“Dare la vita” di Michela Murgia – Recensione
Camminare sul filo del dubbio e continuare a interrogarsi per non essere risposta univoca ma, al
contrario, interrogativo sempre fecondo. È questo ciò che Michela Murgia, scomparsa ad agosto
dell’anno scorso, fa nel suo ultimo libro, pubblicato postumo, “Dare la vita”. Raccogliendo una serie
di scritti, collocabili tra il 2008 e il 2023, l’autrice restituisce una riflessione sulla maternità che non si
propone di essere risposta ultima ma, piuttosto, punto da cui ripartire per interrogarsi sulla
complessità dei legami che costruiscono e formano la nostra esistenza. Prende vita così un pamphlet
che, come un testamento, lascia al lettore l’ultima eredità dell’autrice: una volontà che da sempre
caratterizza la sua scrittura e che conclude la premessa del libro:
La mia anima non ha mai desiderato generare né gente né libri mansueti, compiacenti,
Michela Murgia, Dare la vita
accondiscendenti. Fate casino.
Su questo invito la riflessione prende forma, tratteggiandosi attorno al verbo che occupa un ruolo
centrale nelle due parti di cui il libro si compone: “generare”. È infatti attraverso la semantica del generare che Murgia interroga sé stessa e il lettore, scoprendo il fianco a ciò che è umano e, proprio per questo, in grado di “Dare la vita”.
I figli della carne
Il dubbio nasce dall’inciampo, dal prendere le distanze. Così l’autrice, fin da subito, si allontana da
una maternità, e in fondo anche da una concezione della vita, che non le appartiene. Essere madre,
infatti, non può più passare unicamente dallo “stato interessante” poiché ciò riduce la maternità a
una questione di sangue, ossa e dolore. Quello stesso dolore che da sempre è stato reso narrazione centrale dell’evento del parto. Nella bibbia, infatti, non è solo il Dio della Genesi che condanna Eva a partorire con dolore ma è anche l’evangelista Giovanni che, nell’Apocalisse, racconta della visione mistica di una donna in preda alle doglie del parto per rappresentare la seconda venuta del Messia. È stata poi
la cultura di stampo patriarcale a trarre da ciò una dimensione di sacralità, quella del grembo (che trova nella vergine Maria la sua piena rappresentazione), a cui ridurre tutta l’esperienza della maternità. Da ciò nasce, per Murgia, la dissonanza. Tale mistica della carne, infatti, appiattisce la
maternità a fatto riproduttivo, finanche a renderla mera produzione. Il figlio, infatti, non sarebbe
nient’altro di diverso dalla carne di chi l’ha fatto nascere. L’appartenenza ci plasma a tal punto che “in quel sistema è più importante dire di chi sei, piuttosto che chi sei o chi vorresti essere” .
A tale concezione l’autrice oppone l’interrogativo su cui, come filo narrativo, ha intrecciato anche la
sua intera esistenza: come è possibile pensare a un legame diverso, a una maternità che sia oltre il
corpo? È qui che il verbo “generare” è posto a contrapposizione, donando uno sguardo nuovo.
Oltre la (ri)produzione: generare la vita
Produrre è un’operazione di somma degli esistenti. Non crea il nuovo, piuttosto sintetizza ciò che già
c’era dandogli diversa forma. Il termine “generare” affonda radici in una semantica diversa. Non più
somma ma moltiplicazione oltre il sé, dando origine al diverso, al nuovo. Tale scambio di termini
libera il campo da una dimensione fisica che ora non appare più centrale. Se infatti il risultato di una
somma sarà determinato all’interno dei rigidi confini della fisicità degli addendi, ora, il nuovo
generato richiede unicamente l’unicità dell’esistenza nelle sue infinite declinazioni e possibilità.
