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“Palermo. Un’autobiografia nella luce” di Giorgio Vasta – Premio Bergamo 2023

"Palermo. Un'autobiografia nella luce" copertina

«Fiat lux»: la prima espressione pronunciata dal dio d’Israele nella Genesi riguarda la luce, quella che oggi sappiamo essere la parte dello spettro elettromagnetico percepibile dal nostro apparato visivo. In altre parole, la luce è ciò che possiamo conoscere visivamente, mentre tutto il resto è precluso all’esperienza diretta del nostro sguardo.

È sull’esperire la luce che Giorgio Vasta si concentra nell’opera candidata al Premio Bergamo 2023, frutto del rinnovato sodalizio con il fotografo Ramak Fazel, che con Vasta ha già pubblicato nel 2016 Absolutely Nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani, sempre per Humboldt Books. Il passaggio dalla desolazione degli aridi spazi statunitensi all’affastellamento umano di Palermo segna un’antinomia che si dispiega chiara proprio nella sua essenza luministica. Nella luce si trova l’Absolutely Everything e l’opportunità, se pur fugace, di intuirne il senso.

Silenzio, rifiuto tra pensiero e immagine

L’opera di Vasta esordisce analizzando minuziosamente le inflessioni della luce in diverse città, per poi tracciare una vera e propria storia della luce, alludendo a lacerti sparsi nell’esistenza dell’autore, che ritarda il racconto della sua città natale, racconto che dà il titolo all’opera. Questo accade perché il libro non corrisponde a ciò che di norma si intende per autobiografia. Palermo. Un’autobiografia nella luce si configura come un’indagine esistenziale sulle potenzialità del linguaggio verbale e visivo come chiave di lettura del reale, che, per citare l’autore, immancabilmente si rifiuta. A tal proposito, la filosofa Rachel Bespaloff scrive che «la vita è essenzialmente ciò che non si lascia valutare, misurare, condannare o giustificare dal vivente». Nella scrittura di Vasta pare emergere la medesima consapevolezza di una carenza interpretativa, forse incolmabile, da parte delle parole, che «vivono nei pressi di qualcosa che si nasconde nella luce». L’afasia creata da tale sottrarsi genera, per contrasto, la necessità di una prosa lucida e straordinariamente esatta nella sua evanescenza, una prosa che, in un lungo monologo ipotattico, riflette sui limiti del vedere, dentro e fuori di sé. 

In quella che si definisce espressamente un’autobiografia si trovano pochissimi eventi, al fronte di un’abbondanza speculativa che dichiara l’impossibilità di definire i propri contorni, sfrangiati e dispersi geograficamente tra Torino, Roma e Palermo, terra natìa rispetto a cui Vasta avverte un profondo senso di estraneità. Unico leitmotiv: la luce, che della città siciliana rivela un dormiveglia eterno e ciclico, caratterizzato da un «perenne divorare ed estinguersi, estinguersi e divorare». Questo moto ondoso, ritmico che si rispecchia nella prosa trascina sulle sponde del sé residui di intima precarietà, dissoluzione, persino sollievo.

Palermo, conca aurea quae suos devorat anche secondo l’antico detto latino, nell’opera diviene metafora della condizione umana, la cui essenza non può essere altro che frammentaria e priva di una trama intelligibile. Nella descrizione di Vasta colpisce l’accostamento, di primo acchito alquanto buffo, tra la sua città e un dinosauro – raffigurato nella fascetta del volume -, inteso come un essere arcaico e prelogico, che impone la sua presenza irrazionale costringendo lo spettatore ad abbozzare una spiegazione senza alcuna pretesa di esaustività. L’approccio immaginativo e creativo, prelogico appunto, sembra essere l’unico valido per sfiorare i confini dell’esistenza, per sostare nella loro enigmatica penombra.

Non è un caso che l’immaginazione intesa in senso letterale consista nella produzione di immagini attraverso la luce che si incanala in uno sguardo, altra metafora per quello che si rivela essere un habitus esistenziale: ciascuna pagina di Palermo è il risultato di una particolare postura immaginativa. Giorgio Vasta non racconta tanto un luogo quanto un modo di pensarlo da fotografo e da scrittore: tutto ciò che non è pensiero nell’opera tende a rarefarsi come pulviscolo in controluce, per poi scomparire.

L’origine dello sguardo: la penombra

In questa speculazione dendritica, che spesso appare avvolta nelle sue stesse spire e apparentemente sconnessa dalla realtà materiale, l’attinenza al vero si presenta come un fattore trascurabile, mentre l’essenziale sta nella pura facoltà visionaria della mente, che travalica il falso per giungere nello sterminato regno dell’ipotesi: «… penetrati ormai nella famigerata vita adulta, e avendo iniziato a precipitare verso non si sa bene cosa, noi non potevamo che andare a zonzo, parlare a vanvera, passare il tempo nella vulnerabilità del senso».

