Critica di Poesia,  Letteratura,  Premi Letterari,  Premio BookTube,  Premio Strega

“Cose che non si raccontano” di Antonella Lattanzi

di Chiara Girotto

«Ma non si può scrivere un libro risparmiandosi. Si spera di poterlo scrivere non avendo pietà di nessuno, neanche di sé».

In Cose che non si raccontano, l’ultimo libro di Antonella Lattanzi edito da Einaudi e candidato al Premio Strega 2024 e al Premio Booktube 2024, l’autoindulgenza e il vittimismo sono assenti. Palpabili in ogni pagina sono invece la rabbia e il desiderio, forze propulsive su cui si fonda la duplice ricerca dell’autrice. Ricerca della maternità, che ben presto diventa un calvario dove si sovrappongono strati di dolore fisico e psichico, ma anche ricerca di uno spazio, quello letterario, in cui esprimersi e continuare a vivere nonostante la sofferenza.

Alla scrittura Antonia Lattanzi affida una missione salvifica: rendere dicibili il dolore insensato dell’infertilità sine causa, la violenza ostetrica, l’odio nei confronti di chi diventa madre, così come la paura di non meritarsi di essere madre perché indisposte al sacrificio di sé. Cose che ora, grazie alla potenza spietata di questo libro, si raccontano.

Cose che non si raccontano, Antonella Lattanzi

Intorno ai quarant’anni, la protagonista del romanzo Antonella – alter ego dell’autrice ­– decide assieme al compagno Andrea che vuole avere un figlio, ma contro ogni pronostico che la ritiene sana e teoricamente fertile, non ci riesce. La diagnosi per l’appunto è quella dell’infertilità sine causa, ossia senza che se ne sappia la ragione. Nel marzo 2020 la coppia inizia il percorso della Procreazione Medicalmente Assistita (PMA), un insieme di tecniche e terapie finalizzate ad aumentare le possibilità di concepimento. Nel concreto, la PMA per Antonella equivale allo stravolgimento del suo quotidiano, che inizia a essere scandito da infiniti controlli medici, monitoraggi, medicinali assunti regolarmente per via orale, vaginale e tramite punture all’addome. Le giornate ruotano attorno alla routine medica, e il desiderio della gravidanza si espande fino a diventare un’ossessione.

Seguono mesi di tentativi e Antonella incredibilmente resta incinta, ma i feti sono non uno, ma tre. Tre, infatti, doveva essere il titolo originario del romanzo prima che l’autrice s’imbattesse nell’attuale titolo, tratto da La camera azzurra di Simenon. La sua è una gravidanza ad altissimo rischio sia per la madre che per i tre feti e dunque le viene proposta un’operazione definita riduzione: si tratta di eliminare uno dei tre feti per cercare di far sopravvivere i restanti due, senza nessuna garanzia che ciò accada. Dopo travagliato periodo di esitazione, la protagonista si sottopone alla procedura e, a causa di una complicazione, perde tutte e tre le gemelle che portava in grembo. In seguito, dovrà subire un raschiamento dal quale la sua salute esce seriamente compromessa.

Questa esperienza biografica che non si può non definire tragica sta alla base del romanzo. Rielaborando quella che è la sua storia, Antonella Lattanzi si sofferma su quello che lei stessa definisce il pensiero magico, mutando l’espressione dal celebre libro in cui Joan Didion affronta il lutto per la morte del marito. Il pensiero magico scandaglia il suo passato alla ricerca di un senso e delle cause del dolore subìto; il pensiero magico la colpevolizza. Antonella, infatti, ha già abortito due volte, molto tempo prima di desiderare un figlio, e lo ha fatto sia perché non si sentiva pronta, sia perché vedeva di fronte a sé una carriera da scrittrice. Anche prima di scoprire di essere incinta di tre feti anziché di uno, è angosciata dal rischio di non riuscire a conciliare la scrittura e la maternità.

Di fronte ad amici e colleghi tace, nascondendo le punture, le proprie ansie e la gravidanza stessa: teme la delusione di dover raccontare loro un eventuale insuccesso, ma non solo. Dopo aver desiderato con tale forza e disperazione un bambino, sente di non avere il diritto di lamentarsi del tempo che mancherà, del lavoro da accantonare, di tutte le privazioni che una donna incinta e poi una madre sono costrette a vivere. Ha paura che, più o meno elegantemente, le venga rifilato il famoso detto per cui se hai voluto la bicicletta poi devi pedalare in silenzio.

