevanti in una storia, nella vita; gesti automatici e presenze che invece diventano qui motivi di angoscia, segnali, traumi, in un continuo andirivieni che arriva a bloccarsi, fino al dover intraprendere una strada che si apre all’orizzonte infinito e senza porte delle ultime pagine.
Il movimento stilistico della penna di Lynch è il fluire: scorre senza alcun punto di arresto tra fatti, pensieri, dettagli percepiti o osservati, un flusso unico dove realtà, sogno e incubo spesso si mescolano, la confusione del lettore – costruita in modo abilissimo e tale da rimanere intelligibile e significante – cresce insieme a quella della donna, approdando a tratti anche all’impersonalità e alla confusione fra soggetti, specialmente quando Eilish incontra persone esterne alla sua famiglia. I dialoghi non sono dunque riportati tra virgolette, non c’è separazione grafico-stilistica tra le parole dei vari personaggi e non solo, anche quelle descrittive dell’autore, quelle che pervadono la mente e i pensieri della donna si fondono in questo lento e lungo percorso fatto di attimi, attese, colpi e vuoti da riempire per poter sopravvivere.
La confusione e lo sgretolamento dell’io e della mente nel padre anziano, specialmente posto a confronto con i bambini più piccoli e il loro crescere veloce e impressionante, condizione naturale, ma amplificata dalla guerra, è un altro aspetto chiave: anche nell’assurdo, nell’impensabile la donna è costretta ad accettare il tempo della vita, che anche quando sconvolto o compromesso, scorre inesorabilmente.
La forza colmante, vitale, che può tenere, non tutto ma quel che c’è, insieme e unito è l’amore. Questo emerge nel seguire, dettaglio dopo dettaglio, la lenta consapevolezza che Eilish acquisisce e che si rivela di colpo in visioni, espressa narrativamente più da dichiarazioni e da fatti che da riflessioni o suggerimenti emotivi al lettore che nonostante tutto, eccetto qualche punto, può mantenersi emotivamente abbastanza distante.
L’inquietudine provata alla lettura non è una questione empatica, ma di corrispondenze e rimandi con il reale, nella semplicità del quotidiano e del banale, soprattutto tra quello che viene proposto come un modo distopico, narrativo e certi aspetti della contemporaneità. Il suggerimento finale chiude le questioni aperte dal titolo e dal suo coro introduttivo: non c’è il canto di un profeta, la Prophet Song è appunto quel canto annunciato in apertura che da sempre accompagna l’umanità nelle sue grazie e disgrazie, nella molteplicità caotica e armoniosa del mondo, da accettare nella limitatezza della propria vita, piccola e che deve piegarsi all’accettazione della Vita. Si può solo amare, resta questo imperativo morbido e disperato pur inalienabile, che rimane tuttavia vagamente liquidato nell’intento di renderlo forse una visione, questa sì, profetica, nel senso oramai profondamente mutato del finale, ma corre così il pericolo di rimanere in secondo piano rispetto allo sconvolgimento e al terrore, fino al rischio di annichilirsi come la persona-Eilish dentro quello che alla fine sembra essere solo e mero corpo. Questo non ha permesso a chi scrive di godere appieno del libro, non è una lettura piacevole nella tragedia e non vuole esserlo, il forte straniamento che pervade ogni pagina attacca anche il lettore, distante da tutto come si sentono i personaggi che animano la storia. In fondo, anche la protagonista giunge quasi a perdere e distaccarsi dal proprio amore, dalla propria umanità: in quel preciso momento però riesce ad accorgersene, lo sente e in un baleno, alla fine di questa interminabile esperienza, sceglie. E sceglie, come dal primo momento, la possibilità dell’amore.