Critica di Prosa,  Letteratura,  Premi Letterari,  Premio Strega

Il continente bianco, di Andrea Tarabbia – Premio Strega 2023

di Nicola Vavassori

I romanzi di Andrea Tarabbia creano dipendenza per i critici letterari o più in generale per chi osserva la letteratura con un occhio tecnico e attento alla pratica dello scrivere. Infatti, sotto la superficie delle sue storie si nascondono riflessioni metanarrative e piani di lettura estremamente sfaccettati; spesso l’autore non ne parla in modo esplicito e il lettore, quando riesce a scoprirli come colto da un’illuminazione, ha quasi voglia di ricominciare il libro dall’inizio per applicare le sue nuove consapevolezze: a frenarlo è soltanto la certezza che ulteriori chiavi interpretative attendono dormienti nel prosieguo della storia. Un esempio è Madrigale senza suono, il romanzo con cui Tarabbia ha vinto il Premio Campiello nel 2019, in cui la vicenda di Carlo Gesualdo di Venosa, raccontata dallo sguardo di Stravinskij, può essere interpretata in almeno tre o quattro chiavi diverse, tutte ugualmente coerenti.

Con premesse del genere non ci si può aspettare un’opera monocorde da Il continente bianco, edito per Bollati Boringhieri nel 2022 e candidato quest’anno nella dozzina finalista del Premio Strega. Eppure, chi lo aprisse senza conoscere l’autore e il significato di questo libro rischierebbe di scambiarlo per un romanzo semplice e lineare, il che forse è anche un pregio. La vicenda narrata, infatti, non ha particolari intrighi narrativi: uno psicanalista scopre che la moglie cinquantenne, Silvia, con cui ha una relazione aperta, ha come amante un giovane di nome Marcello Croce, che è a capo di una banda di neofascisti chiamata “Il continente bianco”; Silvia si lascia trascinare in un gioco di eros e violenza ripugnante, alla mercé di una serie di individui ossessionati dal controllo, fino a rimanere uccisa, come si scopre fin dalle primissime pagine del romanzo.

Il continente bianco

L’odore del sangue

Un secondo livello di lettura del Continente bianco emerge nello scoprire che l’opera è in parte una riscrittura de L’odore del sangue, romanzo incompiuto di Goffredo Parise, intriso di elementi autobiografici e di cronaca. È un testo tormentato quello di Parise, che lo scrisse di getto dopo essere sopravvissuto ad un infarto, per poi sigillarlo in un cassetto con ceralacca, piombini e un ordine: «Non deve essere pubblicato mai, ma distrutto». L’odore del sangue ossessiona lo psicanalista, alter-ego di Parise stesso, un odore che è metafora della carne di cui siamo fatti, così fragile eppure così propensa alle pulsioni della violenza e del sesso; un odore, insomma, che racchiude eros e thanatos, vita e morte, i poli freudiani che incorniciano la psiche umana.

Non è la prima volta che Tarabbia affronta questi due temi rifacendosi alla storia di qualcun altro. Madrigale senza suono esplora meandri della mente altrettanto neri, intavolando una storia dove il sesso spudorato e l’omicidio violento giocano ruoli centrali e vengono descritti con un gusto macabro che – c’è da dire – andrebbe psicanalizzato. E in effetti, come vedremo più avanti, l’autoanalisi non manca.

Nel Continente bianco il piacere della violenza e ancor di più quello per il controllo – fisico, psicologico, morale – sono problematizzati assumendo un punto di vista inedito e attuale. Associare questi temi ad una banda di neofascisti, infatti, significa presentarli come sbagliati a priori, descriverli in una versione estremizzata e distorta che non può essere condivisa. La sfida inquietante di Tarabbia, però, è quella di immergersi in questo mondo alla rovescia per cercare di capirlo dall’interno, per sentire sulla propria pelle lo stesso fascino del potere e della brutalità. È questo un modo coraggioso di discutere tematiche del genere, entrando in dialogo con una realtà tabù, spesso taciuta e poco approfondita.

