Perché Everything Everywhere All at Once può essere il miglior film agli Oscar 2023 ?
Un articolo di Lorenzo Santini
Avvincente, coinvolgente, surreale, comico ed irriverente: cercare di descrivere in pochi aggettivi e in poche battute un film è sempre un’impresa complessa, ma quando si parla di un’opera come Everything Everywhere All at Once tale impresa sembra essere completamente impossibile. Firmato Daniel Kwan e Daniel Scheinert, in arte Daniels, e candidato a ben undici statuette, Everything è un film multistrato e senza compromessi, molto lontano dall’ideale cinematografico a cui l’Academy ci ha abituato in questi anni, ma non per questo di minor valore o qualità.
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Riassumere la trama di un film del genere in poche righe e stando alla larga da fastidiosi spoiler è un compito infame; in sintesi, Everything narra la storia di una famiglia cinese immigrata negli States che gestisce una modesta lavanderia a gettoni e immersa in innumerevoli tensioni. Da un lato alcuni problemi con l’IRS, dall’altro una vagante lettera di divorzio tra i coniugi Evelyn, la vera protagonista del film, interpretata da Michelle Yeoh, e Waymond, interpretato da Ke Huy Quan, sommati all’arrivo da Hong Kong del padre di Evelyn, Gong Gong, e alla mai davvero digerita relazione lesbica della figlia Joy, messa in scena da Stephanie Hsu, fanno schizzare alle stelle il nervosismo in casa. Tuttavia, queste premesse di base da dramma familiare multiculturale si scontrano ben presto con plot twist quanto meno inaspettato: Waymond, nelle mura della sede dell’IRS, viene sostituito improvvisamente da una versione di sé di un universo parallelo, Alpha-Waymond, il quale rivela a Evelyn l’esistenza di infiniti mondi alternativi, tutti quanti messi in pericolo da una misteriosa presenza multi dimensionale apparentemente intenzionata a far deflagare tutto il multiverso. Da qui in poi il film si apre a una colorata e frenetica combinazione di combattimenti all’ultimo sangue, azioni grottesche in grado di far compiere salti dimensionali, continue citazioni alla storia del cinema occidentale e orientale e riflessioni sul rapporto genitori-figli, sull’affetto e sulla ripetitività della vita ordinaria. Il tutto mentre sullo sfondo incombe la presenza di un famelico bagel nero in cui è concentrata ogni cosa in grado di risucchiare ogni parte del reale.
Everything è il trionfo cinematografico del grottesco a tinte nosense e al gusto dei film di kung fu cinesi degli anni Ottanta, arrivando quasi a porsi come contraltare parodistico dei cinecomic contemporanei. L’action estremo e grave delle enormi produzioni americane lascia qui spazio all’estetica variopinta propria del cinema indipendente, senza dover sacrificare nulla e offrendo al pubblico una sanissima boccata d’ossigeno. Credo che sia questo uno dei grossi meriti del film, ovvero quello di portare al grande pubblico un modello cinematografico diverso e alternativo che, pur prendendosi meno sul serio, riesce a incidere nel profondo nelle tematiche affrontate e a raggiungere lo spettatore senza banali generalizzazioni.
In generale Everything è un’opera molto ben riuscita e in grado di tenere insieme le molte ambizioni che la animano, senza cadere nel confuso o nel trash estremo. La storia è tutt’altro che lineare, ma ben raccontata e resa attraverso un calibrato alternarsi di sequenze ad altissimo ritmo e di scene più riflessive, lasciando spazio qua e là a qualche chicca davvero di altissimo livello.
Una menzione speciale va anche fatta al cast, in cui spiccano le performance di Michelle Yeoh, nei panni della combattuta Evelyn, e di una inedita Jamie Lee Curtis nei panni di una annoiata dipendente della IRS, Deirdre Beaubeirdre, a metà tra l’essere una villain della storia e una aiutante dei protagonisti. Le loro voci poliedriche e dalla grande forza espressiva vengono completate perfettamente da un emotivo e sorridente Ke Huy Quan, così come dall’interpretazione polifonica e profonda di Stephanie Hsu, in grado di dare volto ai disagi dell’adolescenza e al nichilismo giovanile. Non è affatto un caso che tutti e quattro i nomi citati siano candidati nelle rispettive categorie, ponendosi tra i favoriti per essere acclamati durante la notte degli Oscar.
Detto ciò, appurata la bontà del progetto a firma Daniels, quali sono le possibilità che Everything Everywhere All at Once riceva la tanto ambita statuetta? Quest’anno la gara è apertissima e la presenza ingombrante del superfavorito The Fablemans rende tutto più difficile, ma non per questo le speranze sono destinate a rimanere deluse. Bisogna ricordare che il titolo è reduce da un recentissimo en plein agli Screen Actors Guild Award, vincendo in quattro categorie su cinque nomination e ottenendo il premio per il miglior cast cinematografico, storicamente considerato un ottimo auspicio in vista della notte tra il 12 e il 13 marzo. I meriti che il film porta con sé sono molti e, seppur a fronte di qualche sbavatura, come ad esempio una seconda parte del film forse un po’ prolissa e leggermente dispersa tra citazioni e cambi di scena, mi sento di dire che l’Oscar al miglior film potrebbe assolutamente essere meritato. E poi, detto sinceramente, la speranza che il riconoscimento più prestigioso del mondo della settima arte vada ad un film in cui la minaccia da scongiurare è rappresentata da un bagel divora-mondi mi alletta non poco.
Perché “Avatar – La via dell’acqua” può essere il miglior film agli Oscar 2023 ? – Aratea Cultura
Everything Everywhere All at Once – Wikipedia