Cinema

Conta più il viaggio o la destinazione? Dopo 3 ore e 35 minuti, The Brutalist punta tutto sulla seconda. E vince 3 Oscar.

The Brutalist, film in lizza per 10 premi Oscar, se ne è portati a casa tre: Adrien Brody vince la statuetta come miglior attore, vinte anche la fotografia e la colonna sonora originale.

Il regista, Brady Corbet, inizia la sua carriera nel cinema da giovanissimo come attore in film d’autore indipendenti. Nel 2015 l’esordio da regista con “The Childhood of a Leader”, basato su un racconto di Sartre e premiato con il Leone del Futuro a Venezia. The Brutalist è il suo terzo film, indipendente, con un budget tra i 6 e i 10 milioni di dollari, che per un film di 3 ore e 35 minuti qualsiasi non sono molti, ma è una cifra davvero esigua se si considera anche solo la scenografia di questa pellicola. La scelta, come riportato dal regista, è stata spinta dal desiderio di affrancarsi dalle dinamiche economiche delle grandi produzioni a vantaggio di una libera espressione creativa.

La trama

La storia è divisa in tre capitoli e racconta l’emigrazione di Laszlo Toth, un architetto ungherese, ebreo, della Bauhaus, già affermato in Europa, ma perseguitato dal regime nazista.  Uscito da un campo di concentramento, nelle prime scene lo vediamo sbarcare negli Stati Uniti dove già vive il cugino Attila mentre moglie e nipote rimangono in Europa in attesa di poterlo raggiungere. Come promesso il viaggio rimane nel passato prossimo del film, contano i giorni a partire dalla destinazione-sogno: gli Stati Uniti. Qui incontrerà il magnate Von Buren che, affascinato dal suo passato e dalle sue opere, lo aiuterà a far arrivare il resto della famiglia negli USA e gli commissionerà un progetto ambizioso e di grande portata: un unico edificio che preveda un centro culturale, un ginnasio, una cappella e una biblioteca. Il loro rapporto evolve in una modulazione di conflitti che, esplosi, si dissolvono come si dissolvono le immagini di apertura relative al primo viaggio e al primo conflitto di provenienza. L’epilogo infatti, con un salto temporale e di trama, chiude con un’esposizione in onore dell’ormai anziano architetto alla prima Biennale di Architettura di Venezia del 1980.

Ma chi era Laszlo Toth?

La domanda sorge spontanea a molti spettatori che siano minimamente appassionati d’arte, design e architettura. Tra gli scaffali della mente nulla, della Bauhaus si ricordano altri architetti sui manuali. Tuttavia, il suo nome suona familiare, sarà uno dei “minori”. Poi si accende la lampadina o si accede a Wikipedia: è il nome del signore che il 21 maggio del 1972 prese a picconate il naso della Pietà di Michelangelo nella Basilica di San Pietro! 

L’omonimia non sembra casuale, anzi: durante il frenetico viaggio d’apertura del film Laszlo si rompe il naso, silente peculiarità anatomica legata alla comunità ebraica, rievocato spesso nel film sia a livello di sceneggiatura – verrà “curato” con eroina, dalla quale poi svilupperà una dipendenza – sia a livello di inquadrature e dettagli che spesso vanno ad accentuare questo elemento anatomico sul protagonista e su altri personaggi ebrei. 

I temi affrontati

Il confronto tra culture, la religione, l’arte, l’accettazione e la distruzione nella costruzione sociale sono le tematiche che il film affronta, ma non è chiaro il discorso che ne faccia. Sembrano accennare a chiarirlo delle voci “d’epoca” fuori campo, radiofoniche e televisive, che commentano i fatti del racconto con una distanza che richiama al mondo reale del passato: sembrano essere in principio la voce critica che fa da controcanto ai silenzi densi di Laszlo e dei suoi famigliari, ma poi non si arriva a una vera e propria riflessione. Il messaggio alla fine sembra essere l’importanza di affrontare e abbracciare le contraddizioni della vita e della società, di tener vivi i propri ideali e la propria integrità e che le persone che ami possono nutrire la speranza di vita anche dopo i più grandi traumi. Emerge chiaramente – fin troppo e in modo un po’ stereotipato – la critica al contesto statunitense, nazione fondata sull’immigrazione che poi però rifiuta gli immigrati, che considera il circolo arricchito gli unici veri cittadini e gli altri a malapena persone.

