Donne eccezionali: Medea e il protofemminismo
Chi è Medea?
Medea è una delle figure più emblematiche e complesse del teatro greco del V secolo a.C. Protagonista dell’omonima tragedia messa in scena da Euripide nel 431 a.C., nel sentire comune diventa presto l’emblema della donna tradita e abbandonata dal marito, ma, allo stesso tempo, si rivela una delle prime paladine della questione femminile, dimostrando una profondità psicologica che difficilmente si ritrova in altre figure del teatro euripideo, e classificandosi così come una delle prime eroine del protofemminismo.
Medea e il mito: l’amore folle per Giasone
Innanzitutto, Medea è una straniera, una “barbara”, come venivano definiti i non-greci dai Greci stessi, e questa è la sua prima colpa: in quanto straniera, è naturalmente e socialmente inferiore, subdola e ambigua, tanto più che, secondo la tradizione, è dotata di doti magiche ed esoteriche che negli altri personaggi del dramma accentuano la sensazione (poi sicurezza) di non potersi aspettare altro che male da parte sua. Medea viene dalla Colchide, una regione corrispondente all’attuale Georgia occidentale, nella quale regna suo padre Eeta. È proprio in Colchide che incontra Giasone, eroe greco proveniente da Iolco, che per riappropriarsi del trono della sua città, usurpato dallo zio Pelia, si reca in missione per recuperare il famoso vello d’oro, manto dorato dell’ariete alato Crisomallo, capace di guarire qualsiasi tipo di malattia, di proprietà di Eeta. Medea si innamora disperatamente di Giasone, ed è qui che inizia la sua lenta discesa verso la rovina: pur di aiutarlo, ruba il vello d’oro, uccide il fratellino Absirto, e con l’inganno costringe le figlie di Pelia a uccidere il loro stesso padre. Acasto, figlio di Pelia, bandisce i due da Iolco, costringendoli a rifugiarsi a Corinto, dove regna Creonte. Le vicende narrate nella Medea di Euripide prendono le mosse proprio da qui: la vita di Medea e Giasone, ora sposati e con due figli, viene sconvolta quando all’eroe viene proposto di sposare la figlia di Creonte, Glauce, avendo così la possibilità di assicurarsi una posizione di assoluta importanza all’interno della polis greca. Giasone, ignorando quanto la moglie abbia fatto in nome dell’amore che prova per lui, non si fa troppi problemi ad accettare: sposerà Glauce, perciò Medea dovrà andarsene da Corinto, abbandonando il ruolo di consorte e di madre.
Una moglie e una donna
La figura di Medea, fin qui analizzata, non sembra presentare grandi differenze rispetto alle miriadi di donne tradite e abbandonate dall’uomo che amavano presenti nella tradizione antica : nell’Eneide la regina Didone, dopo essersi dimostrata ciecamente fedele e disposta a tutto per il suo Enea, viene abbandonata dal giovane troiano; l’eroina Arianna, dopo aver aiutato l’amato Teseo a superare la prova del labirinto del Minotauro, viene lasciata a Nasso dall’eroe; nell’Alcesti di Euripide la protagonista si offre di morire al posto del proprio marito, il quale non finge nemmeno di respingere la proposta della moglie, anzi, l’accetta di buon grado, ringraziandola con poco più di una pacca sulla spalla. In cosa, dunque, Medea differisce da tutte queste donne sfortunate? Perché possiamo dire che Medea sia una donna eccezionale? La risposta ci viene fornita dalla tragedia stessa, che ci mostra come Medea non si arrenda passivamente al ruolo di moglie tradita, ma, anzi, raccolga tutto il suo orgoglio di donna ferita: dopo aver trascorso i primi atti del dramma chiusa nel palazzo, a crogiolarsi nel proprio dolore e a maledire la propria sorte (” Giace senza cibo, abbandona il corpo ai dolori, consuma tutto il tempo nelle lacrime…”dice di lei la nutrice all’inizio del dramma) , Medea entra in scena, abbandona il ruolo di moglie tradita e riveste quello di donna, recitando un monologo che costituisce uno dei primi esempi di riflessione critica sul ruolo della donna nella società.