Dietro queste parole si cela un altro rifiutarsi, stavolta da parte dell’autore, di definire i propri contorni di fronte agli imperativi categorici della maturità, e, di conseguenza, di delineare i bordi della sua opera, giocata all’insegna della sfocatura identitaria e luministica. La quête di Palermo sull’io, sulla città, sullo sguardo non approda a nulla, se non a una serie di impressioni fugaci alternate ai ricordi. Un vecchio seduto a leggere il Giornale di Sicilia, un compleanno trascorso a contemplare il liquefarsi della torta alla luce tremolante delle candeline, i corpi dei giocatori di padel rifranti al sole: schegge di realtà visuale disseminate in un tempo vago, sottomesse unicamente alle leggi dei fotoni.

Tra questi spettri Vasta cerca di ritrovare quella che è definita l’origine del suo sguardo, ovvero un significato originario che spezzi l’incantesimo dell’afasia e gli permetta finalmente di battezzare l’esistente e di entrare dunque in comunicazione con esso, rendendolo tangibile. Qui è incastonata la contraddizione fondante dell’opera: cercare di definire sé stessi – e il mondo – descrivendo la luce e il proprio rapporto con essa, entità intangibile e immateriale per eccellenza. Ecco che l’autore fa ritorno nella casa dei fantasmi dell’infanzia, al filmato che contiene lo sguardo di suo padre, che lo riprende, neonato, e riprendendolo gli consente di esistere a sua volta come osservatore della vita che scorre lungo una bobina.

Lì, nell’appartamento di Via Sciuti, si trova la Palermo rimembrata, vagheggiata e partorita dalla mente, l’unica esperibile appieno: «…era il 2022 e nella casa dei fantasmi tutto era crepuscolo, miscuglio e dormiveglia e non vedevo e cieco di luce filmavo ciò che non vedevo ma non importava perché filmare non serviva a prendere o a capire, serviva a immaginare». Esattamente come accade nello scrivere, anche filmare equivale a costruire un universo autonomo che si intreccia costantemente con quello reale senza mai sovrapporvisi. Chi scrive, fotografa e filma sosta nell’intersezione, accettando di smarrirsi, o meglio, di zonzare, per utilizzare un termine dello scrittore, in una condizione di «nictalopia licantropica». L’incontrovertibilità lucida del reale confonde e acceca: non si vede bene che nel semibuio dove tutto sfuma.

Una mappa epifanica, senza legenda

A tal proposito, la fotografia di Ramak Fazel enfatizza la prosa di Giorgio Vasta: la sua sezione s’intitola City of Phantoms, riprendendo l’idea spettrale associata a Palermo nella parte in prosa ed evidenziando ulteriormente la natura rivelatoria del crepuscolo. Il fuori fuoco, il flash analogico e le ombre dense dominano la città franta, scomposta nei suoi eccessi e nei silenzi. Lo stesso Vasta in merito al lavoro dell’amico allude al sussurrare emblematico delle foto, dove «i corpi sbocciano da un cerchio di buio». Nell’elemento corporeo, tuttavia, si configura una differenza: a quella che si potrebbe descrivere come una leopardiana poetica dell’indefinito di Vasta, il fotografo iraniano-americano contrappone una luce che diventa carne e respiro, concretizzando un contatto con l’altro inconcepibile nell’autoconfessione dello scrittore. L’evanescenza di Vasta è resa plastica da Fazel, e dunque l’impressione è che le due sezioni si chiosino a vicenda, arricchendo la reciproca inchiesta artistica.  

La cifra distintiva di entrambe si manifesta come un’incapacità, forse ontologico-strutturale, di stabilire un disegno coeso e chiarificante. La mappa fotografica e letteraria di Palermo si costituisce di occasioni epifaniche, ma al contempo oblique e intorbidite dall’interferenza di ciò che convenzionalmente chiamiamo vita con lo spettro elettromagnetico di cui sopra. Restano, sotto forma di libro stampato, la ricerca ossessiva del fuoco e della sfocatura, e la paradossale vacuità di questo compito necessario. Resta l’impressione di un barlume di senso: ecco che in quell’istante definitivo tutto si conclude, e «se n’era andata via la luce, se ne va via la frase».

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https://www.humboldtbooks.com/it/book/palermo-un-autobiografia-nella-luce

Chiara Girotto

Redattrice in Letteratura Reels Manager