Critica di Poesia,  Letteratura

“I titoli di coda di una vita insieme” di Diego De Silva

Un articolo di Alice Stroppa

I titoli di coda di una vita insieme (Einaudi, 2024), l’ultimo romanzo di Diego De Silva, parla del divorzio tra due persone logorate da una vita passata sotto lo stesso tetto, ma che non smettono di provare tenerezza e stima l’uno per l’altra.

Non è la prima volta che il tema del divorzio viene trattato nei libri di De Silva: scorrendo i suoi titoli compare infatti Divorziare con Stile, il cui personaggio principale è l’avvocato napoletano Vincenzo Malinconico, e ancor prima ne aveva parlato in Non avevo capito niente, vincitore del Premio Napoli e finalista al Premio Strega.

Tuttavia il tema del divorzio rimane recente in letteratura, soprattutto quando si intende adottare il taglio non di una separazione violenta, ma il decretamento legale della fine dell’amore tra Alice e Fosco. La rottura è qualcosa di cui i due coniugi fanno fatica a parlare, perché ancora, nonostante tutto, si vogliono bene.

D’accordo, probabilmente è finita. E dovremmo pur prenderne atto. Ma il punto è che non ho nessuna voglia di parlare di questo, perché trovo oziosa e compiaciuta la discussione. Intanto, c’è poco da dire sulla fine di un amore. Tutte le polemiche che la costeggiano, e in cui è facile lasciarsi trascinare, hanno senso solo se riguardano questioni patrimoniali o l’affidamento dei figli. Per quelle bastano gli avvocati, o anche solo uno. Ma ciò che conta veramente, le illusioni, gli anni in cui non avevamo niente ma ci bastava stare insieme, semplicemente accanto, tenerci reciprocamente il posto senza permettere a nessuno di sedervisi; il futuro per cui eravamo in fila, fiduciosi che sarebbe venuto il nostro turno, pur non avendone certezza; la mano che per la prima volta ha stretto la nostra quando l’abbiamo cercata: di tutto questo nessuno può parlare. Neanche noi, che ne sminuiremmo il valore con il senso pratico dell’oggi.

Il personaggio di Fosco è il ritratto di uno scrittore dalla vivace vita interiore, che non riesce però concretamente ad agire. La sua è una vita chiusa nelle mura di casa: lascia che il mondo esterno operi su di lui con una passività fastidiosa per Alice, che sente il paradosso di “aver sposato uno scrittore indisponibile al dialogo”. Conosciamo il personaggio attraverso le sue riflessioni che, fin dalle prime righe del romanzo, si alternano, capitolo dopo capitolo, con quelle di Alice, intervallando costantemente le due prospettive.

Alice, dottoressa, è un personaggio che si delinea in maniera opposta: di lei rimangono impresse soprattutto le azioni, e il suo carattere è svelato attraverso il trattamento gentile che riserva ai suoi pazienti. Questa sua forza nell’agire è ciò che scatena la rottura, sia per la sua volontà di affrontare la fine della relazione, sia per la sua scelta di procedere con una separazione giudiziale.

Anche in questo caso al lettore vengono presentati i suoi pensieri, ma spesso Alice tende a pensare come Fosco, producendo da un lato la sensazione che l’autore non sappia uscire dal personaggio di sé stesso, dall’altro suscitando una certa tenerezza per l’affinità di caratteri che Alice stessa riconosce (“Santo Dio, sembro Fosco”) consegnandoci così alcune delle migliori pagine del romanzo. Basti pensare al capitolo Incipit, in cui Alice, pensando ai quattro diversi modi con cui mettere fine alla relazione con Fosco, si esprime con battute e risposte tipiche di una qualsiasi scenografia, con lo spirito di un vero e proprio scrittore.

La burocrazia

Ciò che viene magistralmente ritratto in questo romanzo, e che pare completamente nuovo agli occhi di chi non è avvezzo ai divorzi, è il lato giuridico, burocratico e degradante dei meccanismi in atto. Entrano quindi in campo l’avvocato di Fosco, Marco, carismatico maestro di retorica, e l’avvocata di Alice, una divorzista di punta. Ma il grande nemico con cui Alice e Fosco devono confrontarsi è la scrittura dozzinale e mortificante in cui, nell’atto di ricorso, viene riassunta la loro relazione. La mancanza di umanità nascosta dal linguaggio “burocratese” è qualcosa che non dice nulla né di Alice, né di Fosco, né del fatto che la loro storia sia finita. A loro servirebbero altri titoli di coda.