Per quanto riguarda l’aspetto religioso viene reso il conflitto con la comunità cristiana, cattolica e protestante, sempre presente con sottigliezza e che diventa man mano più pervasivo, fino al grido di Laszlo alla moglie “Non ci vogliono!”. Una delle voci fuori campo inoltre è proprio quella di David Ben Gurion, capo esecutivo dell’Organizzazione sionista mondiale, che annuncia la Dichiarazione d’indipendenza israeliana nel maggio 1948. La nipote sceglierà di seguire il movimento sionista e di trasferirsi nel nuovo stato di Israele; la conversazione che i personaggi principali intrattengono a riguardo è brevissima e non viene affrontata in alcun modo la questione del sionismo come movimento particolare entro dinamiche complesse, non necessariamente condiviso da tutti gli ebrei. Nel momento storico in cui viviamo rimane un elemento buttato lì a lasciare il dubbio allo spettatore che il silenzio non sia ideologico e politico, lasciando una sensazione di fastidio senza materiale su cui riflettere.

L’arte, sicuramente, invece, è l’obiettivo della pellicola: ogni aspetto del film lo chiarisce e lo ribadisce, anche non arrivando a ricordare della particolare omonimia del protagonista.

Lo stile in gioco è il brutalismo, come dichiara il titolo, ma poi moltissimo verte sul Bauhaus. Solo un conoscitore esperto riesce a cogliere che l’apparente incongruenza è dovuta all’evoluzione dello stile di Laszlo una volta arrivato negli Stati Uniti, aspetto d’altronde non mostrato ma detto. Si tratta di una corrente europea di modernismo “pesante” e diverso (l’esempio italiano più conosciuto è la Torre Velasca di Milano) – per quanto derivato – rispetto alla scuola di Gropius, che Oltreoceano ha declinazioni peculiari. Probabilmente la scelta di tenere il Bauhaus come sfondo riflette il desiderio di porsi sul punto di vista di Laszlo e incarnarne la provenienza per mostrare il sorgere della sintesi nuova dal confronto con il mondo che incontra, ma rimarrebbe comunque un aspetto non in dialogo con gli altri elementi narrativi.

Effettivamente, da subito colpiscono le grafiche dei titoli di testa, coda e titoletti dei capitoli, che sono eccentriche e accuratamente studiate in stile -appunto- Bauhaus, mentre la qualità estetica e fotografica delle scene e delle inquadrature non smette di stupire lungo tutta l’enorme durata del film. Grande merito va anche ai progetti architettonici e di design che sono stati studiati ed elaborati accuratamente dalla scenografa Judy Becker. La scelta di un formato “storico”, di una materialità diventata di lusso nell’epoca digitale, ovvero della pellicola Vista Vision 35mm è un altro sintomo della mania di grandeur che se durante la visione sembra andare a parare da qualche parte, alla fine del film si rivela e rimane tale, in un’apologia al protagonista e al brutalismo alla Biennale, che nel 1980 reale presentava una riflessione ben più strutturata sul postmodernismo. Per non farsi mancare nulla una presentazione stilistica meta-cinematografica commenta il progredire dei decenni del secolo nella trama con look che corrispondono, dapprima, all’estetica e alle tecniche degli anni ‘40/50 con l’effetto della pellicola usurata, con la Statua della Libertà che compare all’inizio a testa in giù e fuori asse e la classica ripresa dei binari del treno che citano film dell’epoca e l’occhio “chirurgico” della macchina da presa con le sue inquadrature “impossibili” teorizzato da Ejzenstejn – la pasta e il colore degli anni ‘60 – le dissolvenze flash a rombo, i tipici colori acidi e la grana della tv ‘80. La serrata successione e l’alternarsi di questo con lo stile immersivo del cinema e dei mezzi contemporanei nascondono la banalità e l’irriflessività mimetica delle citazioni, comunque ben realizzate e affascinanti. Il regista ha spiegato – purtroppo però lo fa fare anche nel discorso finale della nipote alla Biennale – che la scelta di questo specifico stile artistico, il brutalismo, è stata motivata dal fatto che per lui rappresenta “qualcosa che le persone non comprendono e quindi vogliono abbattere ed eradicare”, capace ciò nonostante di trascendere il tempo ordinario in quanto arte. Il pensiero è sintetizzato nell’espressione ripetuta almeno tre volte nella sceneggiatura “il nocciolo duro della bellezza”, infelice in quanto non supera l’assunto “arte=bellezza”, o meraviglia, appiccicandola addirittura al brutalismo e non arrivando a sondare a fondo il senso di quest’ultimo. In ultimo, per quanto riguarda la sceneggiatura, non può mancare una sbrigativa citazione a Goethe con una massima d’effetto sulla libertà.

