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Dove non mi hai portata, di Maria Grazia Calandrone

di Nicola Vavassori

La letteratura italiana del Nuovo Realismo commette un peccato: troppo spesso smette di essere letteratura e diventa esclusivamente realtà. Al giorno d’oggi poche storie che si rispettino iniziano senza il messaggio di avvertenza “Tratto da una storia vera” e il risultato è che non esiste più una via di mezzo tra il Vero e il Falso, tra Roberto Saviano e Game of Thrones. Il rischio – il peccato capitale – è quello di scrivere libri solo perché parlano di argomenti reali, patetici, al centro del dibattito sociale, senza però dedicare alla scrittura la riflessione artistica degna di un’opera letteraria più che di un saggio di sociologia.

Da questo punto di vista, Maria Grazia Calandrone fa scuola a un’intera corrente letteraria con Dove non mi hai portata, il suo ultimo romanzo uscito per Einaudi nel 2022 e finalista al Premio Strega 2023. L’opera, infatti, oltre a raccontare una storia vera e profondamente toccante, lo fa attraverso uno stile di scrittura eccezionale e sviluppando il racconto oltre i confini della facile empatia, per costruire una riflessione sociale e umana ben più ampia.

Dove non mi hai portata

La vicenda narrata dalla Calandrone è quella dei suoi genitori biologici, Lucia Galante e Giuseppe di Piero; lei, sposata con un uomo violento che non si era scelta, nelle foto del matrimonio non sorride; lui, reduce militare della campagna d’Africa, si gode la vita con la gioia disperata di chi ha visto la guerra. Quando Lucia rimane incinta di Maria Grazia sa che il padre non può essere suo marito, perché il matrimonio è rimasto bianco. Allora Giuseppe, di 27 anni più grande, già sposato e con quattro figli, decide di andarsene con lei dal paesino molisano di Palata, alla volta di Milano. È il 1963 e mancano ancora 7 anni alla legge sul divorzio, perciò i due vengono denunciati per concubinaggio e si ritrovano da soli in una città troppo grande, con sempre meno soldi. Arrivano così alla decisione estrema: raggiungere Roma, lasciare la propria figlia all’ingresso di Villa Borghese, su un prato, e togliersi la vita nel Tevere.

L’amore, la magnifica follia che ci fa giganteggiare sopra la nostra vita, che trasloca il nostro piccolo esistere dentro il corpo totale del mondo, è qui ancora ridotta a miseria, concubinaggio.
E a rinfocolato rogo di pettegolezzo:
«Se n’è andata con quello che le faceva i lavori in casa!» vocifera il paese. Scandalizzato, sovreccitato, invidioso.

La storia di Lucia, però, non è romanzata in un racconto ricco di pathos esistenziale alla Romeo e Giulietta. Al contrario, la vicenda si squaderna come un’inchiesta, come la ricerca di una figlia che vuole indagare l’identità di sua madre, di cui sa poco o nulla, attraverso le poche fonti che riesce a raggiungere: una fotografia, una lettera, una testimonianza. Così nel sottotitolo si leggono due metà di una frase che sembrano un ossimoro: Mia madre, un fatto di cronaca. Può una madre ridursi a un mosaico di documenti e resoconti? La risposta dell’autrice – sia nel libro sia nell’intervista che le abbiamo fatto – è, parafrasando, la seguente: i fatti parlano da sé, la foto di una sposa con il labbro spezzato, la lista degli oggetti abbandonati prima di togliersi la vita, non hanno bisogno di un commento, né tantomeno di una lezione morale.

La scelta della cronaca, dunque, non è in ossimoro con l’empatia. Anzi, gli avvenimenti raccontati si stagliano con un’evidenza tale, sulle pagine del libro come dei giornali dell’epoca, da toccare direttamente l’umanità dei lettori: ulteriori filtri sarebbero superflui. Sono fatti lasciati alla comprensione e “alla compassione di tutti“. E a volte si rivelano talmente semplici da sembrare incomprensibili a chi vi riflette troppo. Così i giornali del 1965, ossessionati come oggi dalla cronaca nera, si scervellano per decifrare alcune delle scelte di Lucia e Giuseppe e arrivano a formulare le possibilità più macabre, come il femminicidio, ipotesi affrontata e smentita pezzo per pezzo dalla Calandrone. Ma la stessa autrice non riesce a rispondere da sola ad alcune domande. Perché andare a Roma e non restare a Milano? Perché lasciare la figlia a Villa Borghese e non in un orfanotrofio? Perché annunciare ai giornali di aver abbandonato una bambina? Sarà Anna, la figlia tredicenne di Maria Grazia, a trovare una risposta genuina, senza chissà quali livelli di astrazione:

«Perché vogliono fare scalpore»
Lucia e Giuseppe vogliono che la loro bambina, insieme alla storia che ha condotto al suo abbandono, venga notata. Non vogliono che la loro tragica storia venga confusa con altre pur tragiche, paragonabili storie.
[…] Un gesto pazzo e forte, che attragga l’attenzione sulla bambina
e la loro bambina non rovini nella loro rovina.

Ecco allora che il “fatto di cronaca” smette di essere un dato freddo e oggettivo, ma si ricongiunge alla vox populi, febbricitante, assetata di notizie. Ecco che la notizia diventa mezzo per salvare una vita dalla solitudine di un’orfana. E infatti Maria Grazia viene adottata da Giacomo Calandrone, un dirigente del PCI, e da Consolazione, professoressa di Liceo che le insegnerà l’amore per le lettere, di cui l’autrice ha parlato due anni fa in Splendi come vita (Ponte alle Grazie 2021).

È da questa porta che in Dove non mi hai portata entra anche la poesia. Come si può notare nei passi riportati finora, la prosa della Calandrone si fa spesso lirica e nei momenti di maggiore tensione adotta espedienti di versificazione, trasformando la frase in un verso poetico. Così si chiude il cerchio annunciato nel sottotitolo e la cronaca incontra il calore della poesia per esplorare quegli anfratti di realtà nascosti che la prosa non sa raggiungere.

Dove non mi hai portata, dunque, è a metà tra un congedo e una gestazione. E dopotutto cos’è la scrittura se non questo? Liberarsi di qualcosa che si porta dentro riversandolo sul foglio e, osservandolo ora all’esterno di sé, riuscire a capirlo, a narrarselo, a farne una parte concreta della propria persona. Ogni parto è anche una dipartita o, come scrive la Calandrone: Perché ci sia vita, è necessaria la separazione. È per questo che nell’ultima pagina del libro, dopo aver completato la sua ricerca con il distacco terapeutico delle fonti e dopo esservisi tuffata con i vuoti eloquenti della poesia, Maria Grazia può chiamare sua madre: figlia mia.


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