Fin qui visse un uomo
Un’epigrafe in versi di Gerardo Masuccio
Lontana da un lirismo anacronistico, Fin qui visse un uomo è una raccolta testamentaria che ripercorre l’esperienza di un uomo, di un soggetto indefinito, a partire da un punto: “qui”, avverbio che di consueto è utilizzato per indicare un luogo preciso, ma che nei versi di Masuccio acquisisce una funzione diversa. Deve essere infatti inteso non come mero avverbio di luogo ma come indicazione figurata di uno spartiacque, di un limite, di un punto fino al quale il soggetto è definibile per la propria esperienza e oltre il quale regnano il dubbio e l’incertezza.
Non ha senso
e ne dà. Come un giglio
che gridi a chi passa,
da un ciglio di via:
“Fin qui visse un uomo”
È attorno a questo locativo che si svolge la ricerca autoriale e si delinea la principale traccia di lettura dell’opera: l’opposizione tra l’unica certezza che si possiede, l’essere vissuti “esser qui, ma per sbaglio” e l’incognita di ciò che sta oltre. A partire dal testo d’apertura, si delinea una condizione di precarietà, intrinseca alla natura stessa dell’uomo, dalla quale egli tenta di uscire appellandosi all’atto della scrittura come prima resistenza. Un atto a cui si oppone il silenzio, come già nell’epigrafe “ma i poeti migliori / hanno scelto il silenzio”. Eppure, silenzio e scrittura non sono inconciliabili, come non lo sono la sensazione di “inappartenenza” al mondo che l’io prova (“l’uomo è l’ombra di intonaco e schegge”) e il suo identificarsi con una collettività poetica (“e mi scopro un groviglio di vite”). L’opposizione tra scrittura e silenzio è dunque una delle molteplici direttrici in cui Masuccio sviluppa la sua ricerca. Un percorso che si declina all’interno del paradigma del viaggio “come il viandante per la strada ignota / e nel suo albergo l’ospite di un giorno / la vita mi assedia – silente – / ma non mi appartiene, né io le appartengo”, e che associa alla vita quella dimensione di stasi silente a cui cerca di sfuggire: “è il passo tremante che segue, / fuggendo, la stasi”.
Non è un caso che i verbi associati, in più testi, alla vita, il cui agente principale è il tempo, afferiscano al campo semantico della guerra (“mi assedia”, “annienta”, “armato”), e anche alcune azioni dell’io che, “[…] mentre una schiera di eroi / brandisce le spade / del suo inconsapevole nulla”, rende “le armi alla vita” e “diserta”, tentando di sopravvivere a se stesso. Il tentativo di sopravvivenza attuato, reso attraverso la coniugazione riflessiva del verbo, affievolisce nel procedere con la lettura delle sezioni; e con esso muore anche l’idea di essere un poeta di pace, perché la mancanza di quiete, “la tregua di dio”, viene ora riconosciuta come un’inquietudine consustanziale alla natura umana e alla coscienza del nulla, a cui è associata una dimensione solitaria.
Tu verrai e insieme
noi sapremo di nascere e morire
e che – senza l’amore –
intanto è il nulla.
La frammentarietà del soggetto è dunque funzionale a una tensione conoscitiva sottostante, poiché, attraverso i molteplici io che si offrono alla scrittura, essa si delinea come un metodo di valutazione e confronto per intraprendere un percorso di riappropriazione di sé. A questo meccanismo combinatorio sono riconducibili anche le molteplici occorrenze topografiche interne alla raccolta (Nuova Delhi, Mumbai, Kabul, Parigi, Berlino, Siena, Santa Monica), attraverso le quali ricomporre quel “qui” del titolo nelle sue molteplici possibilità: riconoscere il bordo e comprenderne l’essenza. Quei luoghi, dunque, pur essendo altro da sé, rivelano parti della propria identità.
Nel tentativo di ricomporre il proprio vissuto, la riflessione comprende anche delle figure esterne, un “tu” che nelle prime sezioni si riferisce agli affetti familiari (la madre, il padre, la nonna, il nonno) e converge poi, nella quinta sezione, in una figura femminile. Reduce della tradizione petrarchesca e montaliana, la donna amata sembra accogliere in sé tutti i cocci che formavano gli altri interlocutori e suggerire il punto di svolta della raccolta: la comprensione.
Ti ho vista salire le scale
nei passi di un’altra
e del tuo riflesso ho colmato
un istante di vuoto
Quando, edera muta, tu invadi
le crepe di questo mio muro,
non resta di me che maceria.
La presenza della donna è dunque una presenza marcata, un presupposto non sostituibile per attuare quell’atto di resistenza intrinseco alla poesia che si prospetta sin dal principio e che esclude ogni connotazione salvifica. Nel rapporto con la donna, l’io può dunque trovare un punto di vista altro, può riconoscere il confine entro il quale la vita e l’essenza di quell’uomo ha avuto senso, ma senza cedere alla comune inclinazione a eternare nella memoria e custodire “ciò che resiste / disperso nel nulla”.
L’algoritmo del viaggio reclama
– ingenui – i miei passi
e oltre il predello la vista
esplora il vagone,
il mio, gli altri spazi.
Lenta la strada coagula
intorno all’assenza di meta.
Ho concesso un bagaglio alle spalle,
che portino pure
una scorta dei miei giorni latenti
cui torna – e la inganno – la mente,
all’ora futura
che anticipa e cela il passato.
E qui – fermo – io scrivo i miei versi,
a bordo di un treno dismesso
che non ha mai corso il binario.
Ne ho bruciato le carte,
gli appunti, le note,
adesso che armato di morte
– difesa legittima, credo –
si è imposto alla vita.
Tra i fogli ho bruciato
perfino un ritaglio di bianco
su cu aveva scritto
– nell’angolo, in calce al suo vuoto –
d’incerta grafia: “Conservare”.
Quel verbo indifeso
– l’enigma di ciò che resiste
disperso nel nulla –
è nient’altro che me, è ogni uomo
che si ostina a restare e non è.
“Conservare”, ma io l’ho bruciato,
protesta d’amore.
Ora che la mia vita mi esige
e persevero in questo ritardo,
non sono un poeta,
ma ripudio l’essenza dell’uomo.
All’ingiuria che il tempo, di qua
dalla pena del nulla,
per ultima sferra
un uomo – ed è l’unico immune –
protesta: “Ho amato”.