Arte,  Ekphrasis - Le parole dell'Arte

EKFRASIS Le Parole dell’Arte – Klimt

Il bacio di Klimt. O forse un abbraccio?

Gustav Klimt, Il bacio, 1907-8

Era un pomeriggio in bianco e nero, le nostre mani si erano incrociate per caso e abbiamo passeggiato così.

Abbiamo attraversato le pietre di Vienna della nostra gioventù senza fermarci, era la fine del secolo 1800 e camminando siamo entrati nel bosco fuori città.

Era il bosco delle fantasie e dei giochi di rimandi, di passioni e di pulsioni che Freud aveva  appena scoperto dentro le nostre esistenze e alle quali si sono aggiunte: nuove grammatiche di sguardi, gesti, intenzionalità e mute traduzioni tra soggetti, maschili e femminili. Conversazioni prima invisibili. 

Timide sillabe che iniziavano a formare una lingua nuova, dell’irrazionalità della psiche e dei suoi meccanismi riconoscibili e condivisibili.

Lingua che parleranno come bruti e selvaggi scrivendone propaganda gli uomini delle guerre totali, quelli che con lungimiranza vede e dipinge il Doganiere Rousseau.

Lingua che prenderà il nome di Psicologia, che si farà sofisticata e si organizzerà nelle sintassi degli scambi globali, nelle economie, nelle scuole, alla tv, entrando nel suo dizionario e sistemata sugli scaffali accanto alle altre, abituata ad essere tradotta.

Noi abbiamo avuto la fortuna di entrare in quel bosco ancora all’inglese, cresciuto spontaneo e da sé, un po’ per il periodo storico che vivevamo, un po’ per la nostra età e la freschezza dell’amore, dove sentivamo, fitti come mai prima, echeggiare in noi i suoni imperiosi di Wagner, le parole sferzate dai luoghi più oscuri e limpidi della mente dal profeta Zarathustra di Strauss, la Quarta sinfonia di Brahms, l’Otello di Verdi, la Quinta di Mahler. Suoni capaci di evocare la gravità e la leggerezza della città che vantava gli ultimi bagliori di un impero secolare già disfatto e in procinto di crollare. 

Passeggiando nel bosco il nostro passo si è sincronizzato, siamo inciampati nelle corrispondenze che il mondo ha disegnato per noi.

Abbiamo estrapolato i nostri simboli, le nostre parole, i nostri gesti dalle ombre e dalle doppie immagini che crea la luce del cielo, proveniente da un luogo oltre il soffitto mobile e arioso degli alberi, filtrata dalle foglie, variabile per il gioco del vento della casualità: illuminava il microcosmo in cui ci addentravamo un po’ per volta, scoprendo, lungo questo percorso fatto di cose sempre diverse e sempre simili, l’interezza delle forme e l’intensità dei colori. Li scoprivamo per frammenti che gradualmente, lungo la via, sintetizzavano sempre più totalità.

E le nostre parole, passeggiando, dicevano sempre di più.

E i nostri movimenti, proseguendo, assunta ormai la sincronia, si armonizzano in variazioni sempre più dense di sfumature.

Così, attraversando il bosco abbiamo trovato tra noi costruito un ambiente solo nostro, perfettamente incastonato e precariamente isolato dentro a quello del mondo di tutti. 

Passeggiando, questi simboli li abbiamo accumulati e ci sono rimasti nelle tasche.

Ce li siamo cuciti addosso per conservarli, io ho cucito quelli che ho trovato a te e tu a me.

Erano anche forme già viste, ma per rimanere sulla seconda pelle delle nostre persone dovevamo trovarle e riconoscerle in due.

Siamo usciti dal bosco con questi abiti: un tessuto di rettangoli con angoli retti dalla sicurezza, dalla decisione e dalla forza, le linee fisse e i punti fermi, cuciti nelle loro possibili relazioni di limite, inquadratura, campitura e contenuto, grandezza o piccolezza. Coordinate in nero o bianco, i colori non colori, assoluti, e i grigi che necessariamente ne derivano.

Le geometrie del mondo; tessuto maschile.

