Psicologia del distanziamento sociale: la sfida di una nuova vita collaterale
Abbandonando ogni falsa speranza possiamo dire che la crisi provocata dal covid-19 ha assunto fin da subito un carattere totalizzante. Oltre ad influire in campo biologico ed economico, ha immancabilmente scosso l’intera civiltà mondiale, senza sconti. L’arrivo della pandemia in Italia si è così riversato come una tempesta improvvisa su di una società sprovvista di ombrello e sul singolo individuo ancora più disarmato. L’unica soluzione? Il distanziamento sociale.
Quarantena: dalla normalità alla paralisi del tempo
Abbiamo trascorso quasi due mesi confinati tra le mura domestiche, giorni in cui la richiesta al cambiamento dello stile di vita è stata esigente e radicale. Al distacco drastico dallo scorrere della normalità è seguita la paralisi dei giorni di quarantena. La frenesia della società contemporanea è stata bruscamente interrotta dall’unico modo che avevamo per fronteggiare l’imprevedibile: l’immobilità dell’isolamento, il distanziamento sociale.
La segregazione in casa ci ha colto spaesati nel sostenere le lacune di un tempo completamente libero, svincolato dai ritmi della routine. A contatto con il movimento dello statico, la deregolamentazione delle ventiquattr’ore ci sfida a confrontarci con la pagina bianca del tempo vuoto. Non sono più il lavoro o gli impegni a farlo ma la nuova consuetudine pretende una propria classificazione scansionata dei momenti a cui dar forma e senso.
Concettualizzazione ed impatto psicologico del distanziamento sociale
La mancanza di gradualità nel passaggio al lockdown ha prodotto difficoltà a razionalizzare l’emergenza nel concepirne le cause di forza maggiore. L’impossibilità di interiorizzare adeguatamente i requisiti della nuova condizione ha favorito la nascita di una sensazione di estraniazione dal fenomeno e, a sua volta, un substrato di confusione.
La ricercatrice Rima Styra ha rilevato come chiarezza, affidabilità e coerenza delle informazioni rispetto alla malattia influenzi il nostro modo di concepirla e realizzarla. In una situazione senza precedenti, in cui le notizie non sono sempre state esaustive e fedeli tra loro, l’aumento della percezione del pericolo ha inevitabilmente collimato con una sempre più intensa risposta di allerta dell’individuo. Analogamente, l’incursione in disagi psicologici viene considerata reazione naturale ad un evento straordinario.
Una recente rassegna di ricerche pubblicata su “The Lancet” ha dimostrato come la reclusione della quarantena sia spesso associata a disturbi emotivi e dell’umore, depressione, irritabilità, insonnia e sintomi post-traumatici da stress e come questi possano perdurare una volta conclusa la quarantena. Gli studi posteriori ai periodi di quarantena dovuti alla SARS evidenziano un 29% di popolazione affetta da disturbo post-traumatico da stress e un 31% con sintomi depressivi invalidanti a seguito dell’isolamento (Brooks et al., 2020).
L’impreparazione di un uomo auto-centrato
A tutto questo, inutile negarlo, non eravamo preparati, nessuno di noi lo era. Chi mai avrebbe immaginato che una pandemia globale diventasse l’emblema dei nostri giorni? È vero, probabilmente l’arrivo di un virus ad elevato contagio non rientrava nelle stime degli eventi altamente possibili, ma avremmo mai lontanamente considerato il rischio che ciò potesse accadere? Cosa ci ha insegnato la storia?
«La prima lezione della storia è che non impariamo lezioni dalla storia, che siamo ciechi a ciò che ci ha insegnato»
Edgar Morin, Avvenire.it
Abbiamo sottovalutato il rischio del Covid-19 assecondando una convinzione presuntuosa ed illusoria di superiorità rispetto al potere che la natura può esercitare sull’uomo. L’esser parte di una società all’avanguardia ed opulenta, di una cultura civilizzata e tesa al progresso dalla quale riceviamo una assistenza costante, ci ha fornito la falsa credenza di esser immuni ed esenti dai possibili mali con cui il passato ha travolto l’uomo. Non siamo pronti a tutto, il fatto di non averlo compreso conferisce al pensiero contemporaneo del cittadino medio una connotazione quasi a-storica come fosse estraneo al proprio passato.
