Contro la Coerenza
Quante volte ci siamo sentiti ripetere che: “Nella vita bisogna essere coerenti”? Oppure che bisogna prestare fede alla parola data. Che l’atteggiamento virtuoso è quello di chi non si smentisce. Quante volte ad ognuno di noi sarà capitato di sentirsi dire dall’amico, da un famigliare, dal fidanzato: “Ma non eri tu che sostenevi proprio questo e adesso hai cambiato idea?” Perché si viene criticati quando si sostiene l’opposto di quello che si era detto in passato, o quando ci si veste in maniera diversa da come si è sempre fatto? Insomma, perché amiamo così tanto la coerenza?
La coerenza, in un certo senso, è un modo per presupporre che una persona sia immutabile, che infondo alla sua personalità ci sia un “io” marmoreo che non cambia e al quale si può fare riferimento con convinzione. Presupporre l’esistenza di questo “io” immutabile nell’altro ci permette di incasellarlo entro determinate etichette e quindi, in fin dei conti, renderlo prevedibile. Questo atteggiamento da parte nostra è un modo in cui cerchiamo di organizzare la realtà che ci circonda. Ritenere coerente una persona significa renderla statica. È un nostro modo per fare ordine.
Così ad esempio possiamo prevedere determinati gusti personali di una persona osservando come si veste: quello è un hipster, diremo, quindi ascolterà musica indie. Il che spesso può anche essere vero, ma altre volte può portare a commettere degli errori di valutazione. I cosiddetti “luoghi comuni”, dopotutto, sono dei luoghi che possiamo abitare comodamente, dove fossilizziamo le nostre credenze e continuiamo a giocare a catalogare la realtà. Il che, a rifletterci un attimo, è un gioco da filosofi, per non dire da scienziati: ricondurre la realtà a principi che funzionano, sempre uguali, prevedibili.
Ma esiste davvero quest’io marmoreo? Un nucleo fondamentale attorno a cui ruota la personalità di un individuo, le sue caratteristiche, ciò che lo rende ciò che è in modo incontestabile? Possiamo avvalerci della parola di alcuni dei più grandi pensatori per contestare questa ipotesi. Kierkegaard in Malattia Mortale scriveva: «l’uomo è spirito. Ma cos’è lo Spirito? Lo Spirito è l’io. E l’io cos’è? È un rapporto che si rapporta a se stesso. […] Visto così, l’uomo non è ancora un io». Secondo Kierkegaard, l’io non è un’evidenza cartesiana, ma «una rete polimorfa e multiversa di rapporti». L’io è una maglia di nodi in cui i punti di incontro dei vari filamenti sono le esperienze che il soggetto fa e attraverso le quali si descrive, si conosce, si fa totalmente “io”. E ancora, Bergson, caustico, sostiene che:
è vero che la nostra vita psicologica è piena di imprevisti. Mille imprevisti sopravvengono e sembrano troncare con quello che li precede, e non collegarsi affatto a quanto segue. Ma la discontinuità delle loro apparizioni spicca sulla continuità di uno sfondo in cui si disegnano e al quale devono gli stessi intervalli che li separano […] La nostra attenzione vi si fissa perché ne è particolarmente attratta; ma ognuno di essi è portato dalla massa fluida di tutta la nostra esistenza psicologica. […] Ma poiché la nostra attenzione li ha distinti e separati artificialmente, in seguito essa è obbligata a riunirli attraverso un legame artificiale. Essa immagina così un “io” amorfo, indifferente, immutabile, sul quale sfilerebbero o si susseguirebbero gli stati psicologici che ha eretto a entità indipendenti. […] A dire il vero, questo “sostrato” non è una realtà.
Bergson, Evoluzione Creatrice (1907)
Ma se questo “io” immutabile non esiste, allora perché ostinarci a pretenderlo nella coerenza degli altri e di noi stessi? Forse perché davanti a qualcuno che si contraddice giustificandosi semplicemente con “ho cambiato idea”, le nostre certezze vengono meno. Di fronte alla facilità con cui ciò che ci sembrava un hisper si rivela essere soltanto un tizio con la barba lunga, insieme a quell’etichetta perdiamo anche un po’ del controllo che abbiamo sulla realtà. E lo perdiamo rapidamente, con una banalità disarmante, realizzando che infondo non abbiamo il controllo su nulla. E allo stesso tempo, forse, anche quelle strutture della routine, che ci sforziamo così tanto di rispettare a furia di sacrifici, ripetendoci che ci servono da davvero per raggiungere degli obbiettivi, forse anche quelle potrebbero essere sovvertite senza problemi, sostituite con uno stile di vita che ci rende più sereni, anche se meno coerenti agli occhi di se stessi e degli altri.
Se ci spostiamo in America, il filosofo Ralph Waldo Emerson in Fiducia in se stessi – parafrasando – sostiene che la coerenza sia fatta per le menti piccole, che costringe a vivere con la testa girata al contrario per controllare cosa si è detto e fatto nel passato. Operazione che il filosofo americano ritiene totalmente mediocre, perché le grandi menti dovrebbero invece guardare avanti, e cambiare, adattarsi, evolversi. In sostanza l’uomo geniale non ha tempo di vivere con lo sguardo rivolto al passato.
Il paragone Nietzsche è d’obbligo, poiché il filosofo dell’eterno ritorno fu grande lettore e ammiratore di Emerson e ne ha tramandato molti temi in Europa. Nietzsche potrebbe aiutarci a chiudere questa piccola invettiva contro la coerenza tramite una delle sue massime più famose: “diventa ciò che sei”. Questa frase di prima istanza sembra un paradosso. Come si fa a diventare ciò che già si è? Non sarà forse perché nella realizzazione di sé, nella scoperta di sé, si seguono delle linee che a noi sono oscure e che solo nel cammino che seguiamo in questa vita si svelano? Forse dovremmo avere la fiducia in noi stessi di contraddirci per confermare, in realtà, soltanto ciò che eravamo fin dal principio. Una specie di tradimento rivolto alla massima fedeltà per noi stessi.