Il film sotto questo aspetto delude ed è tautologico: il titolo ha già detto tutto quello che viene poi esposto in maniera didascalica dal film. Vuole essere un’opera d’arte e fa di tutto per esserlo tranne quello che dovrebbe, ovvero esprimersi in piena libertà non solo da questioni economiche, ma anche da personali ambizioni e desideri precostituiti per riuscire davvero a mettere in crisi assunti e pregiudizi sociali, per lavorare insieme forma e contenuto, inscindibili nella concezione di un’opera originale e originaria. 

Bisogna comunque riconoscere l’alta qualità della “forma” – anche se andrebbe sondato meglio cosa essa sia e cosa comporti in un’opera cinematografica – che in un primo momento ha abbacinato e ammaliato anche chi scrive e che rende le 3 ore e mezza godibilissime e veloci. Altra nota di merito al cast e alle interpretazioni eccezionali e all’utilizzo innovativo e virtuoso dell’AI generativa (con il software Respeecher) per dare ancora più definizione all’accento e alla lingua yiddish e ungherese che gli attori americani hanno comunque studiato e interpretato con grandissima dedizione. Infine, una colonna sonora davvero sperimentale e capace di dare tono e profondità alle immagini, opera di Daniel Blumberg, che effettivamente risulta come nelle sue intenzioni al contempo “minimalista e massimalista”.

Alla fine, quindi?

Il finale sveglia dall’incanto: la nipote afferma “non importa cosa vi insegnino, quello che conta non è il viaggio, è la destinazione.” Si troverebbero all’improvviso d’accordo i turisti della Venezia rappresentata sul finale, uniche inquadrature davvero scadenti che sembrano prese letteralmente dalle cartoline disponibili per strada a Milano: dopo aver scritto o messo like al motto contrario, si renderebbero conto che effettivamente per loro, felici partecipanti del turismo di massa di cui Venezia con tristezza è l’emblema, è proprio solo la destinazione che conta. Conta esserci stati, a Venezia, pace se non si capisce niente della stratificazione secolare delle opere architettoniche e urbanistiche di Piazza San Marco, pace se non ci sono più abitanti: Io a Venezia e alla Biennale ci sono andato. E Io mi identifico in questa appropriazione auratica, che non è poi tanto esperienziale o significativa, non aggiunge alcuno strato di senso se non quello di personale e mero, effimero appagamento.

Dal motto assoluto e esteso a non meglio precisate dimensioni di vita, buttato addosso allo spettatore, nasce il senso di fastidio finale e lo smascheramento della pomposità – monumentalità! – che si innesta nella naturale obiezione: come può essere la destinazione, il senso di tutta una vita? E dove ci porta, questo film?




www.arateacultura.com

Rottentomatoes

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Beatrice Buratti

Redattrice in Arte

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