“Fra tutti quanti siano dotati di intelletto e abbiano volontà, noi donne siamo la creatura più sfortunata: innanzitutto, con grande dispendio di denaro dobbiamo comprarci uno sposo e un padrone del nostro corpo; infatti questo è un male ancora più doloroso dell’altro. E in questo potrebbe esserci un rischio più grande, (rischiare) di prenderlo buono o cattivo: infatti per noi donne le separazioni non sono onorevoli e non è possibile ripudiare lo sposo. Giunta ormai (qui a Corinto) con nuove tradizioni e leggi, bisognava che fossi un’indovina (per sapere) ,non avendolo appreso a casa, con che razza di compagno avrei avuto a che fare. E se il marito convive bene con noi, che nel mentre ci facciamo in quattro , non imponendoci il giogo con la violenza, la vita risulta davvero invidiabile; ma se questo non accade , è meglio morire. Un uomo, qualora provi fastidio nel convivere con i famigliari , andandosene fuori, solleva il cuore dalla noia [rivolgendosi o ad un amico o a qualche coetaneo ]: per noi, invece, è obbligatorio rivolgersi ad una sola persona (nostro marito).
Euripide, “Medea”, vv 230-249, trad.nostra.
La Medea che emerge da queste parole non è la donna ferita e succube del proprio dolore che troviamo all’inizio della tragedia: Medea è donna, una donna eccezionale, che con pacatezza e forza dialettica conduce una rivoluzionaria analisi della figura femminile del suo tempo, ribaltando i tradizionali pregiudizi che vedevano la donna come ”figura sullo sfondo”, destinata a una vita tranquilla in casa, lontano dalle armi e dai campi di battaglia. Medea, insomma, torna padrona dei propri pensieri, della propria lucidità e soprattutto della propria fisicità: una volta entrata, non uscirà più di scena, fatto estremamente raro nel teatro greco, per le cui regole il protagonista non era presente in scena per tutto il dramma, ma solo in determinati momenti. Ora che Medea è tornata padrona di sé, decide di riappropriarsi anche dello spazio scenico, rappresentato dall’esterno del palazzo, luogo solitamente deputato alla vita civile e politica, di appannaggio dell’uomo: la maga – barbara lascia il posto all’eroina, consapevole della propria condizione e di quella di tutte le donne, imponendosi con quella fierezza che manca a quel vile di suo marito, capace di barattare persino la propria famiglia pur di iniziare la propria scalata al potere.
Una madre non madre
Nel corso del monologo, Medea non si limita ad abbandonare il proprio ruolo di moglie e donna ferita, per assumere quello di paladina della questione femminile, ma lascia progressivamente anche il ruolo di madre.
Poi dicono che noi viviamo una vita prova di pericolo, dentro le case, mentre loro combattono con le armi , ma hanno torto: preferirei stare tre volte vicina ad uno scudo, piuttosto che partorire una sola volta.
Euripide, Medea, vv 250-251, trad. nostra.
Le parole di Medea sono cariche di significato: la tragedia greca vive di eventi estremamente tragici, uccisioni di padri, di madri, di fratelli e di zii, ma non c’è nulla che faccia più accapponare la pelle di una madre che si pente di essere madre. Nell’antica Grecia, la maternità era strettamente legata alla figura femminile, quasi inscindibile: per essere donna, dovevi essere madre, e diventare madre, per quanto doloroso, era la cosa più bella che potesse capitare nella vita. Per Medea non è così: perso Giasone e persa la propria levatura sociale, i figli non servono più a nulla, anzi, la loro presenza continua a ricordarle cosa ormai non ha più e cosa ancora la lega all’uomo che l’ha tradita e abbandonata. Ormai consapevole del proprio ruolo di donna e di madre- non madre, Medea mette in atto la propria vendetta: fingendo di essersi ormai arresa all’inevitabile destino che la attende, incarica i figlioletti di portare a Glauce una corona e una tunica, doni di pace, che presto si riveleranno avvelenati, condannando la giovane a morire dilaniata da tremendi dolori. La stessa tragica fine toccherà a Creonte, il quale, giunto in soccorso alla figlia, non potrà evitare di essere praticamente corroso dal terribile veleno di cui sono intrisi i regali della maga di Iolco. Ma Medea non si ferma qui, sente che annientare il futuro sociale e politico del marito non è abbastanza; per causargli la peggiore delle sofferenze deve annientare anche il futuro della sua stirpe: i bambini devono morire.