Un tentativo, a nostro dire, più riuscito di quello visto l’anno scorso con Nova di Fabio Bacà, edito per Adelfi nel 2021 e finalista del Premio Strega e del Premio Campiello 2022, dove il fascino della violenza era raccontato perlopiù come qualcosa di intrigante, magnetico, spirituale, un centro che attrae senza repellere. Al contrario in Tarabbia ogni personaggio esterno alla banda neofascista del Continente Bianco è risucchiato in un vortice da cui vorrebbe fuggire, se non fosse troppo tardi: l’unica strada è rassegnarsi a sprofondare ancora più in basso.

Ti affascinano cose terribili e questo fascino ti spaventa, perché hai paura che, nascosto dentro questo sentimento, ci sia qualcosa che dice che, nel tuo profondo, sei un uomo peggiore di quello che credi di essere.

Il problema della finzione: la via di mezzo

Un ulteriore livello di complessità del romanzo sta nello scoprire che il protagonista e narratore di tutta la vicenda è un paziente dello psicanalista di nome Andrea Tarabbia. Non si tratta di un Andrea Tarabbia ideale, fuori dal tempo, ma di una versione assolutamente concreta dell’autore: i personaggi conoscono e hanno letto il suo Madrigale senza suono, anche se non lo nominano mai direttamente, e la storia si intreccia a riflessioni di carattere personale e soprattutto metanarrativo. Il che permette di aprire alcune questioni a proposito della narrativa contemporanea, che partono da una domanda che pare semplice: come si scrive una storia di finzione?

Nella recensione di ieri, parlando di Maria Grazia Calandrone, abbiamo già accennato al fatto che la letteratura italiana contemporanea – e non solo – si muove attualmente tra le maglie di una rete chiamata Nuovo Realismo: ogni racconto che si rispetti si apre con il proverbiale messaggio “Tratto da una storia vera” e spesso, purtroppo, pretende di reggersi in piedi semplicemente perché parla di qualcosa di reale e socialmente importante, infischiandosene di curare artisticamente la scrittura (peccato di cui la Calandrone fortunatamente non si macchia). Al giorno d’oggi, insomma, o è tutta Vera Verità Veritiera, o è tutto Falso.

Spesso manca una via di mezzo, quella del Finto: storie verosimili che non hanno la pretesa di raccontare fatti reali, ma che si concentrano in primis sulla bellezza del narrare. Mancano romanzi come Madrigale senza suono, che ci riescono a parlare anche se sono ambientati nel Seicento e descrivono nani scrittori e prigionieri deformi nelle segrete di un castello intorno alla biografia di un famoso compositore.

Da questo punto di vista, Il continente bianco è un paradosso apparente, un cortocircuito funzionale. Il romanzo, infatti, si dichiara fin da subito come una riscrittura dell’opera di Parise, ma poi fa di tutto per sembrare reale, autentico, verosimile, un’esperienza realmente accaduta a Tarabbia in persona. Si tratta di un’operazione di para-fiction storytelling onesto: una storia finta che vuole di sembrare vera, ma continuando a ricordarci che è anche finta. Ed è qui che è rinchiuso in nuce il senso stesso della letteratura: creare universi possibili, anche molto simili al nostro, dove il reale non sia per forza realistico, dove la bellezza di leggere ci separi e insieme ci unisca al mondo.

Quando un personaggio controlla il suo libro

In che modo Tarabbia ricorda costantemente al lettore – e anche a se stesso – che la storia che sta scrivendo è, prima di tutto, un racconto di finzione? Le strategie sono sottili, ma è proprio qui che risiede l’attrattiva letteraria di cui ho parlato in apertura. Tarabbia dedica molte pagine alla riflessione metanarrativa sulla materia dello scrivere. L’intero libro, anzi, prende piede perché il Tarabbia protagonista desidera trovare l’ispirazione per una storia e dunque si addentra in modo irrazionale alla scoperta del Continente Bianco, con la curiosità di un antropologo. E questo tema della ricerca di una materia da narrare si riverbera fino a toccare anche una vicenda personale lontana, ricordata dall’autore: in viaggio verso Soroca, aveva incontrato una donna di nome Anna e si era appassionato alla sua storia, desideroso di renderla un suo personaggio.

