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La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera – Premio Bergamo 2023, Premio Calvino 2022

Una recensione di Nicola Vavassori

Una ricetta

Prendete un giovane aspirante scrittore che si definisce “filosofo non praticante” e posizionatelo sul tabellone del Monopoli-Mondo in corrispondenza di una delle caselle più fieramente autoctone e conservatrici del Nord Italia, in particolare quella che porta il nome “Provincia di Bergamo”. Covate la maturità intellettuale di questo personaggio intorno agli anni Dieci del 2000, il punto di fuga della storia contemporanea, dove il binario del Passato con la P maiuscola si è scontrato con quello del Futuro con la F bislacca, dividendo intere generazioni tra quelli che riescono a “stare al passo con i tempi” e quelli che chiedono aiuto al figlio dodicenne per fare uno screenshot. Ora – fate attenzione, arriva il passaggio più delicato – tra le mani di questo scrittore-filosofo-bergamasco fate capitare, così per caso, i libri di Cavazzoni, Busi, Carver, e le opere di altri pionieri della satira postmoderna come Fellini e Fantozzi.

Se avete seguito con cura i passaggi di questa semplice ricetta determinista, il risultato sarà Alberto Ravasio e nel 2022 pubblicherà il suo romanzo d’esordio: La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera. Finalista del Premio Calvino dello stesso anno, verrà accolto con entusiasmo dalla critica di tutta Italia, con la consacrazione di Daniele Giglioli, dell’Indiscreto e dello stesso Ermanno Cavazzoni, che lo ospiterà nella sua collana di Quodlibet. Unica eccezione sarà guarda caso l’Eco di Bergamo, la principale testata giornalistica della sua città – incidentalmente finanziata dalla curia. L’Eco, infatti, si accorgerà del romanzo di Ravasio con un anno di ritardo, solo quando verrà candidato al Premio Bergamo 2023, e lo definirà “fastidioso e banale” per “il continuo rimando anacronistico a un orizzonte religioso sessualmente repressivo”, sostenendo in generale che “alla fine lascia nel cervello poco, neppure riflessioni, solo certe impressioni”. E parleremo tra poco di questo fraintendimento.

Tornando invece alla ricetta di cui sopra, se qualcosa è andato storto nella preparazione di Ravasio, avrete probabilmente generato un mostro, che – tanto per cambiare – chiameremo Guglielmo Sputacchiera. Egli è la personificazione impietosa di ciò che può produrre la società in cui viviamo quando si verificano particolari combinazioni alchemiche: la madre ultracattolica e mezza pazza, il padre fedifrago, assente e transfobico, l’incertezza per il futuro che si tramuta in svogliatezza cronica, una generale assenza di ideali e di motivazione allo studio, e la droga del porno come unica fonte di endorfina per i suoi neuroni. Ne consegue un ritratto tristemente esilarante:

Conduco una vita rigorosamente passiva. Sono stato uno studente onnivoro ma fallito. Non ho mai lavorato un giorno in vita mia. Sono pornodipendente e non ho mai toccato il corpo di una donna, nemmeno un gomito. Non ho il coraggio di affrontare il mondo, ho la fobia del futuro e sfortunatamente ho mangime economico a sufficienza per preferire la disoccupazione volontaria alla nobiltà di un mestiere spazzino. Ma non mi lamento, poteva andare peggio.

Ravasio e Sputacchiera, per fortuna, non sono la stessa persona, bensì il “what if”, l’alternativa dimensionale, il doppio speculare del medesimo spermatozoo. Senza lo Sputacchiera – ossia senza l’esperienza di una realtà chiusa, nauseabonda e claudicante come quella di un paesino in provincia di Bergamo, dove basta un attimo per trasformarsi in un emarginato sociale pornomane – probabilmente Ravasio non avrebbe mai scritto questo romanzo. Dalla parte opposta, il consiglio più prezioso che Guglielmo Sputacchiera riceve dal suo migliore amico è sostanzialmente quello di diventare Alberto Ravasio:

“Scrivere. Anche se è nato nel letame, lui ha l’istinto per la parola. Forse è tardi per tutto, ma non per scriverne. Per scrivere di quel che conosce, del paese, della religione, della famiglia, dei parenti deficienti, dell’istruzione fallimentare, della disoccupazione, dell’isolamento informatico, dell’amore impotente. Il suo punto di vista sarebbe assolutamente originale. In pochissimi sono venuti al mondo nel fango e hanno saputo, dal nulla, conquistarsi una lingua.”