La tragedia diventa noir: l’io scisso e l’omicidio
Leggendo l’intera tragedia, non si può che rabbrividire nel notare come la possibilità che Medea uccida i propri figli incomba in quasi ogni scena : fin dall’inizio la nutrice dichiara che Medea “… odia i figli, né si rallegra a vederli…” e ammette di temere che lei “possa meditare qualcosa di sinistro” (vv 35-36); inoltre, è la nutrice stessa a chiedere al pedagogo di tenere “…in disparte i bambini e non lasciarli avvicinare alla madre esasperata…”, perché già l’aveva vista “… lanciare uno sguardo feroce su di loro, come se meditasse di fare qualcosa” (vv 90-93). Persino Giasone, per quanto disinteressato a qualsiasi cosa la moglie dica o faccia, nota come l’atteggiamento di Medea sia fin troppo bizzarro: guarda i bambini e non può fare a meno di piangere, nonostante lui le abbia detto a più riprese che si prenderà cura di loro. “Sono io che li ho partoriti“, si giustifica lei, fingendosi una madre addolorata per l’imminente separazione dai figli. La verità, però, è che Medea piange perché sa che presto i piccoli moriranno, e a ucciderli sarà proprio lei che li ha partoriti. La tragedia di Euripide si configura così come un perfetto romanzo noir: per tutto il dramma lo spettatore – lettore ha il sentore che qualcosa di terribile possa accadere ai bambini, e questo diventa un pensiero sempre più costante, angosciante, e che con lo svolgersi del dramma lo porterà a chiedersi non più se Medea voglia uccidere i propri figli, ma quando Medea li ucciderà. Questa climax di attesa si risolve con la scena clue del dramma, che non consiste tanto nell’infanticidio in sé (i cui versi, per altro, ci sono giunti mutili e piuttosto confusionari), ma nel flusso di coscienza che Medea mette in atto nel momento in cui sta per agire. Si assiste, infatti, alla drammatica battaglia interiore di uno dei personaggi più complessi della tragedia euripidea, scisso tra ciò che è razionalmente giusto fare, e ciò che il proprio orgoglio ferito richiede che venga fatto.
Ahimè, ahimè! Perché mi guardate con (quegli) occhi, figli? Perché mi sorridete con l’ultimo dei vostri sorrisi? Ahimè, che devo fare? Infatti, donne, mi si scioglie il cuore, come vedo lo sguardo sereno dei miei figli. No, non potrei mai. Addio decisioni di prima: condurrò i bambini via da questa terra. Perché mai, volendo affliggere il padre con i mali di questi, io stessa devo patire mali due volte tanto grandi ? Non di certo: addio decisioni di prima. Ma che mi succede? Voglio attirarmi le risate, lasciando i miei nemici impuniti? Che viltà: (è segno) della mia viltà anche (solo) l’accettare tenere parole nel cuore. Entrate in casa, bambini […] In ogni caso, bisogna che loro muoiano: e poiché bisogna che sia io, che li ho partoriti, ad ucciderli, queste cose sono ormai decise e non cambieranno. […] voglio parlare ai bambini: date, bambini, date alla mamma la mano destra, cosicché io possa baciarla. Oh dolcissima mano, oh labbra per me dolcissime, oh figura e volto nobile dei miei bambini. Siate felici, ma laggiù (nel mondo dei morti) : le cose qui le ha mandate in rovina vostro padre: oh dolce abbraccio, morbida pelle e dolcissimo respiro dei miei bambini! Andate, andate: non riesco più a guardare verso di voi, ma sono sopraffatta dai mali. E capisco quali mali sto per sostenere, ma il mio orgoglio è più forte delle mie decisioni cosa che è un enorme male per i mortali.