Queste incursioni metaletterarie del narratore sono presenti anche ad un livello più microscopico. Tarabbia interviene con brevi incisi a commentare ciò che sta scrivendo mentre lo scrive, ora ricordando un nome dimenticato (Paloma! Eccolo, dunque, quel nome bizzarro), ora rivolgendo apostrofi al lettore (E insomma, lettori, io non voglio farla tanto lunga), ora domandandosi come procedere (Ho pensato e ripensato molte volte a come scrivere questo capitolo).

Un altro elemento trasversale sono i continui rimandi letterari, come spiega lo stesso autore nella nota conclusiva e nel corso nel romanzo: Non so raccontare una storia dal vero senza mescolarla con la letteratura e dunque con l’immaginario altrui. Tarabbia gioca con i suoi riferimenti e si ammicca al lettore che li comprende. Ad esempio, “Paloma” è il nome dell’amante dello psicologo nell’Odore del sangue di Parise. Ma dopotutto Tarabbia impersona il paziente di un dottore che è l’alter-ego di Parise stesso: non esiste metafora migliore per descrivere il dialogo con i modelli letterari. Da Pratolini a Dostoevskij, dai Vangeli a Curzio Malaparte, Tarabbia ha disseminato nel Continente Bianco riferimenti per i lettori più accorti che spesso sarebbero difficili da rintracciare perfino per lui. Noi, per gioco, ne azzardiamo uno che forse è tra i più inconsci, notando che l’unica donna della banda di neofascisti si chiama Franziska come la protagonista dell’ultimo incipit, il più importante, di Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino, il libro metaletterario per eccellenza.

Ma c’è anche un ultimo elemento, il più interessante, che riprende una “faccenda pirandelliana” di lunga tradizione. Marcello Croce, l’amante di Silvia, è un personaggio sfuggente, incontrollabile, che ammalia e guida il personaggio-narratore-autore di Andrea Tarabbia, e nella finzione narrativa arriva ad assecondare – se non pure commissionare – la scrittura del Continente bianco, il libro che stiamo leggendo, come testimonianza dell’esistenza del movimento neofascista di cui fa parte. Addirittura, Marcello commenta con Tarabbia alcuni capitoli dell’opera che sta scrivendo e che noi abbiamo appena letto o che stiamo per leggere. Come nel teatro alla rovescia dei Sei personaggi di Pirandello, Marcello Croce prende il controllo della storia, esercitando la sua influenza manipolatoria sull’autore. Eppure, qui il capovolgimento non è un’assurdità che “buca il cielo di carta” rivelando la finzione narrativa, ma è l’ennesimo elemento che rende quella finzione ancora più verosimile.

Tarabbia è riuscito a integrare nella riscrittura e reinterpretazione di un romanzo di Parise un discorso metanarrativo intelligente, contestualizzandolo perfettamente nel racconto, il che dimostra una grandissima consapevolezza dell’arte dello scrivere. Il punto più altro di questo processo è il capitolo intitolato “Il serpente”, dove Marcello Croce dialoga con Andrea Tarabbia, interrompe il suo divagare narrativo e arriva addirittura a psicanalizzarlo, riprendendo quel binomio di eros e thanatos che abbiamo già sottolineato come costante nelle opere dell’autore.

«Ogni volta che scrivi una storia, un uomo uccide la donna che ama» disse Marcello Croce, interrompendo il corso dei miei pensieri, o forse il mio racconto.

Marcello Croce in questo modo prende vita, si svincola dalla narrazione e, alla fine, sparisce, sfugge a qualsiasi destino premeditato che un narratore onnisciente possa volergli affibbiare. L’unico finale possibile per un’opera del genere è quello che si conosce fin dalle prime pagine e il testo si chiude come un serpente che si morde la coda, l’uroboro di se stesso che contiene nei suoi capitoli anche la sua stessa origine.


Spunti per la scrittura di questo articolo nascono dalla lettura di:

Federico Bertoni, Una faccenda pirandelliana. Avventure del personaggio, in “Pirandelliana”, 13, 2019.

Federico Bertoni, Il problema del realismo, in Laura Neri, Giuseppe Carrara (a cura di), Teoria della letteratura, Carocci 2022.

Mario Lavagetto, Bugia/Storia/Finzione/Verità, in Mario Lavagetto, Lavorare con piccoli indizi, Bollati Boringhieri 2003.

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Il continente bianco