Letteratura

Galápagos – La mente come miracolo e fardello dell’umanità

scena costiera
“Coast Scene”, Caspar David Friedrich (c. 1830)

“Sei ancora quello della pietra e della fionda/ uomo del mio tempo.”

da “Uomo del mio tempo” (1946) di Salvatore Quasimodo

Come è accaduto per molti autori, gli avvenimenti drammatici della prima metà del Novecento hanno segnato in modo indelebile l’immaginario artistico e umano di Kurt Vonnegut Jr. Sopravvissuto al bombardamento di Dresda (1945) mentre era prigioniero dei tedeschi, dedicherà la sua vita di scrittore a persuadere l’umanità a non commettere più i crimini atroci di cui si macchia dall’inizio dei tempi. Galápagos, distopia angosciante e visionaria, rappresenta un tentativo di compiere questa missione che Vonnegut stesso definisce impossibile quanto irrinunciabile.

Le vicende catastrofiche di Galápagos sono ambientate nel 1986, esattamente un milione di anni prima di quando il fantasma di Leonard Trout, operaio navale nei cantieri Malmö, Svezia decide di raccontarle. I fortunati protagonisti della sua storia sono dei viaggiatori di una crociera di lusso, che naufraga, per l’appunto, sulle isole Galápagos. La nave è stata costruita dallo stesso Leonard che, morto prima del varo, si aggira come spettro tra la cabine e il ponte, ricoprendo il ruolo di narratore onnisciente. Sarà il fantasma infatti a informare il lettore su cosa accade al di fuori di Santa Rosalia, l’isola su cui i naufraghi trovano rifugio: il mondo intero è in una grave crisi economica, scoppiano guerre e rivolte, un virus minaccia la sopravvivenza dell’umanità. Senza esserne consapevoli, i passeggeri della Crociera Natura del Secolo sono l’unica speranza per la sopravvivenza dell’uomo sulla terra.

I “grossi cervelli” tra luci e ombre

In questo scenario apocalittico si inseriscono l’ironia cruda e il pessimismo di Vonnegut, che deride i suoi personaggi servendosi dell’io narrante. Il problema che li accomuna tutti, dal più altruista al più becero, è uno solo: il loro cervello è troppo grande. Questa affermazione sarcastica disseminata ossessivamente lungo tutto il romanzo può sembrare ridicola, ma in realtà rappresenta l’asse concettuale portante dell’opera:

“In quel lontano passato qual era, ad eccezione del nostro complicatissimo sistema nervoso, la fonte dei mali che vedevamo o dei quali sentivamo parlare praticamente dappertutto? Ecco la mia risposta: non esistevano altre fonti. Una volta esclusi quei grossi cervelli, il nostro era un pianeta del tutto innocente.”

In questa breve riflessione si concentra tutta la sfiducia di Vonnegut nei confronti dell’intelligenza umana: a ogni azione benefica compiuta dall’uomo ne corrisponde sempre una violenta e ingiusta. Per meglio imprimere il concetto nella mente dei lettori, lo scrittore si serve di un aneddoto. Lo spettro di Trout racconta che, durante la Prima Guerra Mondiale, i veterani incaricati di seppellire i cadaveri consolavano le reclute dicendo che dopotutto quel morto non avrebbe mai composto la Nona Sinfonia di Beethoven. Tuttavia, i soldati hanno torto: l’uomo è in grado di commettere le atrocità di cui sono spettatori proprio perché sa comporre sinfonie per orchestra. Dagli albori della storia, il suo “grosso cervello” genera indistintamente genialità e mostruosità, crudeltà e compassione. Esiste dunque una soluzione a questo dilemma esistenziale?

