Critica di Poesia,  Letteratura

I cent’anni della Volpe e del Leone

di Alberto Iacoviello

A esattamente un secolo dalla loro nascita, avvenuta nel 1924, Paolo Volponi e Francesco Leonetti rimangono tra i massimi esempi dell’impegno politico-civile nella poesia italiana e testimoniano quanto un poeta possa, e talvolta debba, incidere sull’attualità, avendo a cuore la sorte degli oppressi. I due poeti appartengono alla medesima temperie culturale di cui fecero parte anche Pasolini e Roversi, la quale elegge il poemetto a forma prediletta per dare corpo ai propri ideali di rottura controculturale. Leonetti e Volponi si fanno denunciatari di una deriva che, dal secondo dopoguerra, tende allo sviluppo verticale della società, innalzando i pochi e lasciando in basso i molti, a partire dal fallimento degli ideali resistenziali più rivoluzionari, attraverso forme di controcultura che sfruttano i canali editoriali ufficiali, in particolare di Einaudi, la quale rappresentava allora la sinistra italiana nell’ambito letterario. Entrambi gli autori, infatti, furono attivi politicamente nell’area della sinistra radicale, Leonetti solo in ambito extraparlamentare, Volponi anche in quello parlamentare.

Poesia come politica culturale

Muovendo da un retaggio che dal tardo ermetismo arriva al neorealismo, i due poeti cominciano a costruire una poesia dall’evidente taglio politico, accessibile e disponibile a quanti ne sono rimasti esclusi negli anni del fascismo. È un modo per accordare l’avanguardia, la critica, anche distruttiva, e la lotta in strutture leggibili e diffusibile, ma che siano liricamente aderenti alle vicende esistenziali degli autori. Per raggiungere questi obiettivi risulta importante anche una metrica dall’andamento popolare[1], radicata nelle regioni d’origine dei poeti, in opposizione a una lingua alta fiorentinocentrica[2]: per raggiungere il popolo è necessario risalire alle proprie origini popolari, ai propri cari, contadini, allevatori e artigiani rimasti illetterati nel luogo in cui sono nati e sono sempre vissuti. La poesia deve diventare, come il giornale, un mezzo di comunicazione che connette l’intellettuale al lavoratore, ma assumendo come modello la stampa eversiva in opposizione e polemica con il potere esecutivo: «Questo, che non ha bollo, / non può cadere sotto la mannaia / esecutiva del boia, / nel giorno speciale / quando è più potente circolando il giornale – / che ora è in poche mani»[3]. Insomma, la poesia non è la verità, bensì un canale attraverso cui veicolarla con successo: «La verità […] non è la poesia, / ma nel verso come nel segno trova / una voce (oppure una sola armonia)»[4]. Altrimenti in quanto intellettuali, la loro voce sarebbe incomprensibile agli incolti: «Noi siamo intellettuali, / ristretti a un gergo»[5].

A partire dall’elaborazione della propria vita nella città natale, Urbino o Cosenza, e dall’inevitabile emigrazione per motivi di lavoro, i poeti scoprono il nuovo mondo occidentale frutto del miracolo economico e dell’allineamento dell’Italia del dopoguerra alle prospettive atlantiste e come esso appaia omogeneo in ogni luogo: «Il paesaggio collinare di Urbino, / che innocente appare quercia per quercia / mentre colpevole muore zolla per zolla, / è politicamente uguale / al centro storico di Torino / che crolla palazzo per palazzo / o ai giardini della  utopica Ivrea / ricca casa per casa: / tutti nella nebbia che sale / dal mare aureo del capitale»[6]. Sentono tutta la precarietà di una condizione liminale tra l’origine e l’approdo: «La notte non è sicura, / proprio come un soggetto / che cerca sempre misura / fra origine e ritorno»[7]; che è la medesima di tanti giovani costretti a emigrare per trovare lavoro nell’Italia settentrionale, se non all’estero.

