Cinema

First Cow. Il nuovo ovest di Kelly Reichardt

Di Niccolò Gualandris

Regista e docente statunitense, Kelly Reichardt (1964) è uno dei volti di rilievo del cinema indipendente americano dell’ultimo ventennio. Esordisce nel 1994 con il dramma River of Grass, notato dalla critica e da prestigiosi festival internazionali (Sundance, Berlinale, Independent Spirits) e prosegue la sua carriera con successo, arrivando a presentare in concorso al Festival di Venezia. Il 27 maggio a Cannes, è stato proiettato il suo prossimo film Showing Up. Riceverà il Pardo d’oro onorario al festival di Locarno il 12 agosto 2022.

Quella di Reichardt è un’anima quintessenzialmente americana che negli anni è riuscita nell’ardua impresa di rinnovare l’export statunitense di generi sempreverdi come i road movies- Old Joy (2006) e Wendy and Lucy (2008)- o stantii e fin troppo monopolizzati dallo sguardo maschile come il western, con Meek’s Cutoff (2010).

In vista del riconoscimento onorario a Locarno, ennesimo tassello della sua consacrazione critica, rivediamo insieme la sua ultima pellicola, particolarmente rappresentativa della sua poetica del recupero di sguardi marginali e di immersione nella cultura dell’America profonda.

First Cow, un altro period-piece ambientato nella frontiera americana di metà Ottocento, è testimone eccellente ed esemplare della carriera di Reichardt, incapsulando in un racconto tradizionale i temi più cari alla regista. Un racconto delicato, dolce e malinconico ma anche una critica al capitalismo spietato dell’America di ieri e di oggi.

Il film è stato distribuito negli U.S.A. a marzo 2020 da A24 Films. Data la crisi sanitaria, la sua permanenza, a singhiozzi, nelle sale, è stata drasticamente ridotta. In Italia e nel mondo è rimasto orfano di una distribuzione ufficiale nelle sale fino a metà 2021. Dal 9 Luglio 2022 è stato reso disponibile in streaming su MUBI.

Seguiamo la storia di Otis Figowitz, detto “Cookie” (John Magaro), un apprendista fornaio che viaggia attraverso lo stato dell’Oregon in compagnia di alcuni scorbutici cacciatori di pelli. Una notte, dopo essere stato rimproverato per non aver procacciato cibo a sufficienza, si imbatte in un misterioso immigrato cinese di nome King-Lu (Orion Lee), datosi alla fuga dopo aver accidentalmente ucciso un uomo. Mosso da compassione, Cookie gli offre rifugio per la notte nella sua tenda ma la mattina l’uomo fugge via.

I protagonisti: King-Lu (Orion Lee) e Otis “Cookie” Figowitz (John Magaro)

In uno squallido accampamento di pionieri, i due uomini si rincontrano e Lu riesce finalmente a dimostrare la sua gratitudine invitando il nuovo compagno a passare qualche giorno nella sua baracca, in una radura fuori dall’accampamento. In atteggiamenti ormai amichevoli, i due si raccontano i propri sogni: Lu vorrebbe esportare olio di castoro in Cina mentre Cookie diventare pasticciere o albergatore a San Francisco. Le possibilità, nella frontiera del sogno americano, sembrano infinite ma devono scontrarsi con la miseria della vita quotidiana fatta di privazioni e sacrifici.

Con l’arrivo della prima mucca nel territorio, richiesta dal governatore locale di origine inglese, emerge per i due protagonisti un’opportunità imprenditoriale: Cookie potrebbe usare il latte per cucinare dolci, aprendo un mercato potenzialmente molto redditizio tra i locali. Per quanto riguarda l’approvvigionamento della materia prima Lu non ha dubbi, mungeranno il bovino nottetempo.

Costantemente sospesi tra la prudenza di Cookie e il rischio d’impresa del più navigato Lu, la coppia inizia a guadagnare con il monopolio di un nuovo bene, i clienti e il profitto aumentano vertiginosamente così come il pericolo di essere scoperti.

L’arrivo della mucca nel Territorio

Lungi dal voler dare una panoramica sul sistema economico dell’America dell’epoca, First Cow agisce invece per sottrazione, esponendo l’ossatura del Mercato con le sue promesse e i suoi rischi, l’individualismo e la spietatezza della Frontiera.

Lo sguardo di Reichardt è immediatamente riconoscibile nella sua essenzialità: una trama lineare, pochi personaggi e un’ambientazione circoscritta sono strumenti per indagare i rapporti tra uomo e uomo e umanità e natura. 

La dolcezza dell’amicizia tra i due protagonisti è rinfrescante e confortante, insieme a quello di Cookie e la mucca (“Evie the cow”, segnalano i titoli di coda): sono elementi che contribuiscono a un rovesciamento dei topoi del western americano, spesso dominato da rapporti di forza e conflitto, sia alla proposta di un’alternativa al “Man versus Wild” à la Revenant (Inarritu, 2015). 

La fauna e la flora dei territori dell’Oregon non sono più la wilderness, la natura selvaggia con cui i pionieri si scontravano per la propria sopravvivenza e verso la quale vigeva un timore reverenziale. Questa è invece colta nel momento in cui l’economia americana assume i connotati che la renderanno riconoscibile per il resto del secolo. Ciò che esiste sul territorio dell’Unione è fatto per essere utilizzato e sfruttato dall’ingegno individuale e ogni metro di terra, ogni pelle di castoro o secchio di latte è la potenziale opportunità di svoltare la propria vita con un guadagno economico.

La tematica ecologica nei personaggi è abilmente tesa fra i due estremi di sfruttamento utilitaristico e genuino rispetto e cura per l’altro, uomo o animale che sia. Un’ottica antispecista e sensibile che si pone perfettamente nel discorso ultra-contemporaneo dell’eco-criticism, inserito in un generale ripensamento critico della dialettica tra la razza umana e il pianeta che -non da sola- abita.

La mucca Evie

Come già anticipato poc’anzi, la forza di questa pellicola sta anche nell’inversione di rotta rispetto al repertorio del genere a cui appartiene la storia narrata. All’orizzonte, sempre occluso dalla rigogliosa vegetazione del nord-ovest, non appare nessun pistolero nerovestito o sceriffo intrepido. Non ci si scontra con i nativi americani, mesta e rassegnata presenza nell’accampamento che è luogo-cardine dell’intreccio.

Non c’è scontro tra bene e male archetipici o grandi narrazioni sulla vastità e pericolosità della Frontiera: tutto, personaggi compresi, è ridimensionato ad una cifra più umana, addirittura mediocre.

Mediocre non è sicuramente la resa tecnica, forte di una fotografia eccelsa a cura di Cristopher Blauvelt e la sceneggiatura, basata sul romanzo The Half-Life di Jonathan Raymond (2004). La trama rifugge facilmente l’etichetta di “western gentile”, restituendo un ritratto agrodolce e sfaccettato di un’amicizia nata per necessità tra due protagonisti improbabili.

Cookie, Lu, l’accampamento, i coloni, i nativi; tutto somiglia a un set di un film western da cui l’ingombrante eroe a cavallo si è appena congedato. La macchina da presa rimane accesa, il montaggio -della stessa Reichardt- indugia sulle vite di personaggi secondari, dimostrando che anche in queste esistenze marginali si possono nascondere storie degne di essere raccontate, valori che possono emergere ed emozioni che possono sorprendere.


Niccolò Gualandris

Redattore di Letteratura