Il destino del genere umano: Vonnegut e Svevo

Il rimedio alle sofferenze umane proposto in Galápagos coincide con quella che nel romanzo è presentata da un’euforico Leonard come l’evoluzione naturale della specie. Un milione di anni dopo il naufragio della crociera, e la morte dei sopravvissuti, gli esseri umani si sono trasformati in delle specie di anfibi privi di coscienza. Nessuno si preoccupa del futuro o conserva ricordi, tutti si nutrono di pesce crudo. Non esiste chi sappia impugnare un’arma o far scoppiare una bomba, men che meno qualcuno che componga sinfonie musicali . Nel tono fintamente entusiasta del fantasma narratore si nasconde la ferocia ironica di Vonnegut: forse solo regredendo è possibile migliorare e salvarsi.

A inizio Novecento un altro autore ha espresso delle idee simili riguardo la condizione umana, definendola “inquinata alle radici”. Nella pagina conclusiva de La coscienza di Zeno (1923), Italo Svevo scrive:

“Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo (…) Ma l’occhialuto uomo, invece, inventa ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa.”

Anche Svevo conclude quindi che il progresso umano, quello degli ordigni e delle guerre, è inutile e nocivo, se non addirittura inautentico. A differenza del finale che Vonnegut espone (più sarcasticamente che con convinzione) in Galápagos, il suo scenario prevede un esito catastrofico in cui una grande esplosione eliminerà definitivamente l’umanità. Questa visione assume un’inquietante valenza profetica se si pensa per esempio ai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki o a quello di Dresda, in cui Vonnegut è stato coinvolto in prima persona. Per Svevo la “malattia” dell’uomo coincide con la vita stessa. Egli non potrà mai evolversi in un animale meno complesso e quindi “sano”, innocente, perché la salute è ontologicamente estranea alla sua esistenza.

Galápagos: provocazione e speranza

Le due alternative di futuro proposte da Vonnegut e Svevo competono per il premio alla più pessimista. Sembra quasi che, nel delineare le sorti dell’uomo, gli scrittori abbiano volutamente ignorato gli evidentissimi aspetti positivi non solo del progresso, ma dell’umanità in generale. Se però ne La coscienza di Zeno il finale non prevede nessuna possibilità di riscatto, in Galápagos la questione si fa più intricata. Dalle pagine di Vonnegut affiora, tra le battute caustiche sulla follia delle nostre azioni e le osservazioni amare sul futuro del Pianeta, un profondo amore per i suoi simili.

Il tono disincantato e cinico della prosa vonneguttiana maschera infatti l’intenso coinvolgimento che l’autore prova nei confronti delle tragedie umane. Più che a una distopia apocalittica, il romanzo somiglia a un lungo monito provocatorio. Vonnegut elenca tutto l’orrore che la nostra specie è stata in grado di provocare e trascura volutamente il resto, come se si aspettasse dal lettore un silenzioso grido di indignazione mentale: “noi non siamo solo questo.” Galápagos è una sfida, un invito a contraddire chi scrive dimostrandogli che per i “grossi cervelli” c’è ancora speranza e che non servirà percorrere a ritroso le tappe dell’evoluzione per diventare meno crudeli.

A confermare le intenzioni dello scrittore restano i protagonisti dell’opera, sventurati che fino all’ultimo restano fin troppo umani. Ognuno persegue egoisticamente i suoi scopi: c’è chi bada solo alla propria sopravvivenza e chi pensa alla conservazione della specie, sempre mirando alla soddisfazione personale. Un fatto resta però incontestabile: nonostante le difficoltà, tutti sfruttano il loro ingegno per ripartire da zero. Anche nelle situazioni più difficili, l’uomo sa costruire sulle macerie e ricominciare, realizzando, talvolta, qualcosa di migliore rispetto al passato. Non resta che raccogliere la sfida di Vonnegut e sfruttare la nostra intelligenza con empatia e rispetto, dimostrandogli che si sbaglia.


Bibliografia:

Kurt Vonnegut Jr, (2015), Galápagos, Milano, Bompiani
Pascal Schembri, (2017), Kurt Vonnegut Jr. Una biografia chimica, Bologna, Odoya
Italo Svevo, (2017), La coscienza di Zeno, Milano, Feltrinelli

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Chiara Girotto

Redattrice in Letteratura Reels Manager