Davide Gallo – Poesie
Quest’oggi vi presento un’autore che già ho avuto la fortuna di conoscere sui social e che ora ho il piacere di commentare. Appena lessi i versi di Da Gal, abbreviazione del suo nome che trovo molto simpatica, mi resi immediatamente conto del loro valore solido ed originale, capace di distinguersi dalla massa dei poeti emergenti, possedendo tutte le carte in regola per inserirsi tra le voci della poesia contemporanea. Per questo motivo ho particolare piacere nel contribuire all’emersione di questo poeta. Vi avverto: il componimento più bello si trova per ultimo!
La poesia di Davide Gallo s’insinua lungo i solchi prodotti dall’inconsistenza delle cose che stanno sulla Terra sospese, impermanenti per destino, in costante bilico tra l’essere perse e ritrovate. Il primo componimento si rivolge ad una vita senza muta, immobile e quasi inerte, inevitabilmente a metà. Subito dopo il poeta s’interroga sul costo di una siffatta esistenza e con quanta leggerezza può violare sé stessa. È proprio con la leggerezza di una vespa che si compiace del fico che la stringe, solo un segno del piacere temporaneo e volatile come il sorriso provocato da qualche distrazione, che si apre la strofa seguente. Giunge l’impressione di una vita tronca, esausta, minuta; finché non viene interpellata un’altra vita incosciente e non ancora avvenuta, la quale ancora non sa che per procurarsi un’esistenza meno stretta, è necessario scartarsi e dimenticarsi di essere stato ciò che cade e che non torna, introducendo uno scenario mutilato, fatto di perdite e rinunce. Il successivo componimento allarga il suo orizzonte descrivendo come noi corpi insoliti stiamo sulla terra gravemente, termine particolarmente enfatico per via della sua doppia interpretazione. Ecco che si apre un mondo abitato da persone che si sfiorano solo accidentalmente, che preferiscono modellare un fianco d’aria senza vita, inconsistente ed illusorio, piuttosto che badare allo spazio incontrastato da noi già posseduto, cioè quello delle ginocchia e dei bacini. Non può che derivarne una sospensione drammatica che non sa cosa tenere e cosa recuperare. Giungiamo infine all’ultimo componimento che presenta, durante il risveglio cosmico della Terra cullata dalla luce dell’alba e dall’ombra della notte, le figure di due cappotti: uno accoglie il sole, ribadisce la volontà del fuoco che tutto rischiara e scioglie; e l’altro invece è margine di cose dette e sbarazzate in fretta. È la notte che il raccoglie la parola e le cose marginali frettolosamente sbarazzate schiudendone fedelmente ogni intima potenza. Quasi come una dichiarazione poetica camuffata, l’autore ci rivela quale cappotto indossa la sua poesia.
Mi auguro fortemente di aver stimolato la lettura dei testi di Davide Gallo e spero che, come me, lo apprezzerete.
I
Le strade che mi portano da te non sono
mai lunghe né strette. Stretta è invece
la carne ai femori, stretta la gola
attorno all’aria.
Ho trovato di te una versione senza muta
con desideri che si addicono alle anime esauste.
Con una mano ho pesato tutta la mia assenza
nei tuoi occhi senza dolore o con troppo
affanno da contenere ancora.
Quanto costa una vita a metà?
Quanto leggera può violare se stessa?
Succede come si buca un foglio, un cerchio
di rughe, strappa attorno a sé un segno
del piacere: ogni vespa si compiace
del fico che la stringe come fa la serratura
attorno alla chiave. Oggi sorridi
con qualche distrazione, si fa un destino
minuto nella tua mano serrata: è il sudore
che le dita incolla al palmo, la schiena
alle lenzuola che non sanno più, gli occhiali
che non usi, posati di fianco – non sai
tu non sai ancora cosa crolla ogni giorno
come, ancora, stringo le punte delle dita
al bacino, non sai, che per tenermi
devo scartarmi ogni giorno pezzo
dopo pezzo, dimenticarmi
di essere stato anche ciò che cade
e che non torna.
Tu non sai ancora nulla
eppure nei tuoi occhi un poco chiusi
si riflettono tutte le mie ombre.
*
II
Gravemente stiamo sulla terra
come corpi insoliti.
Le scarpe triangolari sporcano il deserto
sotto la scoperta.
Ci sparpagliamo come i capelli dei cadaveri
sfiorandoci accidentalmente durante il crollo.
Modelliamo un fianco d’aria senza vita
e ci sbarazziamo così dei nostri bacini.
Delle ginocchia dimentichiamo la piega
e il suo spazio incontrastato.
Eppure resta a noi una sospensione, come nella gola
un urtare dell’aria, il dramma delle cose in bilico
tra l’essere perse e ritrovate.
*
III
Ci sono due cappotti che culla la mattina
uno è a lato e accoglie il sole, l’altro
in fondo al letto scartato,
margine di cose dette e sbarazzate
in fretta come il sonno.
Il silenzio nutre la distanza, cresce
tra le pieghe dei gesti, dissipa i bordi.
È il tiepido sperpero che il vento fa
con la sabbia, con la natura di ogni peso
modellando gli elementi e i loro luoghi.
La volontà del fuoco crolla sulle stelle
e solo l’aria ne ribadisce i legami.
Fuori dal fuoco pare semplice come un inizio
d’estate l’impermanenza di ciò che è
luce che frana la neve, e ora è ombra
che insegue altre ombre.
Ci sono due cappotti uno accanto all’altro
sbiaditi da un fianco di pioggia, schiantati
ormai nel giorno, ancora dicono
la notte che raccoglie la parola
e come incenso fedele ad ogni pianto
ne spalanca ogni intima potenza.
L’autore
Sono nato a Bari il 15/12/1996 dove ho conseguito una laurea in Lettere Moderne. Attualmente a Bologna per completare il corso di Italianistica, scrivo e leggo poesia con l’obiettivo lontano di pubblicare un libro e lavorare nell’ambito della critica.
Tra i lettori più amati: Amelia Rosselli per una grammatica della poesia che sia libera e aggressiva senza essere banale come in certi prosimetri di “Variazioni Belliche”, Giorgio Caproni per la leggerezza di “Battendo a macchina” e del “Congedo”, Antonella Anedda per il dialogo con i quasi morti di “Residenze Invernali”, Patrizia Cavalli per l’abilità di rendere l’ironia e l’autoironia con l’agilità di certe poesie di “Le mie poesie non cambieranno il mondo”, Pierluigi Cappello con la sua fine malinconia sempre un po’ sporca di terra, Chandra Livia Candiani che ha saputo parlare con amore infinito del corpo che la sostiene in “La domanda della sete”.