“L’universale” genere maschile nella lingua italiana: una possibile origine
L’italiano è una lingua inclusiva?
È questo uno dei tanti interrogativi del nostro tempo. Un interrogativo che si lega ad un rinnovato interesse per il tema della parità tra sessi e ad una necessaria ridefinizione di un sistema che vada oltre il binarismo dell’identità di genere.
Ad esso è stata data da molti risposta negativa: l’italiano non è una lingua inclusiva.
Ma che cosa si intende con il termine “inclusivo” quando si parla di una lingua?
Il maschile universale
A essere messo in discussione è il sistema di generi sul quale l’Italiano si fonda. Questo non solo è binario (ovvero basato unicamente sull’opposizione maschile/femminile) ma riconosce anche al genere maschile una predominanza indiscussa. Si parla nello specifico di un genere maschile “universale”, ovvero un genere il cui uso è quasi sempre valido all’interno dell’Italiano.
Per chiarire questo concetto basti pensare alle norme grammaticali che appartengono alla lingua.
Per esempio l’Italiano prevede, nel riferirsi ad un gruppo di persone, che si usi il femminile solo ed esclusivamente se ogni persona che quel gruppo compone è di genere femminile; altrimenti è necessario usare il maschile anche se vi è una sola persona di genere maschile.
Dire dunque che il maschile è genere universale significa anche identificare nel femminile un genere marcato, ovvero valido solo in una determinata situazione.
Ciò in italiano avviene anche nella scelta del lessico. Basti pensare che per indicare l’intera collettività di cui facciamo parte utilizziamo il termine “uomini”, mentre con il termine “donne” ci riferiamo soltanto a una porzione della popolazione.
Quando si parla di “ inclusività ” in relazione all’ambito linguistico, dunque, si riflette su tutto questo. Tuttavia riflessioni di questo tipo non possono prescindere da una fondamentale domanda: perché la lingua italiana si è strutturata proprio in questo modo?
La tesi di Acquaviva
Una lingua è un organismo complesso, assimilabile quasi ad un essere vivente. Come tale infatti una lingua ha una sua origine e un suo sviluppo da cui non può prescindere, così come non può prescindere dal contesto in cui si è sviluppata ed è parlata. D’altra parte la lingua è il mezzo attraverso cui esprimiamo il contesto e dunque da esso non può prescindere
Sarà quindi naturale ricercare proprio nel contesto i motivi della strutturazione assunta dalla parola fin dalle sue fondamenta e dunque dal sistema dei generi su cui la lingua si fonda.
L’importanza del contesto nella formazione di una lingua è una tesi ripresa anche da Paolo Aquaviva, professore a Dublino di Linguistica e lingua italiana. Egli, all’interno della suo libro “Il nome”, spiega che è, appunto, nella stessa realtà che va ricercato il motivo per cui l’italiano riconosce il maschile in quanto genere dominante.
Acquaviva nello specifico guarda al genere riconoscendo a esso la sua inconfutabile natura di categoria grammaticale, ma non gli nega una dimensione concettuale definitasi a partire dalla realtà stessa. Cosa significa ciò?
Acquaviva, in sostanza, nota come la modellazione della categoria di genere non abbia potuto prescindere dalla nostra modalità di interpretazione della realtà. Questo non significa però che l’uso di un determinato genere si definisca unicamente in relazione al concetto che in quel momento si vuole esprimere. Di fatto non diciamo “Paolo e Giovanna sono simpatici” perché vogliamo intendere che tale entità si riconosce interamente nel genere maschile. Intendere in tale senso le sue parole sarebbe troppo semplicistico.
Con l’uso di un determinato genere, piuttosto esprimiamo inconsciamente un modo di interpretazione della realtà non legato al momento in sé, ma intrinseco nella lingua e dunque nella società in cui essa si sviluppa.
Di questo dunque si parla quando si fa riferimento ad una “visione della realtà” che modella il sistema dei generi. Una visione che riconosce un valore diseguale a questi, e che trova sua definizione nelle parole della filosofa Simone de Beauvoir :
“L’umanità è maschile […] l’uomo è il Soggetto, l’Assoluto: lei (la donna) è l’Altro”
Simone de Beauvoir “Il secondo sesso” (1949)
Cogliamo nel genere maschile la possibilità di comprendere la realtà nella sua totalità, mentre in quello femminile solo una parte che non può essere di fatto dominante né onnicomprensiva.
Prima dell’Italiano
È dunque di tale prospettiva che risente l’Italiano, prospettiva che quindi dovremmo ascrivere alla società italiana. Così però non è. Infatti, nonostante in essa si riconosca presente tutt’ora un’evidente disparità di genere, è inesatto ricondurre tale prospettiva esclusivamente ad essa.
Asserire infatti ciò significherebbe non tenere conto di un dato naturale e storico, necessario nella prospettiva assunta in questa trattazione, ovvero: l’origine di una lingua. La lingua italiana non nasce improvvisamente all’interno della nostra società, ma ha origine da una lingua parlata all’interno di una realtà precedente alla nostra: il latino.