Fa da contrappunto musicale all’altro tessuto, uguale e contrario, cucito di linee curve chiuse, non proprio cerchi, ma insiemi globali, capaci di contenerne altri altrettanto conchiusi e di colori e sonorità anche delle più diverse.Totalizzanti passioni rosse con un seme di verde, cupi viola accesi dall’interno da rossi e gialli allegri, rilassanti e calmi blu riempiti da gocce di giallo pieno di luce.

La pienezza della natura; tessuto femminile.

Vestendoci reciprocamente di questi abiti, allo stesso tempo, i tessuti e i loro fili si sono mescolati, sono rimaste in rilievi d’oro le geometrie quadrettate sulla manica dell’abito da donna e le spirali di pienezza sulle tasche dell’abito da uomo.

Vestiti di noi siamo usciti dal bosco che si apriva su una piccola radura sull’orlo di un pendio e arrivati in fondo per guardare il panorama ci siamo fermati, insieme, a guardare il mondo dall’alto del nostro ambiente privato.

L’abbiamo guardato e ci ha spinti più vicini, il punto dove ci ha condotto la strada durante una passeggiata senza finalità e con intenzioni slegate da parole, gesti, passi, sguardi che ci sorprendono nella loro purezza sporca di vita: il punto convergenza.

Con-vergere.

Vergere, direzionarsi, insieme.

Partire da punti diversi dello spazio e sapere di essere arrivati dove ci si incontra. Trovarsi.

E ci troviamo così:

I nostri corpi rilucenti negli incarnati dolci, morbidi, le mie linee di contorno come quelle delicate della pittura di luce di Piero della Francesca. Il tuo collo possente di echi michelangioleschi piegato nella fragilità di un bacio appena posato sul mio viso che finalmente può adagiare tra le tue mani l’ovale da Madonna antonelliana, perfettamente essenziale nel contorno, nelle labbra, gli occhi, le sopracciglia e il naso.
I nostri volti come facce di un diamante intagliato in gomiti, braccia, colli e mani e dita.

Le nostre figure sicure e flessibili; tu colonna dorica, massiccia e portante, io fusto ionico e virgolettato, pareggia la tua portanza con l’aura dorata che porta il mio ordine come mantello e chiude i nostri volti incoronati di edera rampicante e fiori leggeri nel tempio d’oro del nostro abbraccio.

L’oro non lo abbiamo trovato nel bosco, è frutto di alchimia: ce lo siamo visti sgorgare mentre cucivamo i fili dei nostri abiti; ora ne grondiamo e dalle tue labbra posate in un bacio per me lo sento colare nel prato, irrigando i fiori con la nostra luce preziosa.

E colando da noi ne sgorga di altro ancora ed evapora nel cielo: gli sberluccichii dei nostri occhi sono un pulviscolo magico e lussuoso che addensa e illumina un cielo che può sembrare solo un fondo scuro, al confronto. Il cielo così adornato comunica il suo aspetto di caos informe, attorno a noi però mostra la sua ragione, la sua fonte alchemica.

Quando siamo giunti qui, proprio sull’orlo risicato di questo lembo di terra stagliata nell’infinito, ho avuto paura. Ma nello stesso istante ti ho sentito al mio fianco e mi sono sentita convergere con te, mi sono sciolta nella complessità della nostra unica Dualità, rinunciando alla mia chiarezza distinta di essere Una, e mi ci sono adagiata.

Le ginocchia chiamate dal suolo, le piante dei piedi solleticate dal brivido dell’aria, liberi dal dover sostenere alcun peso, ma con le dita aggrappate alla terra. 

E ho trovato l’assoluta certezza. La certezza di essere un pezzo di Assoluto, in due.

E allora ho dimenticato tutti gli sfondi scuri e magmatici dell’universo, la decadenza del tempo è trasmutata in un sensatissimo e dolce abbandono alla bellezza.

Ogni decoro, ogni plasticità, ogni virgola, tutto.

L’oro ha ragione di essere: non costruito, passeggiato, trovato e creato, mantiene il suo impenetrabile mistero, ma ne fa libera magia.

Riferimenti:

www.arateacultura.com

Beatrice Buratti

Redattrice in Arte