L’individuo tra produzione e consumo

I due poeti rappresentano l’individuo dinanzi all’incomprensione della macchina, all’incapacità di capirne il funzionamento, all’assenza di informazioni e di significato, per cui egli è costretto a costruire una propria identità in condizioni di disagio, di alienazione, ed è qui che interviene la letteratura, di cui Volponi e Leonetti sono un esempio adeguato. L’azione tende così a farsi abitudine e a venire svuotata del suo senso, cosicché la vita diventa sopravvivenza e la comprensione superflua. Dilaga nella vita quotidiana «l’orribile febbre dell’ordine»[8] che riduce la molteplicità a unità controllabile, giacché «ognuno è tante persone»[9] e condensa la storicità, sacrificando l’originale e avvicinando pericolosamente l’essere umano alla merce che produce o che consuma, fino a rischiare di contaminare la poesia stessa: «di strofa in strofa / di reparto in reparto, la catena / mossa, cadenzata e spiegata / secondo la regola della produzione / come fine a se stessa, sviluppo e / destino della produttività economica / politica e sociale del lavoro, / lavoro-laboratorio anche / dello stanchissimo, indulgente poeta»[10].

La classe dirigente coltiva per i propri interessi e per il proprio diletto l’ignoranza dei propri lavoratori, condannandoli a un destino di disoccupazione e di inconsapevolezza: «Avete voluto per le giostre / gente deliberatamente mediocre; / se l’evoluzione tecnologica comporterà / in futuro la necessità di passare / i mediocri a lavori impegnativi mentalmente, / costoro non serviranno a niente»[11]. La coesione dell’identità viene meno attraverso il lavoro dipendente nell’industria moderna, che ricorre all’organizzazione scientifica del lavoro ideata da Taylor, ed è, in seguito, ricondotta a schemi predefiniti per la gestione del personale: «L’io va segmentato, diviso in parcella / secondo l’one best way tayloriana»[12]. La mente, per quanto assopita, vagola, salta di pensiero in pensiero trasformandosi in poesia, ossia in possibilità di resistere, pur con il rischio di sbagliare e infortunarsi: «L’operaio dentro e fuori la fabbrica / anche se non gli è cara / è costretto spesso a ricorrere alla mente, / ridotto dalla ripetizione a pensare / con il solito incantamento sopra una rima / rima lima ritornello martello nastro astro / libertà con ciò che si fa / ciò che si fa con libertà / con ciò che non si fa / un’altra libertà»[13]: nella reclusione fiorisce il seme della poesia, della consapevolezza con cui opporsi.

Ciononostante, la libertà a cui possono aspirare gli umili e che, talvolta, gli è concessa è sempre condizionata e connotata per difetto, essendo dipendente dalla volontà altrui; è iscritta in un tempo e in uno spazio predeterminati dalle logiche del sistema: «Qualunque libertà di piazza e di uomini / è solo lontana, concessione o sottrazione: / il suo giardino è senza fiori e le sue mura / poggiano su fondamenta possedute da altri, / le sue ragazze nuotano all’Idroscalo / ma sono già state vendute altrove / come la potenza di ogni cascata / è stata esattamente calcolata»[14].

Volponi dà della fabbrica un’immagine peculiare, onirica ed evocativa, assimilabile a quella presentata ne La fabbrica illuminata, composizione di Luigi Nono del 1964, in cui l’apparenza esteriore dell’industria non corrisponde alle condizioni di chi vi lavora, spesso sfruttato e sottopagato, privato di ogni prerogativa e sussidio: «La fabbrica nuova, lontana, che non s’indica / con segnale giallo di guida turistica / ma che tutta s’illumina alla sera di mistica / scossa […]»[15]. Se poi si approfondiscono i turni di lavoro, si scoprono i rapporti di forza, le gerarchie con cui i dirigenti si presentano ai sottoposti, esercitando un fascino sotto la cui superficie di innocenza e rispettabilità si cela un atteggiamento prevaricatore, sfruttatore e paternalista: «[…] l’uscita, il turno, l’improvvisa artistica / apparizione del presidente, della fantastica / non servile né femminile speranza aziendalistica / d’incontrarlo, essere visto, chiamato in organica / udienza, in improvvisa riunione programmatica, riconosciuto quale quadro di nuova e dinamica / politica aziendale, promozionale, riformistica, / innovativa gestione tecnica e politica / prodotti mercati, finanza, informatica / relazioni, sindacati, imprenditorialità neo-liberistica»[16].

