Una lettura di Dopo Campoformio di Roberto Roversi
Dopo Campoformio, pubblicato inizialmente da Feltrinelli nel 1962 e, in edizione accresciuta, da Einaudi nel 1965, rappresenta l’approdo della poesia del bolognese Roberto Roversi al grande pubblico, a differenza delle altre sue opere, «volontariamente sottratte al circuito di distribuzione dei grandi editori per un fermo e conseguente rifiuto del capitalismo anche nei mezzi di produzione culturale»[1]. Si tratta di un libro di grandezza poematica[2], composto da dieci componimenti, a cui se ne aggiunge uno nell’edizione aggiornata, che ripercorre gli eventi storici dell’Italia dalla fine del XVIII secolo fino all’attualità degli anni Sessanta del XX secolo. In Dopo Campoformio l’autore, infatti, inanella in un’unica catena eventi della storia patria che vengono a poggiare su un unico piano, per cui al dominio asburgico sul Veneto, successivo alla stipula del trattato napoleonico di Campoformio nell’ottobre del 1797, si sovrappone l’occupazione tedesca dell’Italia settentrionale durante il secondo conflitto mondiale, giungendo fino alla più cogente attualità della tragedia del Vajont del 1963. Si tratta di due momenti di delusione per la storia italiana[3], il primo quello della fiducia tradita di Napoleone, il secondo quello delle disattese speranze riposte nella lotta di liberazione, passando per la tragedia del primo conflitto mondiale. Si tratta di snodi storici in cui si concentrano il senso della perdita e il rischio del tradimento, che permettono di rileggere il presente politico e di interpretare la generale sfiducia dell’epoca postbellica. Roversi, infatti, analizza il prezzo umano e sociale pagato durante la burrascosa epoca rivoluzionaria francese, traendone un insegnamento per il presente.
Il titolo risulta centrale nell’interpretazione del testo e nella rilettura degli eventi storici ai quali si fa riferimento. Lo stesso autore, nell’intervista rilasciata a Francesco Camon, espone come «Dopo Campoformio renda chiaramente il senso di una mancata rivoluzione»[4], come, di fatto, «Campoformio segna una restaurazione succeduta a nessuna rivoluzione»[5].
Un inizio possibile
Per quanto «un mondo nuovo affiori ribollendo / dalla schiuma aspra del dolore»[6], alla Liberazione, conquistata con fatica e sacrificio, succede una nuova prigionia, soprattutto quando i liberatori diventano i nuovi oppressori, come sono stati e ancora sono considerati da alcune frange della politica europea gli Statunitensi. L’America, infatti, ha rappresentato per molti un ideale di libertà e di democrazia, fino a quando non si è rovesciato, guastandosi, in una realtà disforica.
La cocente disillusione, organizzata in una visione negativa, per cui la posizione ideologica lascia spazio a una posizione peculiare, sopraelevata, si scontra con una concezione progressiva della Storia, che, pur essendo sottesa, viene, in definitiva, smentita: scadute le occasioni di una rivoluzione effettiva, la Storia non è più progredita, impigliandosi in ogni occasione perduta. L’andamento monotono del testo sconfessa ogni pretesa di eroismo, come è tipico della letteratura novecentesca, che non conosce eroi se non antitetici. Tuttavia, contro a una visione totalmente pessimistica della vicenda storica, si pone la necessità della lotta, non militare bensì politica[7], per quanti, letto e compreso il libro, siano disposti a farsi carico del suo significato, realizzando l’aspettativa dell’autore che il suo libro giunga a una qualche utilità, pratica e non solo intellettuale. Roversi auspica ancora la possibilità della palingenesi, già sfumata più volte nella storia italiana, possibile solo dopo aver fatto i conti con il passato del proprio Paese. È il momento di agire, non di perdersi nel lamento: «perduta la pace guadagnata, / anche il pianto ora è vecchio, inutile; / tutto da incominciare»[8]; affinché la Storia, abbandonata al suo scorrere casuale, non opponga resistenza: «Questo tempo è già naufragato, / rotto come un barattolo lasciato / in un prato della periferia, / scalciato, frantumato, / come un legno / va alla deriva buttato alla corrente, / rotola via»[9].