Guglielmo Sputacchiera

La Bergamo dei lunatici

L’espediente geniale con cui Ravasio decide di presentare il personaggio di Guglielmo Sputacchiera è quello di calarlo nei panni di ciò che più al mondo odia et ama: una donna. Una mattina Guglielmo si sveglia e, da scarafaggio qual è, si ritrova tramutato in donna. Di lì inizia un’assurda epopea alla riscoperta della propria identità. Il cambiamento fisico costringe Sputacchiera ad affrontare la sua condizione di inettitudine esistenziale, alla stregua di un boom ormonale da adolescente o di una crisi di mezza età. Più brusca e forse irreversibile, la trasformazione in donna costringe Sputacchiera a esplorare anche la propria sessualità maldestra e inesperta, confrontandosi con i dogmi religiosi della madre e soprattutto con i preconcetti del padre, al quale nelle ultime pagine Guglielmo dedicherà una lettera kafkiana. Una volta accettata la nuova se stessa, con lo pseudonimo di Carmela Pene, l’uomo scoprirà nella donna una possibilità di emancipazione dalla condizione sociale in cui sembrava ineluttabilmente imprigionato, paradosso di genere che sovverte le gerarchie dei più conservatori.

Il viaggio per conquistarsi una nuova identità è però tortuoso e procede in due sensi contrari. Da un lato i ricordi della precedente vita da uomo, che ricostruiscono l’origine di Guglielmo Sputacchiera, dai suoi primi incontri del terzo tipo con il genere femminile alla “labirintite cognitiva” che lo coglie dopo il diploma, di fronte alla prospettiva di un’insensata fatica universitaria. Dall’altro lato i primi passi nella vita da donna, alle prese con una sfilata di individui che sembrano usciti dal Poema dei Lunatici: né la dottoressa Casoncelli, né una psicologa di consultorio, né il santone Beppe riescono a “curarlo dalla transessualizzazione”. A differenza del capolavoro di Cavazzoni però, i personaggi dello Sputacchiera non volano sopra le nuvole né si nascondono nei rubinetti, ma anzi la loro follia è pericolosamente concreta. Per chi abita in provincia di Bergamo, purtroppo, non serve sospendere l’incredulità davanti a un santone molesto che pratica riti purificatori a pagamento.

Ma il peggior nemico di Guglielmo Sputacchiera, forse il più grottesco e imbattibile avversario che si accanisca su di lui, è il narratore. Con uno stile caricaturale e ricco di iperboli, la voce narrante non risparmia nulla al povero Sputacchiera e infierisce su di lui ogni volta che può. Qualsiasi riflessione elaborata di Sputacchiera viene messa in ridicolo, ogni suo gesto è sottoposto a metafore brutali. Appeso alla maniglia degli autobus, Guglielmo sembra “una carcassa surgelata di bovino”, indossa magliette “giallo pus” e nel mangiare “si imbottisce alla maniera onnivora e indifferenziata della discarica a cielo aperto”. Nel magma della parodia sardonica, il narratore sembra un antropologo spietato che osserva e deride le abitudini di una bestia. Una corrosività, questa, che andrebbe psicanalizzata.

Evitando qualsiasi pretesa di realismo, Alberto Ravasio sceglie di adottare una voce comica, graffiante, che si direbbe incapace di prendersi sul serio se non si aprisse qua e là a qualche spiraglio illuminato come il già citato passo sulla scrittura. In questo l’autore sembrerebbe rivelare una certa insofferenza nei confronti della narrativa tradizionale e l’esigenza di una fuga dai canoni di scrittura più comune. Stavolta questa scelta è stata premiata, con un esordio da molti ritenuto folgorante: la sfida sarà piuttosto mantenere questo stile anche nei prossimi romanzi senza perdere consistenza, oppure azzardare nuove sperimentazioni che si dimostrino coerenti.