Il ruolo del poeta

Il poeta è chiamato ad agire dal momento che «il futuro / è un impero di numeri»[17], trattenuto da una consolante fuga nella Natura dell’infanzia, giacché significherebbe abbandonarsi a una facile morte: «più che la salda città / è l’invadente marina / che io rifiuto. / Il mare da lontano mi tenta / al giuoco della fuga, / alle sue cave azzurre; / la nebbia sulle prime colline, / luoghi di fanciulle forestiere, / la rena nelle palustri radure / cui un lineamento non dura, / mi portano alle origini / di facili parti, / di onesti desideri»[18]. Il poeta è chiamato a un atto di resistenza affinché possa sdebitarsi per il suo privilegio di classe attraverso un’azione che conferisca dignità a quanti non conoscono simili privilegi e, anzi, vengono spogliati dei propri diritti. Infatti, il poeta intende riabilitare la figura del lavoratore dipendente, su cui pesano pregiudizi negativi che ne compromettono la dignità e la possibilità di realizzazione dei propri desiderî: «Questi sono i selvaggi descritti / come proletari cenciosi, / quanti, qui, / dentro regole di tensione creata, / abortiscono subito i sogni, / inoperanti, stanno / nella rarità del pane»[19].

Leonetti percepisce con forza il «puzzo di tecnica, di esperimenti compiuti»[20] e si adopera affinché anche altri se ne rendano conto, soprattutto tra i più umili, che maggiormente ne scontano le conseguenze; infatti essi «dipendono ancora dal calcolo / che nei tempi riduce / coloniale il lavoro […]»[21]; perché l’industria ha tanto di umano, ovvero quanti, innanzitutto, vi lavorano e con essa si sostengono e quanti vi stanno intorno e ne vengono influenzati[22]. Tuttavia, «nell’industria batte diverso il cuore / e si irrigidisce in fasi articolate l’umore / sopra i fattori di faticosità / e le griglie del sistema salariale»[23]. Pertanto pone come interrogativo al suo lettore una domanda sulle modalità in cui poter pensare autonomamente e diversamente rispetto ai condizionamenti dei ceti dirigenti e, dunque, vivere liberamente: «Che cosa possiamo pensare / contro, per, diversamente, in una estremità, / moltiplicati, che cosa inventare, / fare? ancora, distruggendo, / con, verso / gli uomini in un altro modo mortali»[24]. Si cerca di studiare un modo nella «fase del capitale, / per avere nelle condizioni oggettive la via, / generale, volontaria, definitiva / a dire no»[25].

Il rapporto con la Natura

Volponi, fedele per tutta la vita a modelli letterari appartenenti a una generazione precedente la sua, oppone ancora un mondo ampiamente naturale all’artificio della società, istituendo un rapporto profondo, viscerale, con gli enti che popolano il mondo al difuori delle città degli uomini. Allora è possibile l’incontro e la relazione con le stagioni, le piante e, soprattutto, gli animali, dei quali il poeta si sente figlio della stessa madre universale e dei quali teme di subire lo stesso infausto destino: «Oh! Felici fratelli / figli di un padre / in altre terre perduto, / divorato sull’argine; / sorte comune per noi / sarà perire in un guado / o in un giorno della stagione / in cui non resti ghianda / o altri che tema / il nostro occhio sanguigno»[26]. Il parente animale diventa simbolo di resistenza: «Per me resistere / è forza di un’ala, / di un tendine, di una vibratile / antenna d’insetto, / di pochi fili tesi / su scarsi abissi di sole / nella selva delle mie nature, / per cui vivere non è / un tentativo uguale; / ma perdermi in ogni assalto / e in ogni preda»[27]; per cui ogni attimo ritorna rilevante, decisivo per la prosecuzione della vita o per il suo termine: l’individuo nella sua animalità non conosce più l’abitudine e la sua vacuità. L’elemento naturale diventa il luogo dell’incontro con l’Altro, assumendo il ruolo di guida per ricondurre chi si è perso ai suoi simili, soprattutto quelli cari: «L’innocente starna / si leva alta sul bosco / e m’indica il tuo cammino»[28] oppure «Seguo la rondine / che farà il nido / nel tuo cortile»[29]; pertanto, venuta meno la Natura come luogo della socialità, ciascuno è più solo.

