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“Cuore Nero” di Silvia Avallone- Premio Viareggio Repaci 2024

Un articolo di Francesca Manzoni

“Me lo sono chiesta mille volte: Cos’è il male? Ho voluto dare degli esami di filosofia apposta, all’università. Per capire. È un errore che fai tu? Una scelta? Oppure è un falla nel tuo sistema, una colpa che c’è in ogni essere umano? È la follia? È un più, una cellula impazzita con cui nasci? Oppure è un meno? Io penso che sia un meno. Che sia come un vuoto che si genera da una crepa interiore, e poi ti scava, ti scava, ti annienta.”

All’interno della rosa di romanzi che concorrono alla vittoria del Premio Viareggio-Repaci 2024 figura “Cuore Nero”, ultimo libro di Silvia Avallone, edito da Rizzoli nel 2024. In esso l’autrice decide, attraverso la vita di Emilia e Bruno, di esplorare le cause e le conseguenze che portano il male, spirito latente nell’anima di ogni uomo, a manifestarsi, nei modi e nelle modalità più crude e indicibili. A partire da questo presupposto si dipana una storia d’amore e redenzione, che, attraverso l’intreccio di due vite spezzate e corrotte, crea i presupposti per molteplici riflessioni non solo etiche e morali, legate alla capacità di perdonare e perdonarsi per il proprio passato, ma anche sociali, spaziando dalla condizione precarie in cui vertono le carceri in Italia, arrivando a descrivere tutte quelle difficoltà che, giorno dopo giorno, uomini e donne spezzati dal male, sono costretti ad affrontare nel tentativo di reinserirsi all’interno di una società capace di configurarsi ai loro occhi come ostile e inospitale. 

Attraverso tre differenti punti di vista che si alternano nel corso della narrazione, il romanzo racconta, sullo sfondo del borgo di Sassaia, una storia d’amore: a viverla sono Emilia, una donna che ha vissuto non solo l’adolescenza, ma anche l’ingresso nell’età adulta dietro le mura di un carcere minorile, e Bruno, un professore che, dopo la precoce morte dei genitori, avvenuta a seguito di un terribile incidente in funivia, ha deciso di chiudersi in un esistenza quasi eremitica, incapace di accettare la condanna di essere sopravvissuto a coloro che, più di ogni altra cosa, amava. Entrambi vivono al di fuori della società, alla costante ricerca di uno spazio sicuro dal giudizio altrui, in cui poter trascorrere il tempo rimasto nella più totale solitudine, prevenuti e impauriti all’idea che il mondo li possa, ancora una volta, ferire, respingendoli. 

La storia si apre così con l’ingresso di Emilia, appena uscita dal carcere di Bologna, nel borgo di Sassaia, un paesino montano fatto di pochissimi abitanti, in cui, arroccata tra le montagne, si trova una casa dove, molti anni prima, era vissuta una lontana parente della protagonista. La scelta di trasferirsi in un luogo isolato, lontano dalla libertà sconfinata rappresentata dalla città, è per la donna, allo stesso tempo, sia la ricerca di un rifugio dal caos della metropoli, un riparo dagli occhi indiscreti del mondo, sia un tentativo di prolungare all’infinito, attraverso la solitudine, la sua pena. L’espiazione del peccato si configura ai suoi occhi come qualcosa di impossibile, poiché ciò che, in giovinezza, ha compiuto, non le permette di perdonarsi, e dunque di ricominciare a vivere. La sua colpa è qualcosa di così oscuro e indicibile da non poter essere raccontato ad alta voce: la verità è un demone, sempre in agguato, e l’unico modo per sopravvivere ad esso è evadere ogni rapporto umano. 