L’alienazione, però, non emerge solo rispetto agli accaduti precedenti, ma sembra manifestarsi anche rispetto alle condizioni di tutti quei paesi che, aldilà dello straordinario, vivono decisamente peggio di noi. Mi riferisco alle guerre nei paesi arabi, alle malattie dell’Africa, alla povertà dei più sfortunati e via dicendo. Saremo sufficientemente abili a gestire situazioni del genere? Al Covid-19 non eravamo pronti ed ora ne stiamo pagando i danni.
Questo è il ritratto di un uomo ciecamente auto-centrato, che non si cura di chi l’ha preceduto e di chi, diversamente da lui, vive con lui lo stesso presente.
Come abbiamo affrontato l’arrivo del Covid-19
L’iniziale risposta di reazione-resistenza di fronte alla notizia del visus, per la quale era impensabile che una pandemia arrivasse a riguardarci in prima persona, pone le basi in una tendenza innata all’ottimismo. L’economista Tim Harford in un editoriale pubblicato del Financial Times afferma:
«Le persone tendono a essere irragionevolmente ottimiste circa le loro possibilità di essere vittime di un crimine, un incidente d’auto o una malattia».
La ricerca di Robert Meyer, esposta in The Ostrich Paradox, mostra tale effetto nell’avanzata dell’uragano Sandy (2012). Gli abitanti delle coste, consapevoli dei rischi della tempesta, erano rilassati, sicuri che sarebbero state altre persone a soffrire.
Ma dopo un primo momento di incoscienza affrontato con l’indolenza di un malcelato disinteresse, insieme alla consapevolezza, è arrivata la paura. Da questo momento al contagio virale si è unito un altro tipo di contagio: quello emotivo. La paura, emozione primaria dominata dell’istinto al fine della sopravvivenza del soggetto in situazione di pericolo, si tramutò in panico, un’emozione disfunzionale ed invalidante in cui l’elevata tensione ostacola un’adeguata organizzazione del pensiero e dell’azione (Galimberti).
A quel punto l’inverosimile stava già agendo su di noi come una falce fa con il grano. Non ci restava che chiuderci in casa ed eliminare i rapporti sociali, la fonte del contagio; giocare in difesa perché sprovvisti di armi.
La sfida del distanziamento sociale
Ciò che più richiede la presenza di un virus ad alto tasso di contagio è anche la condizione che mette maggiormente l’uomo alla prova: esser indipendenti, o meglio, autosufficienti. Ad aggravare la situazione altamente stressogena di quei giorni si aggiunse il fatto che ad affrontarla eravamo soli in quanto isolati socialmente. La solitudine si rese specchio di fragilità, timori e debolezze.
Nell’interruzione di ogni rapporto fattuale l’uomo è andato incontro ad una vera e propria smaterializzazione degli affetti. Scomparve la fisicità e la comunicazione telematica escluse la percezione della concretezza in ogni interazione. Lontani da tutti i punti di riferimento con cui precedentemente eravamo in contatto, dalle abitudini alle relazioni interpersonali, l’unica dimensione da cui poter attingere è diventata la distanza.
Sono questi i momenti in cui gli individui fanno gli sforzi più intensi per conservare il senso della continuità e mantenere la propria struttura identitaria integra, nonostante la privazione degli elementi che andavano a definirla. La nuova esperienza delle misure restrittive imposte dal distanziamento sociale viene, dunque, percepita come qualcosa di innaturale, che va contro la natura stessa dell’uomo in quanto animale sociale.