Il protagonista maschile della vicenda, Andrea, fatica penetrare nei moti d’animo ossessivi e contraddittori della compagna. Tra i due si insinua il veleno dell’incomunicabilità, iniettato dalla sproporzione del desiderio e del coinvolgimento di Andrea, evidentemente inferiore a quello di Antonella: prostrato dalle difficoltà, il rapporto di coppia vacilla:

«[…] mentre io impazzisco, lui è sereno. Mi dice: “L’hai voluta tanto questa cosa, no?
(è successo e succederà molte volte che lui mi risponderà: l’hai voluta tanto questa cosa, no?)
(è successo e succederà molte volte che io dirò: non è solo mia questa cosa, lo capisci?)
(è successo e succederà molte volte che lui dirà: non è solo tua questa cosa, lo capisci?)
(non penso che possiamo capirci)»

Il senso di colpa che pervade le pagine del romanzo richiama alla mente la Lettera a un bambino mai nato di Oriana Fallaci, dove la giornalista, che ha subito un aborto spontaneo, si auto-accusa di aver ucciso il feto con il pensiero per aver deciso di condurre la vita di sempre anche da incinta, viaggi e reportages annessi, rifiutando di restare sei mesi stesa in un letto. Un’auto da fé, insomma, dove il crimine commesso è voler vivere appieno, senza rinunciare alla propria libertà.

Ci sono momenti in cui Antonella si pone la stessa domanda della Fallaci, ovvero se non sia questo suo modo di guardare all’essere madre anche come un enorme peso, dopo aver abortito due volte per giunta, ad aver causato come punizione tutte le complicazioni del caso.

La mistica della maternità così profondamente radicata nella nostra cultura spesso impone alla donna di diventare una specie di alter Christus privo di debolezze e dubbi – anzi, forse un’altra specie di divinità, dato che anche Cristo i suoi dubbi li ha avuti – disposto a sopportare qualsiasi tormento per i suoi figli, persino quando li perde. Questa retorica del sacrificio, oggi fortunatamente al centro del dibattito pubblico, nella storia di Antonella sfocia in episodi di violenza psicologica e verbale: costretta a essere ricoverata nel reparto maternità dopo il raschiamento, tra i pianti dei neonati e partorienti, lei che ha appena dovuto rimuovere chirurgicamente quelle che già considerava le sue figlie si sente chiamare “mamma” anche quando è chiaro che non potrà più esserlo. La presunta giustificazione di queste crudeltà le viene fornita dalle scritte sui muri dell’ospedale che recita: «la sofferenza viene dal signore».

Come scriveva anche Fallaci, in funzione di un essere che non è ancora giunto alla vita – e che in questo caso non ci arriverà mai – si è perfettamente disposti a immolare una persona già viva, la madre, curandosi poco o nulla del suo benessere.

Nell’atto di scrivere Cose che non si raccontano, Lattanzi rifiuta tale concezione della maternità come mero servizio alla vita e anzi reagisce, sfidando l’idea di Simone de Beauvoir secondo cui la donna, in quanto madre, resta imprigionata nell’immanenza biologica della dimensione riproduttiva, percepita come contrapposta alla trascendenza della riflessione artistica e speculativa. In tutta risposta al condizionamento naturale che la gravidanza comporta, Lattanzi trasforma in un libro quest’esperienza logorante, atroce, ingiusta.

Nella scrittura Antonella Lattanzi trova modo di incanalare non tanto una testimonianza – questo non è un diario, o una cronaca day by day di quel periodo ­– quanto la propria rabbia, una forza che, invece di distruggere sé stessa o gli altri diviene creazione letteraria. A detta della stessa autrice, Cose che non si raccontano è «un atto d’amore nei confronti della scrittura». Scrittura che è sfogo, confessione per riversare sulla pagina i pensieri inespressi, quelli troppo pesanti per essere confessati di fronte a qualcuno, ma è soprattutto proiezione verso l’esterno e verso la vita.