Ma nel borgo di Sassaia, oltre ad Emilia, vive un esistenza quasi eremitica Bruno, professore di italiano nell’unica scuola presente sul territorio. Il personaggio maschile rappresenta, in questo senso, la vittima per eccellenza della società: nel corso di tutta la sua vita si è trovato a pagare il prezzo dell’errore umano, che ha portato alla morte dei suoi genitori, quando ancora era adolescente. Nessun risarcimento è mai stato capace di ripagare il dolore, e la sua colpa è quella di non aver seguito i genitori sulla “funivia della morte”, rimanendo sulla terra, condannato a dover vivere nell’angoscia che pervade chi non riesce a trovare un senso alla sua esistenza. 

“Non siamo i nostri traumi. Il risultato di quello che abbiamo commesso o subìto. Il passato non coincide con il punto in cui ci troviamo adesso. Siamo altrove. Non lo sapevo fino a oggi. Poi tu mi hai raccontato quello che credevi fosse tutto. Mi hai spiegato perché sei solo, perché vivi a Sassaia, ma questa è solo una parte, conclusa, finita. Ne è già iniziata un’altra. Anche la verità» sorrise cambia.”

Tra i due protagonisti nasce così, quasi per caso, una storia d’amore, le loro sofferenze e le loro colpe trovano, nell’altro una cura e un conforto. A configurarsi come il principale antagonista della storia è però quella verità taciuta da entrambi: la paura di essere guardati per ciò che si è stati e non per ciò che si è diventati crea un muro invalicabile e fornisce i presupposti per il dipanarsi della storia. I due amanti dovranno così comprendere, rivivendo il loro dolore, l’importanza di accettare il proprio passato: solo perdonandosi per i propri errori, solo accettando la natura umana nella sua complessità, solo comprendendo che il male è una parte fondante dell’animo umano, si può ricominciare a vivere un esistenza capace di definirsi tale.  

La struttura del romanzo e la costruzione dei personaggi: quando il peccato diventa espediente narrativo

All’interno del romanzo il lettore si trova a seguire, capitolo dopo capitolo, l’evoluzione della storia di Emilia e Bruno, imparando a conoscere i personaggi non solo grazie ad un narratore esterno ed extradiegetico, ma anche e soprattutto grazie alla voce dei protagonisti stessi che si raccontano e soprattutto, frammento dopo frammento, confessano le loro colpe. Se infatti, fin dal principio, l’autrice decide di instillare la curiosità in chi legge, lasciando piccoli indizi sul passato dei protagonisti, solo nella seconda parte del romanzo, e sempre di più man manco che ci si avvia alla conclusione, le verità vengono a galla, diventando il motore che spinge il lettore a voler proseguire, senza tregua, la lettura. 

Dal punto di vista stilistico Silvia Avallone riesce dunque ad intrattenere, mantenendo sempre alta la tensione e frammentando la verità in piccoli frammenti in grado di suscitare, in chi legge, la curiosità più profonda. Quando, al termine del romanzo, si comprende che la colpa di Emilia è grande, quando la donna viene chiamata, per la prima volta, assassina, il lettore si trova così a riflettere sulle informazioni ottenute in precedenza, per comprendere se esse possano, effettivamente, giustificare una qualsiasi forma di empatia nei confronti della protagonista. In questo senso, l’espediente narrativo utilizzato, si rivela da un lato, funzionale a mantenere alta l’attenzione e costante l’interesse, dall’altro rischia di compromettere irrimediabilmente la validità del contenuto e delle tematiche affrontate. 

Il lettore in questo senso, non ha il tempo necessario per elaborare correttamente le informazioni e comprendere l’importanza di un percorso di redenzione fuori dal carcere, ma si trova piuttosto a chiedersi se tutto ciò che la protagonista ha dovuto affrontare nel corso del romanzo, sia abbastanza da giustificare un sentimento empatico nei suoi confronti. Se l’autrice avesse rivelato, fin dalle prime pagine, la colpa della protagonista, rinunciando a tutti quei giochi narrativi tipici del genere noir che puntano a spettacolarizzare una “rivelazione finale” in grado di sconvolgere il fruitore, probabilmente il romanzo avrebbe avuto un valore differente. Evitando una spettacolarizzazione e una suspance capace di portare solo intrattenimento, l’opera si sarebbe rivelata, visti i presupposti, un analisi quasi etica, capace di focalizzare l’attenzione del lettore su tutte quelle difficoltà che intercorrono nel rapporto tra chi è pregiudicato e il suo reinserimento nella società.

