“Di notte tutto è silenzio a Teheran” di Shida Bazyar – Premio Strega Europeo 2024
Un articolo di Francesca Manzoni
“Se un giorno incontrerò la morte, cosa che sicuramente succederà, non è così importante. A essere importante è solo quale influenza la mia via o la mia morte avranno sulla vita degli altri,”.
All’interno della rosa finalista del Premio Strega Europeo 2024 trova spazio la voce di Shida Bazyar, un’autrice tedesca, classe 1988, che nei suoi lavori di giornalista ed attivista politica racconta la storia di un popolo, quello iraniano, utilizzando come arma comunicativa non solo la sua voce, ma anche quella dei suoi genitori, esuli in Germania a seguito della rivoluzione che nel 1979 ha attraversato l’Iran.
Di notte tutto è silenzio a Teheran (Fandago Libri, 2023) secondo romanzo dell’autrice, vuole raccontare la storia dell’Iran, a partire dal 1979, arrivando fino alla nostra contemporaneità. Come espediente narrativo viene utilizzata la storia di una famiglia, composta da Bershad e Nahid, i genitori, e i loro tre figli, Laleh, Morad, e Tara. Ad ognuna delle voci dei personaggi è affidato il compito di raccontare, attraverso il loro punto di vista, non solo un determinato periodo storico, ma anche un contesto sociale in continuo mutamento, percepito con sfumature e intenzioni diverse a seconda della generazione che prende parola nel corso della narrazione. Il risultato è la creazione di un romanzo polifonico, che, sapientemente, porta il lettore ad entrare in contatto con un mondo, con una società e con una cultura cresciuta nella guerra e nella sofferenza: tale operazione non viene però eseguita imponendo un punto di vista univoco e immutabile, ma attraverso l’utilizzo di sguardi differenti, in grado di rapportarsi all’attualità in modalità non solo eterogenee ma talvolta addirittura antitetiche.
La storia della società iraniana diventa così uno sfondo imprescindibile per documentare come la rivoluzione del 1979 abbia lasciato cicatrici indelebili non solo in coloro che l’hanno vissuta attivamente, vedendo amici e compagni morire in nome di un ideale di libertà e dovendo, di conseguenza, abbandonare la propria patria per non subire la medesima sorte, ma anche nelle generazioni successive, fatte di figli esuli, lontani da una terra che, giorno dopo giorno è destinata a diventare sempre più distante e sempre meno “casa”.
Il racconto della rivoluzione: la voce di Behsad, 1979.
La narrazione si dipana a partire dal racconto di Behsad, giovane professore che, tra il 1978 e il 1979, si trova a militare all’interno di quelle forze di opposizione che miravano a sovvertire il regime oppressivo dello scià Mohammad Reza Pahlavi. La sua testimonianza si apre nel vivo di quelle proteste di massa che, in una prima fase del conflitto, avevan unito forze religiose (i mujaheddin islamici) e liberali (i cosiddetti “volontari del popolo”): Behsad, facente parte della seconda fazione, vive la rivoluzione con un profondo spirito di libertà e uguaglianza, mosso da ideali profondamente democratici e convinto che ciò che sta vivendo, come parte attiva della storia, sia l’inizio di un grande cambiamento, che non vedrà coinvolta solo la sua generazione, ma porterà benefici e benessere anche a quelle successive.
“E penso che è passato solo un mese, un mese in questa casa e nei terreni circostanti, e anche se avevamo armi in mano, siamo rimasti di nuovo comunque seduti a parlare, mentre nel resto del paese, eccetto che nelle zone per cui abbiamo combattuto, la propaganda del sistema religioso è diventata la normalità e noi un nuovo nemico”
Ad un primo momento euforico, si sussegue però un lento, ma costante, processo di disillusione: la rivoluzione non ha fatto altro che sostituire un regime oppressivo con una repubblica islamica dai connotati affini. I gruppi di ispirazione politica vengono velocemente esautorati, e il controllo della rivoluzione, e del nuovo governo, rimane concentrato solo nelle mani del clero sciita. La figura dell’Ayatollah, Ruhollah Khomeyni, tende, progressivamente a sostituirsi a quella dello scià, costringendo i giovani rivoluzionari laici ad una militanza clandestina: la vita di Behsad diventa quella di un fuggitivo, costretto, giorno dopo giorno, a rischiare la sua stessa vita in nome di un ideale, un tempo ritenuto concreto e realizzabile, ma in poco tempo mutato in una sentenza di morte. Il suo racconto e la sua voce si spegne nel vivo della clandestinità, quando, nel corso di una delle numerose riunioni della resistenza, conosce una giovane rivoluzionaria, Nahid, di cui si innamora.
La vita da esuli politici: la voce di Nahid, 1989.