Alla fine è un atto riservato, che sia scritto in modo così protocollare non dovrebbe farmi sentire sminuita, come di certo mi sentirei se potesse leggerlo chiunque. Perché scrivere in maniera comprensibile serve a rendere giustizia alle cose successe, o almeno alle storie. A me, il racconto-facsimile della mia storia con Fosco diretto al lettore unico potrebbe anche andare bene, ma c’è un problema: a leggere il ricorso non è solo il giudice, sono anch’io. E a me questa scrittura da formulario non piace.

Questa discrepanza tra vita e burocrazia diventa per Fosco una battaglia di principio che, in prima persona, combatte cercando di ignorare tutte le istanze che si insinuano nella sua vita. Fin dalle prime pagine emerge il suo scetticismo nell’affidare il divorzio a giudici e avvocati che di loro non sanno niente. Solo alla fine del romanzo deciderà di prendere parte attiva contro questa raggelante freddezza burocratica, ed approfitta della sua posizione di scrittore per rendere un volto umano alla sua vicenda.

Le case

Il secondo nucleo narrativo del romanzo è il tema della casa, intesa come insieme dei muri familiari, dei mobili e soprammobili, ma anche insieme di memorie. Questo libro si colloca così in un filone letterario che comprende i recenti Locus disperatus di Michele Mari e La casa del Mago di Emanuele Trevi.

De Silva decide di affrontare il tema della casa con una triplice prospettiva: inserisce la casa del passato, a Cavaliere, la casa del presente, che contiene i dialoghi e i silenzi della coppia sull’orlo del divorzio, e la casa del futuro, un appartamentino in cui Fosco ancora non riesce a dormire.

– Gli oggetti di cui ci circondiamo, – riprende, – a parte quelli essenziali come le pentole, il letto, qualche sedia e un tavolo dove mangiare, non ci servono. Sono pensieri, ricordi. Testimoni. Rimandano a tempi vissuti, a frammenti di scene che dimenticheremmo se quella fruttiera, quel candelabro o quella cornice non le avessimo cristallizzate in un’immagine che per quanto sfocata vediamo ancora. Li conserviamo perché ci sentiremmo ingrati a privarcene. Mentre è liberandosi delle cose che si va avanti.

La casa del passato, situata nel paesino di Cavaliere, è una casa legata all’infanzia di Fosco, intrisa di ricordi e di sensi di colpa per averla trascurata e abbandonata. Si legge quindi un parallelismo con Alice, che inconsciamente porta Fosco a pensare che forse, per lasciarsi nel migliore dei modi, possa essere utile passare del tempo insieme là, per scrivere i titoli di coda della loro vita insieme.

Questa casa rappresenta anche una delle unità strutturali dell’opera: si colloca infatti a circa metà del romanzo e crea un cambio di scena adatto a introdurre nuovi temi. Primo fra tutti si ha l’impressione che la memoria, ora che deve distaccarsi dai momenti vissuti con Alice, riporti alla luce vicende lontane nel tempo, provenienti da una vita sepolta. Forse, per una persona come Fosco, che vive così tanto nei propri pensieri, era indispensabile prima di lasciar andare una parte della propria vita, sentire di non averne davvero persa un’altra, vedere come gli amici d’infanzia lo accolgono ancora, come nulla è davvero perduto, ma solo trasformato.

Che cosa sono i titoli di coda di una vita insieme?

Che cosa sono, quindi, i titoli di coda di una vita insieme? Sono gli ultimi episodici dialoghi condivisi da una coppia, ma soprattutto sono la percezione dell’ultima sintonia.

Si è parlato infatti di alcune delle tematiche affrontate in questo libro, ma l’aspetto caratterizzate di questa storia è espresso dagli atti stessi dei personaggi, dalla singolarità viva di questa coppia piena di rispetto, tenerezza, ma anche di sgarbi e litigi che a mente fredda non si sanno motivare. C’è una bella umanità che, anche se appiattita dagli atti burocratici che vengono presentati, riprende vita dentro le case che si possono all’occorrenza (ri)comprare.

Non è un libro che parla d’amore, ma di quel che resta alla fine dell’amore, una tenerezza e una conoscenza dell’altro che rimane fuori dall’ordinario, una capacità di aiutarsi fino all’ultimo ad affrontare le fragilità della vita da adulti. Un modo di essere che ancora non ha una parola, perché, citando Fosco “mi trovo a pensare che sono tante, le cose per cui non c’è una parola”.


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