Allo stesso tempo, un’ulteriore nota dolente risulta essere la costruzione dei personaggi all’interno dell’opera: empatizzare con loro è difficile, proprio perché, nel tentativo di costruire una storia d’amore cinematografica e sofferta, l’autrice, più che esseri umani veri e propri, riconducibili al reale, sembra ricalcare dei “personaggi tipo”, molto legati allo stereotipo e al cliché. Se si prendono ad esempio alcune delle conversazioni riportate nel corso dei dialoghi tra le detenute, si trovano frasi come: “Se non lo hai capito, le principesse non esistono. Siamo tutte stronze, troie e regine allo stesso modo”, oppure “Oh, non siamo mica come le sue troiette liceali, noi, siamo professioniste” per non parlare di espressioni colloquiali come “Oh, che rompifica sei, Vargas”.

Sono espressioni che, reiterate nel corso del romanzo, rendono difficile, se non impossibile vedere queste giovani donne come persone vere e proprie, ma agli occhi del lettore, rimangono delle caricature con cui è difficile empatizzare. Allo stesso modo anche le dinamiche che scandiscono la storia d’amore tra i due protagonisti risultano poco credibili e sembrando incarnare l’ennesimo stereotipo: a partire dal primo “ti amo” detto fuori da una discoteca a seguito di un litigio, la presenza di una terza donna gelosa che indaga sul passato di Emilia per rovinare la loro relazione, per non parlare di Bruno che scopre la verità su Emilia e la caccia dal paese nel cuore della notte. 

Se l’idea alla base del romanzo è dunque interessante, a rendere l’opera poco incisiva è la difficoltà di vedere nella storia il reale, l’impossibilità di immedesimarsi e di collocare nel mondo in cui vive il lettore i personaggi che dominano la scena. Se Silvia Avallone si mostra capace nel creare una storia accattivante, che stimola la curiosità nel lettore, allo stesso tempo risulta difficile vedere questa vicenda come qualcosa che tocchi concretamente la nostra realtà, che racconti un amore in grado di esistere al di fuori delle pagine scritte. 

Le tematiche sociali e la vita in carcere: uno sguardo sull’attualità 

“Ora, risalendo a piedi insieme a Marta via Marconi, Emilia ci ripensava. Al fatto che le italiane non ci vanno mai, in galera. Perché hanno sempre una famiglia, una casa, una possibilità. In galera ci vanno le ragazzine così abbandonate che non hanno nemmeno un parente che possa occuparsi di loro e uno sgabuzzino in cui scontare il castigo. Bambine che non hanno mai visto al cinema un film Disney, che non hanno mai giocato con il Gira la moda. E allora di chi è la colpa, se a quattordici anni ti mancano le scarpe e rapini un negozio?”

A fare da sfondo alla storia d’amore tra Emilia e Bruno è il racconto della vita in carcere e delle problematiche che pervadono il sistema di detenzione italiano, con particolare attenzione al mondo minorile e all’importanza del ruolo educativo all’interno del sistema penitenziario. Silvia Avallone decide di utilizzare il romanzo per provare ad accendere un riflettore sulle difficoltà in atto, non solo etiche ma anche economiche e logistiche, nel creare un sistema in grado di svolgere a pieno la sua istanza rieducativa e di impostare piani di supporto e reinserimento nella società. All’interno della narrazione vengono infatti introdotte diverse figure, diverse ragazze, che pur configurandosi come carnefici, condannate a scontare una pena, sono diventate, in poco tempo, le vittime di un sistema che difficilmente riesce ad adempiere efficacemente ai suoi compiti. 