La seconda voce narrante prende la parola solo dieci anni dopo, in un tempo e in uno spazio lontano da quello della rivoluzione. Ecco che, dopo aver conosciuto l’Iran attraverso sguardo di Behsad, il lettore ascolta la voce di sua moglie Nahid: anche lei è stata una giovane rivoluzionaria, costretta però a fuggire, col marito e con due figli ancora piccoli, dalla sua casa natale, da quella Teheran incapace di accogliere le istanze democratiche volute dai rivoluzionari laici. La donna si trova così a vivere la vita di una rifugiata politica in terra straniera: la Germania del 1989 è la città che la accoglie, in cui è obbligata a costruirsi una nuova vita, in cui deve crescere figli sradicati da quella terra appartenuta ai loro avi.
Nahid racconta allo spettatore il punto di vista di una donna cresciuta in un contesto socio-culture differente da quello in cui è costretta a vivere: sono gli anni della riunificazione tedesca, della caduta del muro di Berlino e della creazione di una repubblica democratica. Sono fatti storici di grande importanza per il mondo occidentale, destinati a rendere ancora più complesso, per la giovane donna, vedere concretizzati i propri ideali in una terra straniera, mentre a Teheran, il contesto politico che l’ha resa esule, rimane, sostanzialmente, immutato.
La voce di Nahid fornisce al lettore uno sguardo che spazia dalla non accettazione della propria condizione, dalla visione della Germania come una “meta provvisoria e transitoria” destinata a configurarsi come una breve parentesi, prima del ritorno a casa, a momenti di viva rassegnazione e nostalgia, nei confronti di una terra irrimediabilmente abbandonata senza un esplicito consenso. Vengono così messe in luce, attraverso un punto di vista femminile e materno, tutte le difficoltà che accompagnano un processo di integrazione, dalla conoscenza di una nuova lingua, all’inserimento in una società diversa, per usi e costumi, alla difficoltà nel vedere i propri figli crescere e sposare una cultura nuova e, soprattutto, dall’impossibilità di adempiere a tutti quei compiti che, canonicamente, sono a carico dei genitori (insegnare ai propri figli la lingua e la cultura, aiutarli con i compiti scolastici e presenziare ai colloqui con gli insegnanti). Sulle note di queste difficolta, anche il racconto di Nahid si spegne, lasciando spazio alla voce di Laleh, la figlia maggiore.
Cronache di un viaggio a Teheran: la voce di Laleh, 1999.
“Di notte tutto è silenzio a Teheran. Durante il giorno c’è tanto rumore. Sono così rumorose le persone dentro casa, così rumorosa la loro voce, se riguarda cose poco importanti, così rumorosa la loro rabbia, se riguarda cose importanti. Così rumorosa la loro risata, le loro grida, così rumorose le loro frasi di cortesia che buttano fuori come fosse respiro. Così rumorosa la loro presenza come un corpo avvolto di stoffa in uno spazio sicuro, così rumoroso lo sbattere delle stoviglie, mentre cucinano, mangiano, mentre bevono il tè, uno sbattere secco e argentino”.
Ecco che il punto di vista materno, espressione di tutte le difficoltà legate all’integrazione di un rifugiato politico, cede il posto alla voce di Laleh, la figlia maggiore, che ha vissuto la rivoluzione del 1979 e le sue conseguenze non come organismo senziente, come parte attiva del movimento, ma attraverso il velo dell’infanzia, capace di edulcorare il dolore e la sofferenza provata dai genitori. In lei è viva la memoria di Teheran, ricorda i volti degli amici d’infanzia e l’amore ricevuto dai parenti rimasti in patria. La sua vita però ha precocemente preso una direzione differente: la sua formazione culturale e sociale si è svolta in Germania, una città in cui non solo è cresciuta, ma è riuscita anche ad integrarsi, come parte attiva di una comunità.
Il suo racconto sposta la narrazione in avanti di altri dieci anni, nel 1999, quando la ragazza parte per un viaggio a Teheran, insieme alla madre e alla sorella minore Tara. Attraverso le sue parole il lettore viene a contatto con la società iraniana a cavallo degli anni 2000, quando, a seguito della chiusura del quotidiano riformista “Salam” e l’approvazione di un decreto atto ad ostacolare la libertà di stampa, nelle strade della capitale migliaia di studenti (coetanei della giovane Laleh) si trovano, ancora una volta, a contestare i soprusi perpetuati dalla repubblica islamica. La rivolta, soppressa nel sangue, portò migliaia di giovani ad essere incarcerati, e per quattro studenti, fu decretata la pena di morte.
Questo determinato periodo storico viene letto attraverso lo sguardo di una giovane ragazza che, tornando a Teheran per visitare la famiglia, fatica a ritrovarsi in quelle radici che legano la sua famiglia ad una terra natale divenuta estranea. La narrazione è strutturata quasi come un flusso di coscienza, che vede, in una dinamica estremamente spontanea, messe a confronto le due culture, quasi a volerne marcare esplicitamente le profonde differenze. Laleh percepisce costantemente la distanza tra questi due mondi e in ogni occasione sociale o momento di solitudine la sua mente non può far altro che tornare in Germania, alla sua vita, ai suoi amici e a tutta una serie di piccole libertà che fino a quel momento aveva dato per scontato.