È così che Aristotele definì l’essere umano, poiché capace di unirsi per costituire un insieme organizzato di individui che è, appunto, la società. Anche se nella sua indole alberga un istinto primitivo di individualismo l’uomo è un essere sociale perché è la socialità l’unica condizione che gli permette di esprimersi in quanto umano e mosso dal bisogno di sentirsi parte del gruppo dei simili.
La nuova vita collaterale
Ora, però, la vicinanza diventa la nuova condizione negativa, il pericolo. Per il bene di noi stessi e degli altri dobbiamo stare lontani quando invece il concetto stesso del soccorso è accorrere, stare vicini. Sta nel distanziamento sociale il ribaltamento del diritto naturale umano. Il paradosso del nostro prossimo futuro che, almeno fino all’ottenimento di un vaccino, ci vedrà coltivare la sfera dei rapporti, la più fragile, ancora a distanza.
Dovremo adattarci ad una nuova vita collaterale in quanto privata della proprietà principale dell’esistenza umana: la socialità. Una vita che esiste al di fuori del suo ecosistema naturale.
Non sarà né semplice né immediato, non si tratterà solamente di un cambio di abitudini ma di un’evoluzione consistente a livello di percezione del valore della vita, della sua caducità. Dovremo ristabilire un nuovo equilibrio il che vuol dire adottare nuove azioni, che deriveranno da nuovi principi e quindi da un nuovo tipo di pensiero. Ma un pensiero non è mai solo un pensiero: è una rappresentazione mentale, cognitiva e quindi ha anche una fisiologia, segue dei percorsi neurali.
Ogni pensiero si contestualizza con l’ambiente in cui si crea, da questo prende i contenuti e li modella. Nascerà così gradualmente un nuovo sistema interpretativo ed evolutivo della realtà che stiamo iniziando a percepire.
Credits:
Chiara Militello
Per l’opera Apatia – collage analogico
Apatia. Fermarsi, concedersi del tempo e dello spazio per osservare ed ascoltare quello che abbiamo da dirci. E’ essenziale prendersi questi momenti per conoscersi, eppure a volte si arriva a non sentire più nulla. Soli con il proprio corpo, inermi davanti a sé.
Chiara Militello, in arte Milc, è una studentessa di psicologia clinica e di arteterapia. Scopre il collage per caso e nel tempo questa tecnica diventa la sua seconda lingua, quella più sensibile e profonda, un modo per conoscersi e raccontarsi.
Instagram: @milc.ollage
Facebook: Milc
Bibliografia
Brooks, S. K., Webster, R. K., Smith, L. E., Woodland, L., Wessely, S., Greenberg, N., & Rubin, G. J. (2020). The psychological impact of quarantine and how to reduce it: Rapid review of the evidence. The Lancet, 395(10227), 912–920. https://doi.org/10.1016/S0140-6736(20)30460-8
Sitografia
https://it.wikipedia.org/wiki/Paura
https://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(20)30460-8/fulltext
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3323345/
https://www.avvenire.it/agora/pagine/per-luomo-tempo-di-ritrovare-se-stesso
https://www.ft.com/content/74e5f04a-7df1-11ea-82f6-150830b3b99a
ABSTRACT
“Andrà tutto bene”, “Io resto a casa”. Slogan simbolici di quel che è stata la grande interruzione dei nostri tempi suddivisa in ondate. La paralisi dei giorni di quarantena prese bruscamente il posto del consueto scorrere delle nostre vite sottoponendo ognuno di noi a reinventare quei momenti vuoti a cui dar forma e senso. L’unico modo che avevamo per fronteggiare l’imprevedibile era l’immobilità dell’isolamento. Il male a cui stavamo sfuggendo si riversò sotto altre spoglie. Confusione, mancanza di certezze, sentimenti di estraneazione verso quel che stava succedendo portarono ansia, stress, disturbi dell’umore, depressivi e sintomi post-traumatici da stress. Il distanziamento sociale si è posto non solo come regola ma come emblema di una nuova vita collaterale in quanto priva della proprietà principale dell’esistenza umana: la socialità.