Al lettore vengono così raccontate numerose storie, capaci di configurarsi come diversi scenari possibili: se infatti Marta rappresenta un esempio totalmente positivo, configurandosi come la donna che nel carcere ha trovato le opportunità giuste, colei che ha potuto studiare, laurearsi con ottimi voti e, una volta libera, trovare un lavoro stabile e ben retribuito, all’opposto si trova Myriam, che incapace di sostenere il peso della colpa, fuori dalle mura del carcere, non ha potuto far altro che togliersi la vita. Nel mezzo, a mostrare la vasta gamma di difficoltà che comportano il reinserimento nella società, si situa proprio la storia di Emilia, abbandonata dalle istituzioni e costretta a celare la sua identità per paura del giudizio altrui. Sulla base di queste diverse casistiche l’autrice dedica molteplici spazi di riflessione alle problematiche interne alle carceri, dove, a causa dei pochi finanziamenti, è diventato impossibile creare degli ambienti in grado di promettere alle detenute un futuro accettabile, per cui valga la pena vivere. Se infatti, la rieducazione deve essere il cardine di ogni sistema di detenzione, è impossibile creare dei programmi di sostegno e di accompagnamento senza il supporto economico dello stato. 

Silvia Avallone decide dunque di utilizzare il romanzo anche come un arma di denuncia, che mira a sovvertire il presupposto, talvolta comodo da credere, che il carcere sia un semplice cassetto in cui depositare tutti coloro che nella vita hanno infranto la legge. La punizione più grande che un uomo può dover affrontare è la privazione della libertà, ma essa dev’essere sempre accompagnata da un percorso rieducativo e dalla costruzione di nuove possibilità per il futuro. Allo stesso tempo è altrettanto importante educare il mondo fuori, per renderlo capace di superare il pregiudizio ed accettare che, una volta scontata la pena, la vita di ogni detenuto deve poter proseguire in uno stato di normalità, se non totale, almeno apparente. 

In quest’ottica il romanzo, attraverso la voce dei suoi protagonisti, sembra voler di accendere un riflettore sulle tanto palesi, quanto ignorate difficolta che un detenuto deve affrontare, non solo nel corso del suo percorso riabilitativo, ma anche nel suo primo approccio col mondo esterno, fatto di paura, vergogna e un profondo senso di inferiorità che andrebbe, definitivamente, sradicato. Argomentazioni e temi importanti, che rischiano però di rimanere in secondo piano, offuscati dal dramma amoroso che attraversa i due protagonisti.

È veramente possibile empatizzare con un carnefice ?

In ultima battuta è giusto osservare come il romanzo cerchi, attraverso la storia di Emilia, di spingere il lettore verso l’empatia e la comprensione, nei confronti di una ragazza che, da adolescente è arrivata ad uccidere, in un momento di follia, una sua coetanea. A cercare di “giustificare” il suo gesto sono diversi fattori, come la morte della madre e una molteplicità di insicurezze coltivate fin dall’infanzia: non manca neanche il senso di colpa per ciò che è stato fatto, la difficoltà nel raccontarlo e nell’accettare di essere libera, di aver scontato la pena. 

Al termine della lettura è dunque giusto chiedersi: saremmo disposti ad empatizzare con un carnefice, nel momento in cui ha scontato la sua pena? Una domanda che fatica a trovare una risposta, forse perché Emilia rappresenta tutto ciò che non vorremmo, mai vedere. La donna non è altro che la dimostrazione lampante di come ogni uomo non solo porta in se il male, ma è anche capace di compiere atrocità indicibili, di togliere la vita ad un’altra persona. È un promemoria continuo che ci obbliga a guardare negli occhi spettri dell’umano difficili, se non impossibili, da accettare. 

Francesca Manzoni

Redattrice di Cinema e Letteratura