Generare non significa solo “mettere al mondo” ma riscoprirci come umani, in grado, quindi, di
tessere legami che vanno oltre una contingente fisicità e che sono in grado di esplorare dimensioni
nuove. Così “l’essere madre” può assumere significati nuovi e, nello stesso modo, “l’essere figlio”
non è più solo una questione di DNA. La molteplicità apre le porte alla possibilità e al non finito,
lasciando così al lettore l’occasione di interrogarsi lui stesso, partendo da una linea che Murgia prova
a tracciare oltre ai binari di percorsi già attraversati: la pratica della queerness.
Essere queer
Partendo dalla propria esperienza personale: la sua famiglia queer, di cui tanto hanno parlato i
giornali nei suoi ultimi mesi di vita, l’autrice si interroga sul significato della parola stessa. Non si
tratta però di una semplice operazione di definizione, poiché ciò significherebbe attuare una delimitazione: fornire una risposta univoca togliendo qualsiasi altra possibilità di essere. Si
rischierebbe quindi di riportare la complessità dell’esperienza umana ad un unico livello di
interpretazione, così come, a lungo, è avvenuto per la maternità. Non è, invece, più possibile
confinare il molteplice e, allora, apparirà necessario tracciare una via per scoprirlo. È così che
l’essere “queer” diventa una pratica di frontiera. Allontanando, infatti, tale parola da qualsiasi
velleità identitaria, l’autrice la riscopre come metodo e, nello specifico come:
“scelta di abitare sulla soglia delle identità (intesa come maschera di rivelazione di sé), accettando di
esprimere di volta in volta quella si desidera e che promette di condurre alla più autentica felicità
relazionale”
Non si tratta, dunque, di negarsi a un’identità ma di accogliere l’indeterminatezza come parte
dell’umano mettendo in discussione ogni assunto totalizzante, ogni rigido binarismo, che impone e
costringe l’amore ad un’unica versione di sé stesso. Così la maternità non si consuma più
nell’appartenenza del sangue ma si può riscoprire come atto di scelta che si concretizza nella libera
cura dell’altro e soprattutto nell’avere cura della sua infinita possibilità di essere.
Cadere in contradizione: la GPA
La “queerness”, lo stare sulla soglia dell’essere, attraversa e costruisce anche l’ultima parte del libro
dove l’autrice raccoglie le sue riflessioni sulla “gestazione per altri”. Accogliere l’indeterminatezza
significa forzare uno sguardo nuovo anche su tale pratica per definirne le contraddizioni senza mai
dare un giudizio univoco. Il lettore si trova così a far fronte a un discorso dove l’apertura al dubbio
acquista sempre più centralità fino a riempire lo spazio di un pensiero che, non imponendosi di
essere lineare, assume, ai nostri occhi, anche il rischio alla contraddizione interna. Per l’autrice, infatti,
la possibilità di immaginare una maternità non determinata unicamente dal sangue si apre alla GPA, la
quale però può essere possibile solo all’interno di un rigido quadro normativo a tutela della
gestante.
Tuttavia, nell’immaginare il possibile Murgia usa parole che richiamano alle orecchie di chi legge un lessico legato ad una semantica della materialità, della riproduzione. Ciò è particolarmente evidente nell’utilizzo della parola “dono” in riferimento al bambino nato tramite gestazione per altra. Parlare di “dono” comporta il rischio di inscriverlo all’interno di una dinamica nella quale ritorna una logica del possesso e di appartenenza: posso donare solo ciò che mi appartiene, diversamente non è possibile. Tale contrasto nasce dal voler rapportare una pratica che ad oggi è, purtroppo, spesso espressione di dinamiche di potere economico (come la stessa Murgia ammette) a una volontà di libertà oltre ogni costrizione. La contradizione non si risolve e non vi è neppure la volontà di farlo. Si compie così, allora, la vocazione (a cui si fa riferimento, in altri termini, anche nell’ultimo saggio dell’opera) di Murgia come scrittrice e essere umano. Nel contrasto l’autrice ci dona, infatti, il seme del dubbio, da cui ripartire non più con lei ma oltre a lei per poter “fare casino”.