I momenti dedicati al romanzo sono «gli unici momenti in cui non penso a questo presente inammissibile. In cui, pur nell’immersione nel dolore e nei ricordi che non voglio ricordare, c’è un sottofondo di gioia. Perché sto scrivendo il mio libro». Scrivere è un modo, forse l’unico, di incanalare l’energia e il desiderio che, nonostante l’inferno, o forse proprio perché lo si è vissuto continuano a pulsare dentro di lei. Sorprendentemente, questo è un romanzo che scalpita di ambizione, amicizia, del rifiuto di ridursi a mero soggetto abusato. Al contrario, è il medium che consente ad Antonella Lattanzi di conferire al proprio trauma e alla rabbia una dimensione collettiva, un valore che esula dalla biografia per innescare una riflessione pubblica e quindi politica sul tema della maternità:

«E se stai parlando solo a te? Mi chiedo. Un libro per essere un libro non può parlare solo a te. Deve essere di tutti. Come faccio a sapere se sto parlando solo a me? Un libro è una cosa seria. Non puoi scriverlo per sfogarti. Non puoi scriverlo perché serve a te».

Per l’appunto, questo non è un diario. Cose che non si raccontano affianca al susseguirsi degli eventi una riflessione costante su che cosa significhi scrivere un’opera autobiografica. L’invenzione letteraria del romanzo plasma l’esperienza vissuta e la rimodella riflettendo su sé stessa, sulle proprie dinamiche e omissioni, sul fatto che nel raccontare qualsiasi vicenda umana è necessario «scegliere un fuoco» e puntarlo, sacrificando ciò che resta in ombra. Tra le pagine ricorre spesso il tema della sincerità, intenso non in senso ingenuo, bensì come la responsabilità di trovare le parole giuste, quelle che meglio di altre consentono al lettore di capire perché quel fuoco è puntato lì e non altrove.

L’imperativo «sii sincera» riguarda anche il proposito letterario di abbandonare l’enfasi, le giustificazioni, la logica del piagnisteo che troppo spesso connota la letteratura del trauma: è il rifiuto stilistico di indorare la pillola. Ecco che allora Lattanzi può far confessare brutalmente alla sua protagonista che odia le donne incinte, mentre prima, quando la donna incinta era lei, dispensava consigli a chi non ci riesce «come briciole ai sudditi»; che il motivo per cui ha abortito è che voleva fare la scrittrice («non ho soldi per essere la donna ambiziosa che sono e anche una madre»); che non riesce a smettere di fumare anche se sa che è praticamente tassativo farlo.

Il tono di Cose che non si raccontano è crudo, la lingua chirurgicamente precisa, l’immaginario violento come la vicenda narrata. Leggendo, ci si imbatte nel paradosso dell’artificio invisibile: l’autrice costruisce il testo con tale sapienza narrativa che il lettore dimentica di trovarsi all’interno di un universo finzionale. Questo perché lo stile di Antonella Lattanzi accantona qualsiasi orpello o spia di quello che comunemente viene percepito come linguaggio letterario. L’impressione è quella di trovarsi di fronte a una confessione trasmessa da un parlato incredibilmente efficace, fine proprio perché la sua finezza non è mai ostentata. È la sprezzatura, ovvero l’apparente assenza di sforzo con cui la narrazione si dipana a evocare quella famigerata sincerità di cui sopra. Lattanzi ha fatto sì che il ritmo, la lingua e tutte le altre scelte stilistiche da lei operate sembrino necessarie, le uniche possibili per rielaborare questo vissuto traumatico. A parole sue: «posso scriverlo solo come posso scriverlo».

E le parole di Lattanzi sono davvero necessarie, perché ritraggono meglio di altre le spinte contraddittorie insite nel desiderio di essere madre ma non angelo sofferente, donna, ma egoista esattamente come lo può essere un uomo, piena d’amore e di volontà di cura, ma al contempo animata dalla foga di voler spaccare tutto quando la vita si inasprisce: Cose che non si raccontano dunque va letto perché è un libro che restituisce alla maternità la sua dimensione problematica e umana, spogliandola dal moralismo e dalla retorica che pericolosamente aleggiano sempre attorno al tema, e riuscendo tuttavia a non demonizzarlo. Un equilibrio difficile sorretto da una prosa vividissima, dove tra le ferite inferte dalle aspettative sociali, dal sistema sanitario, dal destino, il desiderio continua a bruciare senza consumarsi.


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https://www.einaudi.it/catalogo-libri/narrativa-italiana/narrativa-italiana-contemporanea/cose-che-non-si-raccontano-antonella-lattanzi-9788806259457/
Chiara Girotto

Redattrice in Letteratura Reels Manager