L’italiano è di fatto una lingua romanza, ciò significa che non è un ente totalmente diverso dal latino, ne è piuttosto il suo sviluppo. Il che significa che non ne stravolge le strutture di base ma piuttosto le rimodella e le ripropone nelle sue forme di lingua nuova. Conserva però molte delle sua origini, compreso la strutturazione delle categorie di genere.
Come l’italiano, che rispetto al latino perde solo la categoria di genere neutro, anche la lingua latina riconosceva la predominanza del genere maschile e questo è facilmente dimostrabile anche a partire da quanto il lessico latino ci indica. In latino infatti i termini designati ad indicare la collettività non sono di genere neutro, ma di genere maschile.
A prova di ciò pensiamo ad un termine centrale nella lingua latina: “Populus, i”. Tale termine indica il “Popolo” e si identifica come nome maschile della seconda declinazione. Esiste, certo, il termine “Gens, gentis“ femminile della terza declinazione atto ad indicare una collettività, ma esso usualmente non indicava la società civile, bensì la stirpe di una stessa famiglia.
Il popolo latino propriamente detto, dunque, in quanto ente collettivo e insieme di cittadini era identificato da un nome maschile, pur essendo formato sia da uomini sia da donne.
Non possiamo non pensare a quanto detto sopra riguardo al termine “uomini” e a questo esempio possiamo aggiungere contestualmente lo stesso termine “popolo” che, a conferma dell’evoluzione che il latino ha avuto nell’italiano, risulta essere di genere maschile.
La società dei Padri
Riconoscendo dunque in latino la presenza di quella disuguaglianza tra generi che abbiamo mostrato appartenere all’italiano, dovremmo attestare alla società latina, prima che a quella italiana, la visione concettuale da cui tale egemonia del maschile dipende.
D’altra parte nella società romana la donna aveva di fatto un ruolo marginale.
Al tempo infatti centrale era la figura del “pater familias”. Quest’ultimo era il padre di famiglia sotto la cui giurisdizione era posta ogni cosa: dai territori ai componenti della famiglia.
Egli incarnava la figura del cittadino romano che, in quanto tale, esercitava i pieni diritti a livello politico e civile. Divenire “pater familias” era, dopo il matrimonio, il destino dei figli.
Le figlie, al contrario, erano destinate a passare dalla giurisdizione del padre a quella del marito senza che fossero a loro riconosciuti i medesimi diritti civili e politici.
La società era dunque dei “padri” (per questo oggi si parla di patriarcato). Essi erano gli unici ad essere cittadini a tutti gli effetti, gli unici ad essere “Soggetto” nella società e per questo erano “l’Assoluto” su cui la realtà si determinava.
Abbiamo potuto riprendere le parole di Simone de Beauvoir, citate all’inizio, e ciò è un’ulteriore conferma che la prospettiva concettuale da lei espressa era già presente nell’antica Roma.
Se ciò non bastasse, si aggiunga anche che la medesima dominanza del maschile la si trova non solo in Italiano ma in tutte le altre lingue romanze.
Questo è un segno definitivo del fatto che la strutturazione di genere è prima di tutto un’eredità latina.
Un’evoluzione necessaria su due fronti
Negli ultimi anni coloro che sostengono che l’Italiano non sia una lingua inclusiva hanno scelto di adottare soluzioni che aggirassero il problema. Una fra queste è per esempio l’uso dell’asterisco nella lingua scritta, per cui al posto di “Giovanni e Maria sono simpatici” troveremo “Giovanni e Maria sono simpatic*”. Questa soluzione permette non solo di eludere l’egemonia del maschile ma anche di includere quelle identità di genere escluse nel binarismo maschile/femminile.
Si sta dunque cercando di favorire un’evoluzione della lingua in senso inclusivo ma questo tentativo non può prescindere da un necessario lavoro sociale nel contesto in cui la lingua si sviluppa. L’evoluzione della lingua non può fare a meno di un cambiamento della visione insita all’interno della società. Come abbiamo visto, infatti, è proprio dal contesto sociale che la lingua è influenzata.
Allo stesso modo il cambiamento sociale non può però fare a meno dell’evoluzione linguistica.
Il rischio nel primo caso è di ottenere una lingua che altro non sia che un “feticcio” linguistico, rifiutato dai più che non ne comprendono il senso. Nel secondo caso invece vi è il pericolo di perdere il mezzo attraverso cui esprimere tale cambiamento, perché da questo estraneo.
Appare allora necessario lavorare in entrambe le direzioni, se davvero si vuole ottenere una lingua, ma prima di tutto una società, più inclusiva.
BIBLIOGRAFIA
Acquaviva Paolo (2013) , Il Nome, Roma, Carocci editore
Criado Perez Caroline (2020), Invisibili: Come il nostro mondo ignora le donne. Dati alla mano,Italia, Einaudi
De Beauvoir Simone (1961), Il Secondo sesso, Italia, Il Saggiatore