Il genere come mezzo

Di fronte a un romanzo che sfugge alle logiche della narrativa contemporanea, c’è chi, come l’Eco di Bergamo, ha interpretato lo Sputacchiera come l’ennesimo inno alla fluidità di genere: un fraintendimento fin troppo ingenuo, che sembra fatto di proposito. In realtà il modo migliore per parlare di un argomento delicato come la transessualità senza sembrare buonisti è fare come ha fatto Ravasio, ossia non parlarne affatto. L’opera, infatti, non ha la pretesa di approfondire il tema dell’identità di genere o le problematiche legate alla transizione, in primis perché il protagonista non è un uomo che si sente donna, ma un “incel” che riesce a malapena a definirsi un essere umano. La trasformazione in “donno” di Guglielmo Sputacchiera, come detto sopra, è soltanto un espediente, un motore per la narrazione, un mezzo per tradurre altri significati.

E allora qual è il fine della Vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera, se proprio ne vogliamo trovare uno? Il più evidente è una lucida e impietosa panoramica sulla società contemporanea, vessata da differenze generazionali inconciliabili e prona davanti a un sistema educativo e lavorativo assolutamente inadeguato. Tutte dinamiche che si accentuano nel contesto dei piccoli “paeselli stercosi”. Fa riflettere che per una volta si parli di un paesello lombardo e non dell’ennesimo borgo del sud Italia vessato dalla criminalità che riempie i romanzi contemporanei, svelando i lati più grigi anche del saccente Nord.

Immune al bacillo della cultura, ripulito e ingrassato dal boom economico ma eternamente mezzadro nella calotta cranica, il paese crede di aver visto tutto perché in fondo non ha mai visto niente, non ha altro obiettivo a parte quello di reiterare se stesso. […] Sovranista, qualunquista, papista, il paese non conta né poveri né laureati, né proletari né borghesi, ma soltanto eterne corporazioni di idraulici, elettricisti e muratori, formiche risparmiatrice intente a perseguire non la ricchezza, non il piacere e nemmeno la fama, ma il decoro dell’irrilevanza.

Così il libro riflette sul bigottismo religioso, sulla massificazione dell’educazione universitaria, sulle prospettive lavorative desolate, e diviene portavoce di una generazione di giovani imprigionati tra due prospettive: “iscriversi all’asilo, condurre tutto il cursus (dis)honorum, fallire e sentirsi dire «Te l’avevamo detto!» oppure restare fermo e farsi dare del fallito da subito”. Di questa generazione, Ravasio adotta non solo il linguaggio ma anche il punto di vista disorientato, privato di un’identità e di un futuro, alla stregua di un individuo che da un giorno all’altro non riconosce più nemmeno il proprio corpo.  Perché “Da bambini ci hanno ingrassato di desideri. E quando poi siamo cresciti ci hanno detto che erano finiti i soldi”.

Guglielmo Sputacchiera è il capro espiatorio che riassume e stigmatizza tutte le ombre dei Millennials e della generazione Z e lo è dichiaratamente, per sua stessa ammissione nella lettera al padre: “Io sono un sintomo, tanti altri Sputacchiera vivono attorno a me”. Ed ecco svelato il senso dell’accanimento corrosivo che il narratore ha su di lui. Sputacchiera va superato con lo sguardo della consapevolezza, disintegrato con la distanza dell’ironia, come accade ai fantocci bruciati sulle rive dell’Adda nelle feste popolari di alcuni paeselli in provincia di Bergamo.

E come uccidere lo Sputacchiera? Lo abbiamo già detto: bisogna scrivere. “Scrivendo, da passivo potrebbe farsi attivo, trasformare in consapevolezza il dolore.” E se non si ha la penna di Alberto Ravasio? Basta parlare, mostrarsi consapevoli della propria condizione e agire di conseguenza. O per lo meno scavarsi una via – anche solo personale, come fa Carmela Pene – verso l’emancipazione dalla claustrofobia in cui siamo nati.

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