Tuttavia l’individuo rimane, per tradizione, cosa estranea alla Natura, alla quale si oppone in quanto sfruttatore: egli non può che vedere la Natura come un bacino a cui attingere anche al prezzo di spargere sangue: «Questo che primo appare / ambiguo nei canti ombrosi / di traverso alla luce lunare / […] / questo è l’occhio / che fu già di mio nonno cacciatore / e d’altri prima di lui, / abitatori di furiose rive / e di sanguigne colline, / alle mattine scoperte dai latrati, / ai venti affidate, / alle piogge dai grandi letti / e ai fetidi giacigli di marzo»[30]; secondo un processo iniziato in Italia con l’avvento dell’età napoleonica e acceleratosi nel passaggio al secolo XX che elegge la città a sede del moderno e dell’ideologia[31].

Due virtù animali

Leonetti e Volponi, insomma, incarnano rispettivamente le virtù degli animali esposte da Machiavelli, il leone e la volpe, ossia, semplificando, la forza e l’ingegno, che danno, a loro volta, il titolo al volume che raccolse nel 1995 le conversazioni intrattenute dai due intellettuali nell’inverno del 1994: «bisogna a uno principe sapere usare l’una e l’altra natura; e l’una sanza l’altra non è durabile. Sendo adunque, uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione; perché il lione non si defende da’ lacci, la golpe non si difende da’ lupi. Bisogna, adunque, essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi»[32]. Inoltre, su un ulteriore piano, Leonetti e Volponi rappresentano rispettivamente la teoria e la pratica, le due componenti fondamentali di ogni azione, che, nel loro caso, è quasi sempre politica. Infatti, Volponi integra il «sovversivo disegno / che solo è razionale»[33] di Leonetti, che pure è consapevole che «Chi pensa solo per idee, egli ha le proprie chiese, / serve al potere esistente, anche se non si vende»[34], con la fantasia del gioco, più aperta alle possibilità della ragione, per una diversa e possibile organizzazione sociale, politica, finanziaria, istituzionale ed economica, giungendo vicino alla definizione di “razionale poetico” di Galvano Della Volpe[35]. Dunque, secondo le politiche aziendali applicate da Adriano Olivetti, al poeta spetta un ruolo nel grande corpo dell’industria per riformarla dall’interno, ossia una partecipazione al potere, che pur avversa e combatte.


[1] F. Leonetti, Racconto corsivo 1, in F. Leonetti, In uno scacco (nel settantotto), Einaudi, Torino 1979, p. 6.

[2] F. Leonetti, Racconto corsivo 2, in F. Leonetti, In uno scacco (nel settantotto), cit., p. 23.

[3] F. Leonetti, La diffusione militante, vv. 102-107, in F. Leonetti Percorso logico del ‘960-75, Einaudi, Torino 1976, pp. 50-51.

[4] Ivi, vv. 1-3, p. 52.

[5] F. Leonetti, Viaggio con Vittorini, vv. 61-62, in F. Leonetti Percorso logico del ‘960-75, cit., p. 11.

[6] P. Volponi, Canzonetta con rime e rimorsi, vv. 207-216 , in P. Volponi, Poesie, Einaudi, Torino 2024, p. 215.