Il ricordo come responsabilità
«E qua è l’Italia, non intende, tace, / si compiace di marmi, di pace / avventurosa, di orazioni ufficiali, / di preghiere che esorcizzano i mali»[10]: Roversi ingiunge all’Italia di confrontarsi con il passato, tanto quello nazionale, segnato indelebilmente dal governo fascista e dalle sue violenze, quanto quello mondiale, biasimandone la deliberata cecità con la quale tenta di minimizzare le proprie responsabilità e le proprie perdite, quando l’umanità ha toccato il fondo con il genocidio organizzato da un lato e con le armi di distruzione di massa dall’altro.
La lettura del declino storico procede attraverso i ritratti di uomini e donne che ne hanno subito le conseguenze, abitanti delle nebbiose regioni del Settentrione italiano, teatro degli scontri, «Terra per eserciti / in fuga verso i monti»[11]. Su ogni individuo si apre una prospettiva epica in quanto componenti di un racconto totale, in quanto monumenti di una storia da non dimenticare, nonostante «Tutti nel fango sono dimenticati»[12]. Dimenticare, infatti, diventa una colpa, il ricordo un dovere, dapprima per quanti hanno vissuto direttamente gli eventi narrati, poi anche per quanti ne hanno ascoltato il racconto: «Rimpiangono solo l’oblio degli amici, / d’essere dimenticati»[13]; dunque, per ogni cittadino che crede nella possibilità di rinnovamento, nel progressismo, contro la stagnazione imposta da un conservatorismo cieco e pigro. Nella morte e nel rischio dell’oblio emergono con forza rinnovata le disparità di classe già attive in vita, cosicché l’ingiustizia accompagna gli umili anche nella morte, conferendo un’ulteriore responsabilità ai posteri. «La guerra sembra lontana, / così l’immagine dell’impiccato, / la sua ombra profonda nella polvere»[14], quando in realtà è molto più vicina e attuale di quanto non si creda, anche in tempo di pace apparente.
La Storia prosegue, coinvolgendo sempre anche quanti da essa sono stati vinti: «Anche nella pace i morti / non hanno tregua, risaliti / dal profondo si stringono le mani / rotte dalla fatica»[15]; e, parimenti, quanti, nati dopo la catastrofe, crescono e si formano alla luce delle ingiustizie conservate e delle violenze perpetrate: «Crescono giovani aspri, amare mandorle / in un tempo d’inferno, di lampi / e sorprese telluriche nell’aria / grigia che illividisce ogni città; / il sangue arde dentro i cuori straziati / dall’unghia del mostro che si torce»[16].
La nuova società italiana
La rilettura della storia italiana diventa un’occasione per una riflessione critica sulla società presente, i cui principali obiettivi polemici sono il clericalismo da un lato e il capitalismo dall’altro: insomma, Roversi combatte ogni esito reazionario della società. Lo sfacelo è occasione di riscossa per chi sa cogliere a proprio vantaggio il corso della Storia, assumendosi le proprie responsabilità, anche se sembra che la tendenza sia diversa, sia volta ai facili piaceri, agli allettamenti della società dei consumi: «Questi son tempi meglio, c’è speranza / di morire da uomini. / Ma la gioventù s’incanaglisce»[17]. Così il trapasso d’epoca assume la forma del conflitto generazionale tra vecchi e giovani, ovvero tra un’Italia ancora rurale, autentica, e un’Italia industriale, nuova, a cui viene passato il testimone della lotta politica, ma anche tra i campi della pianura e le distese del mare: al discorso storico si sovrappongono quello geografico e anche quello sociologico.
La riflessione sulla Storia, infine, diventa anche consapevolezza dell’ineluttabile passare del tempo per le vite individuali, approfondendo il contrasto tra gioventù e vecchiaia. La giovinezza appare duplice, ambigua, in quanto a causa della sua fugacità è passibile di essere perduta, di non essere vissuta veramente, fino in fondo, senza accorgersene: «Perfida, astuta, bella gioventù / gioca col tempo / sparpagliando la sabbia della vita / fra le dita sottili, / le ilari, vane, tristissime voglie / sciupano in parole, / […] / mentre il tempo si spezza / negli ambulacri dei vicoli»[18]. Roversi parla della giovinezza, al netto della sua esperienza durante il Ventennio fascista e attraverso la lotta di liberazione, con un senso di amara nostalgia, confidando nella maturazione delle nuove generazioni, nella loro capacità di rendersi conto del lato negativo della vita, affinché possano vivere con consapevolezza e trovare una propria identità in una società dalle tendenze omologanti, abbandonando le storture di una formazione ancora compromessa con il Ventennio fascista. La giovinezza sincera e scanzonata messa in scena dall’autore trova la sua ambientazione nel paesaggio agreste italiano, in un’epoca ancora preindustriale, su cui inizia a stagliarsi l’ombra del progresso industriale e tecnologico, reso effettivamente operativo in Italia in seguito agli aiuti del Piano Marshall, che determina in parte gli orientamenti politici del secondo dopoguerra.