Il terzo capitolo segna così, nella costruzione del romanzo, una profonda cesura, tra lo sguardo dei genitori (utilizzato nei primi due capitoli), che non smettono mai di attribuire a Teheran il significato della parola “casa” e la voce dei primi due figli, Laleh e Morad, che, pur essendo coscienti delle loro origini, possono solo muoversi nella terra natale dei loro avi con affettuoso distacco. La natura di questi giovani esuli è profondamente ibrida, un connubio tra la storia e la cultura iraniana, trasmessa a loro dai genitori, e quella trovata in Germania, terra in cui i ragazzi si sono formati, diventando uomini e donne.
La rivoluzione attraverso uno schermo: la voce di Morad, 2009.
Sempre mantenendo costante lo schema narrativo utilizzato in precedenza, ecco che il racconto procede con un ulteriore salto temporale: a raccontare le protese post-elettorali del 2009 in Iran è Morad, figlio di mezzo divenuto studente universitario in Germania. A seguito della rielezione del presidente Mahmud Ahmadinejad, in tutto l’Iran iniziano a riunirsi gruppi sempre più ingenti di protestanti, che denunciano presunti brogli elettorali, rivendicando la vittoria del candidato moderato Mir-Hosein Musavi. Le manifestazioni diventano sempre più numerose, attirando, grazie all’avvento di internet, l’attenzione della comunità internazionale: la dura repressione, che ha visto centinaia di morti e feriti, oltre che numerose condanne a morte, non provoca più solo lo sdegno di chi vive in Iran, ma coinvolge anche l’occidente, che, grazie a Youtube, a Facebook e all’avvento dell’era digitale può toccare con mano la sofferenza di un popolo oppresso.
Morad si trova in Germania, lontano dall’Iran, e ogni notte sogna di partecipare alle manifestazioni che infiammano Teheran, seguendo le orme percorse dal padre trent’anni prima. La rivoluzione del 2009 è un grido di speranza, accolto da tutti coloro che sono esuli e sprerano di poter tornare, un giorno, a vivere in libertà nella loro terra natale. Questo spirito rivoluzionario si scontra però con la realtà in cui il giovane uomo si trova a vivere: ritorna, con straordinario pragmatismo, il paragone tra la popolazione tedesca e quella iraniana, con una netta svalutazione della prima a favore della seconda. Le ribellioni dei giovani universitari tedeschi, che occupano le università per l’abolizione delle tasse studentesche, sembrano perdere valore agli occhi di Morad, che, giorno dopo giorno, legge sui giornali e guarda su YouTube video di giovani studenti uniti, compatti, e disposti a sacrificare la loro stessa vita in nome di una libertà che nella Germania in cui vive viene troppo spesso data per scontata.
Anche in questo caso risulta interessante l’analisi della psicologia di un personaggio divenuto vittima della sua stessa “natura ibrida” di giovane ragazzo iraniano nato e cresciuto in occidente. In lui albergano le contraddizioni di chi, da un lato, percepisce e comprende, grazie ai numerosi racconti del padre, la banalità degli scioperi e delle proteste che lo circondano, e dall’altro, non avendo mai dovuto lottare per la sua libertà, è privo di quella forza d’animo senza la quale è impossibile sentirsi parte attiva della rivoluzione che, giorno dopo giorno, popola lo schermo del suo computer.
Lo sguardo sull’oggi: la voce di Tara, 2019.
Ecco che, con un ultimo salto temporale, la narrazione tocca, seppur in poche pagine, la nostra contemporaneità, portando il lettore, ad un presente ancora irrisolto. È il 2019 e la voce narrante non è solo quella di Tara, ma probabilmente anche quella dell’autrice stessa. Il contesto delle proteste, verificatesi in Iran, contro il governo iraniano di Ali Khamenei, a cavallo tra il 2019 e il 2020, riportano tristemente il lettore alla cronaca odierna e alle recenti proteste scoppiate a seguito della morte di Mahsa Amini, uccisa nel 2022 dalla polizia morale per aver infranto la legge sull’obbligo dell’Hijab.
Ecco che attraverso le sofferenti voci di uomini e donne, il romanzo di Shida Bazyar cerca di offrire al lettore una panoramica, il più umana possibile, del dolore di un popolo, che tramanda le sue cicatrici di generazione in generazione. Per fare ciò l’autrice decide di utilizzare un nucleo famigliare ordinario, col fine di renderlo profonda allegoria di un popolo incapace di vivere senza speranza, in continua lotta per vedere, un giorno, concretizzato quell’immenso sogno di libertà costato la vita a fin troppi uomini e donne.
Shida Bazyar, con straordinaria semplicità e schiettezza racconta la storia di un popolo muovendosi attraverso 3 diverse generazioni, che, seppur tra loro molto diverse, sono tutte accomunate da un dolore comune, che si concretizza in una continua attesa, un’incorruttibile fede che spinge alla speranza di veder concretizzati, un giorno, i loro grandi sogni di libertà.