[7] P. Volponi, La notte è parallela al giorno…, vv. 9-12, in P. Volponi, Poesie, cit., p. 225.

[8] F. Leonetti, La fabbrica di Ravenna, v. 51, in F. Leonetti, Percorso logico del ‘960-75, cit., p. 4.

[9] F. Leonetti, Madre-lingua, v. 21, in F. Leonetti, Percorso logico del ‘960-75, cit., p. 35.

[10] P. Volponi, Canzonetta con rime e rimorsi, vv. 174-182, in P. Volponi, Poesie, cit., p. 214.

[11] P. Volponi, Insonnia inverno 1971. IV, vv. 29-34, in P. Volponi, Poesie, cit., p. 282.

[12] P. Volponi, Insonnia inverno 1971. VI, vv. 24-25, in P. Volponi, Poesie, cit., p. 287.

[13] P. Volponi, Insonnia inverno 1971. IV, vv. 107-116, in P. Volponi, Poesie, cit., p. 284.

[14] P. Volponi, Insonnia inverno 1971. VI, vv. 33-40, in P. Volponi, Poesie, cit., pp. 287-288.

[15] P. Volponi, Petra Pertusa e mista, vv. 105-108, in P. Volponi, Poesie, cit., pp. 298-299.

[16] Ivi., vv. 108-117, p. 299.

[17] F. Leonetti, La fabbrica di Ravenna, vv. 74-75, in F. Leonetti, Percorso logico del ‘960-75, cit., p. 4.

[18] P. Volponi, Il giro dei debitori, vv. 77-89, in P. Volponi, Poesie, cit., p. 62.

[19] F. Leonetti, Viaggio con Vittorini, vv. 51-57, in F. Leonetti Percorso logico del ‘960-75, cit., p. 11.

[20] F. Leonetti, La fabbrica di Ravenna, v. 71, in F. Leonetti, Percorso logico del ‘960-75, cit., p. 4.

[21] Ivi., vv. 72-74, p. 4.

[22] P. Volponi, F. Leonetti, Il leone e la volpe. Dialogo nell’inverno 1994, Einaudi, Torino 1995, p. 29.

[23] P. Volponi, Insonnia inverno 1971. IV, vv. 71-73, in P. Volponi, Poesie, cit., p. 283.

[24] F. Leonetti, La fabbrica di Ravenna, vv. 104-109, in F. Leonetti, Percorso logico del ‘960-75, cit., pp. 4-5.

[25] Ivi., vv. 114-117, p. 5.

[26] P. Volponi, Cugina volpe, vv. 63-72, in P. Volponi, Poesie, cit., pp. 51-52.

[27] Ivi, vv. 101-111, pp. 52-53.

[28] P. Volponi, La vergine, vv. 12-14, in P. Volponi, Poesie, cit., p. 89.

[29] P. Volponi, Seguo la rondine, vv. 9-11, in P. Volponi, Poesie, cit., p. 90.

[30] P. Volponi, L’uomo è cacciatore, vv. 1-3, 9-17, in P. Volponi, Poesie, cit., p. 55.

[31] P. Volponi, F. Leonetti, Il leone e la volpe. Dialogo nell’inverno 1994, cit., p. 14.

[32] N. Machiavelli, Il principe, Einaudi, Torino 1961, p. 64.

[33] F. Leonetti, Le notizie, vv. 41-42, in F. Leonetti, In uno scacco (nel settantotto), cit. p. 9.

[34] F. Leonetti, La linea, vv. 21-22, in F. Leonetti, In uno scacco (nel settantotto), cit. p. 31.

[35] P. Volponi, F. Leonetti, Il leone e la volpe. Dialogo nell’inverno 1994, cit., p. 41.


https://www.arateacultura.com

https://www.treccani.it/enciclopedia/paolo-volponi

https://www.treccani.it/enciclopedia/francesco-leonetti_(Enciclopedia-Italiana)

Alberto Iacoviello

Redattore in Letteratura

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