Per Roversi c’è ancora una speranza nella ricostruzione della vita: « La partita non è perduta, la nostra vita / non è bruciata ancora, annichilita, / disfatta, ramo secco, noce avara / che allappa nella polvere di sasso»[19]; ma con la coscienza che «che quanto è accaduto può ancora accadere»[20], per cui è necessario impegnarsi affinché gli errori del passato non vengano ripetuti. Nonostante «La bomba di Hiroshima / bruciò troncando le ultime parole»[21], Roversi dimostra come sia ancora possibile la poesia e come essa conservi un ruolo fondamentale nella società.
La poesia di Roversi spinge alla responsabilizzazione, all’intervento, lungi da posizioni neutre e indifferenti, poiché è un dovere agire alla luce dei sacrifici e delle pene patite dai trapassati per ottenere un mondo migliore: «Ma quale mondo apparirà / dopo la pena necessaria!»[22]
[1] E. Malato (a cura di), Storia della letteratura italiana. Il Novecento. Il secondo Novecento, Salerno editrice, Roma 2005, p. 1211
[2] M. Giovenale in La poesia fa il libro, introduzione del compendio “Tre poesie e alcune prose”, Luca Sossella Editore, Roma, 2008, p.18
[3] A. Marignani, « Epica e utopia in Dopo Campoformio di Roberto Roversi », Italies, 25, 2021, consultato il 14 aprile 2024: http://journals.openedition.org/italies/9290 ; DOI : https://doi.org/10.4000/italies.9290
[4] F. Camon, Il mestiere di scrittore, Garzanti, Milano 1973, p. 175
[5] Ibid.
[6] R. Roversi, Il tedesco imperatore, vv. 196-197, in R. Roversi, Dopo Campoformio, Einaudi, Torino 1965, p. 14
[7] M. Giovenale in La poesia fa il libro, introduzione del compendio “Tre poesie e alcune prose”, cit., pp. 16-18
[8] R. Roversi, Pianura Padana, vv. 232-234, in R. Roversi, Dopo Campoformio, op. cit., p. 40
[9] Ivi., vv. 274-280, p. 42
[10] R. Roversi, La bomba di Hiroshima, vv. 23-26, in R. Roversi, Dopo Campoformio, op. cit., p. 93
[11] R. Roversi, Il tedesco imperatore, vv. 16-17, in R. Roversi, Dopo Campoformio, op. cit., p. 9
[12] Ivi., v. 100, p. 11
[13] R. Roversi, Una terra, vv. 92-93, in R. Roversi, Dopo Campoformio, op. cit., p. 19
[14] R. Roversi, Il tedesco imperatore, vv. 64-66, in R. Roversi, Dopo Campoformio, op. cit., pp. 10-11
[15] R. Roversi, Una terra, vv. 79-82, in R. Roversi, Dopo Campoformio, op. cit., p. 19
[16] Ivi., vv. 112-117, p. 20
[17] R. Roversi, La raccolta del fieno, vv. 161-163, in R. Roversi, Dopo Campoformio, op. cit., p. 29
[18] R. Roversi, Le lupe dorate, vv. 75-80 e 90-91, in R. Roversi, Dopo Campoformio, op. cit., p. 49
[19] R. Roversi, Il sogno di Costantino, vv. 335-338, in R. Roversi, Dopo Campoformio, op. cit., p. 88
[20] R. Roversi, La bomba di Hiroshima, v. 41, in R. Roversi, Dopo Campoformio, op. cit., p. 94
[21] Ivi., vv. 1-2, p. 93
[22] R. Roversi, Una terra, vv. 120-121, in R. Roversi, Dopo Campoformio, op. cit., p. 20