Euripide, Medea, vv. 1040-1053; 1062-1064; 1069-1080. Trad. nostra
É in questo monologo che emergono la drammaticità e la complessità del personaggio euripideo. In un primo momento, infatti, Medea sembra recuperare quella dimensione materna a cui aveva rinunciato pochi versi prima: come può reggere lo sguardo innocente e il sorriso dolce dei propri piccoli, mentre si avvia a ucciderli? Ed ecco i ripensamenti, ecco che l’idea dell’infanticidio, prima data per certa, si trasforma in un fantasma lontano, in una delle tante frasi cattive che le mamme dicono quando si arrabbiano, ma che non pensano davvero. D’un tratto, però, quasi si risvegliasse da un sogno, Medea si riappropria della propria lucidità mentale, e, messi da parte i sentimentalismi, torna al cinismo che le è proprio: ” Bisogna che loro muoiano”, sentenzia con lapidaria fermezza, perché, ora che Giasone l’ha lasciata, la loro esistenza non le porta alcun più vantaggio, anzi, le ricorda costantemente che i suoi nemici ridono di lei e delle sue sventure. Medea non è Didone, che, abbandonata da Enea, si suicida; non è nemmeno Arianna, che si dispera dopo la fuga dell’amato Teseo; o Alcesti, pronta ad assecondare la volontà di un marito egoista e codardo. Medea è una donna eccezionale, ha ben presente l’entità morale di ciò che sta per compiere, l’omicidio dei figli, uno dei reati più abominevoli che la letteratura antica conosca, ma il suo ”… orgoglio è più forte delle (sue) decisioni”. Un ultimo sguardo ai piccoli, per quanto doloroso, non serve a frenare la sete di vendetta: per colpa del padre, l’unico posto in cui essi potranno essere felici sarà il regno dei morti.
Medea e la modernità: una tragedia ancora attuale
Una delle caratteristiche più interessanti del teatro greco risiede nel fatto che i valori e i temi da esso proposti abbiano carattere universale e, per questo motivo, estremamente attuale. Lo sa bene Giuseppe Zanetto, professore dell’Università degli Studi di Milano, che nel libro Miti di ieri storie di oggi. La tragedia greca racconta le passioni e il destino del nostro mondo (Feltrinelli, 2020) scrive che:
La tragedia è facile, ma non banale; è pop, ma non superficiale né frivola. Usa il linguaggio del mito, che è un linguaggio forte e semplificato, per affrontare i temi del vivere: temi universali, che sono presenti in tutte le culture ed epoche. Queste sono le ragioni per cui la tragedia greca è attuale. Ancor oggi può essere un punto di riferimento: se la conosciamo e la frequentiamo, possiamo capire meglio noi stessi e il nostro mondo
Zanetto G., Miti di ieri storie di oggi. La tragedia greca racconta le passioni e il destino del nostro mondo, Feltrinelli, Milano,
2020.
In questo senso, sono stati trovati nella tragedia euripidea i semi, poi destinati a germogliare nei secoli successivi, di alcuni dei temi particolarmente cari alla questione femminile odierna: Medea, con la rivendicazione del proprio ruolo di madre e di madre-non madre, unica e sola ad avere diritto di vita e di morte sui propri figli, in quanto unica e sola ad averli portati in grembo e ad aver sofferto i dolori del parto, diventa la paladina della libertà di scegliere l’aborto, facoltà che ancora oggi è oggetto di numerosi dibattiti. È poi difficile negare l’attualità del binomio madre-non madre: essere madri porta sempre e comunque alla felicità? Ci si può pentire di essere madri? Secondo la sociologa israeliana Orna Donath, sì, come racconta nel libro Pentirsi di essere madri ( Bollati Beringhieri, 2017), dove espone casi di donne da lei intervistate che, ad un certo punto, si sono rese conto di essersi pentite della propria maternità. La verità che ne emerge è che mettere al mondo figli non è un un’inclinazione naturale a cui tendono tutte le donne, è una scelta, e come tale, può anche rivelarsi una scelta sbagliata, un errore di cui ci si pente, così doloroso da rimpiangere di averlo commesso, come nel caso di Medea. Alla luce di ciò, la maga di Iolco, vissuta nella fantasia e nell’opera di Euripide molti secoli fa, sorprende per la modernità che la caratterizza; lei che, oltre ad essere orgogliosamente e prepotentemente donna, è anche, e soprattutto, una donna eccezionale.
Bibliografia
Euripide, Medea, traduzione di Ester Cerbo, Milano, Bur Rizzoli, 2018.
Zanetto G., Miti di ieri storie di oggi. La tragedia greca racconta le passioni e il destino del nostro mondo, Feltrinelli, Milano, 2020.
Sitografia