Conservativismo. Il treno nella poesia di Carducci, Pascoli, Sereni e Giudici
di Marco Cresti
Si vuole prendere in esame la prospettiva del poeta, visto anche come intellettuale, rispetto alla modernità tecnologica, in particolare verso il treno e la ferrovia che rappresentano delle innovazioni epocali nella seconda metà dell’Ottocento e rimangono tali almeno nell’immaginario collettivo, e forse anche poetico, fino alla seconda metà del Novecento.
Gli autori trattati rappresentano più di un secolo di storia di poesia ma, come vorrei dimostrare, si attengono a una visione, come intellettuali prima che come poeti, sostanzialmente conservatrice verso l’elemento tecnologico rappresentato dal treno, descritto spesso come elemento di minaccia e perfino come elemento che può rientrare nella definizione di mostruoso.
La prima poesia presa in considerazione viene dalle Odi barbare di Carducci (1877) e si tratta di Alla stazione in una mattina d’autunno:
Oh quei fanali come s’inseguono
accidiosi là dietro gli alberi,
tra i rami stillanti di pioggia
sbadigliando la luce su ‘l fango!
Flebile, acuta, stridula fischia
la vaporiera da presso. Plumbeo
il cielo e il mattino d’autunno
come un grande fantasma n’è intorno.
Dove e a che move questa, che affrettasi
a’ carri foschi, ravvolta e tacita
gente? a che ignoti dolori
o tormenti di speme lontana?
Tu pur pensosa, Lidia, la tessera
al secco taglio dài de la guardia,
e al tempo incalzante i begli anni
dài, gl’istanti gioiti e i ricordi.
Van lungo il nero convoglio e vengono
incapucciati di nero i vigili,
com’ombre; una fioca lanterna
hanno, e mazze di ferro: ed i ferrei
freni tentati rendono un lugubre
rintocco lungo: di fondo a l’anima
un’eco di tedio risponde
doloroso, che spasimo pare.
E gli sportelli sbattuti al chiudere
paion oltraggi: scherno par l’ultimo
appello che rapido suona:
grossa scroscia su’ vetri la pioggia.
Già il mostro, conscio di sua metallica
anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei
occhi sbarra; immane pe ‘l buio
gitta il fischio che sfida lo spazio.
Possiamo riscontrare qui una piena affermazione ideologica del più importante poeta italiano del suo tempo, e di uno dei principali intellettuali, sulla modernizzazione, che in questa poesia ha per emblema il treno. La connotazione che l’io dà del treno pertiene al terreno del mostruoso: il treno è il mostro della modernità. Il treno è «un grande fantasma» (v.8) che porta la tenebra nei luoghi in cui passa. La modernizzazione, che porta con sé i controlli inquietanti della guardia (vv. 13-16), sconfigge una presunta età dell’oro precedente, contadina e preindustriale, che è il tempo che il poeta definisce in questo modo: «al tempo incalzante i begli anni / dài, gl’istanti gioiti e i ricordi» (vv.15-16). Anche le guardie della stazione rientrano in quest’aura mortifera emanata dal treno, sono alla stregua di ombre, di messi infernali della modernità. L’io si sente minacciato dai rumori perfino del treno: «e gli sportelli sbattuti al chiudere / paion oltraggi» (vv.25-26). Nell’ultima quartina si esplicita l’accostamento fra treno e mostro, un mostro con «metallica / anima» (vv.29-30) e dotato di «occhi» perfino, e di nuovo torna l’elemento di rottura, di sfida, con il passato preindustriale rappresentato nei seguenti versi: «immane pe’l buio / gitta il fischio che sfida lo spazio» (vv.31-32), come se questa invenzione creasse una sfida allo spazio che le preesisteva. E questo è un timore fondato del poeta, dato l’immenso cambiamento paesaggistico, urbanistico e spaziale prodotto dal diffondersi della rete ferroviaria nella seconda metà dell’Ottocento.
Un’altra poesia di Carducci in cui si scova una visione sostanzialmente conservatrice nei confronti dell’innovazione tecnologica rappresentata dal treno, non certo priva di contraddizioni, viene dalle Rime nuove (1887) e si tratta di Davanti San Guido, testo che sarà di riferimento anche per Pascoli, nell’esempio che si riporta in seguito. Prendo in esame soltanto alcuni versi del brano carducciano:
[…]
Ansimando fuggìa la vaporiera
Mentr’io così piangeva entro il mio cuore;
E di polledri una leggiadra schiera
Annitrendo correa lieta al rumore.
[…]
In questa quartina si ripropone il treno come portatore di segnali negativi, elemento scatenante dolore nei sentimenti dell’io: lo si può vedere al verso secondo tra quelli riportati, in cui il rumore della vaporiera corrisponde al pianto dell’io; di contro, gli altri due versi riportati offrono un’immagine che contrasta con la presenza lugubre del treno, dato che raffigurano una schiera di cavalli, che erano il mezzo di trasporto principale prima della rivoluzione industriale, che invece corre «lieta», cioè leggera, e questo sembra risollevare l’animo dell’io, evidentemente legato culturalmente e storicamente al mondo contadino e che si vede stravolta dalla automazione e dalla presenza della macchina.
Un autore che si ricollega a questo taglio anche ideologico della figura del poeta è Pascoli. Da La via ferrata, testo che entra nell’edizione di Myricae del 1892, scaturisce una visione sostanzialmente minacciosa portata dalla ferrovia come elemento di reale sconvolgimento a livello industriale paesaggistico e quotidiano a quest’altezza cronologica.
Tra gli argini su cui mucche tranquilla-
mente pascono, bruna si difila
la via ferrata che lontano brilla:
e nel cielo perla dritti, uguali,
con loro trama delle aeree fila
digradano in fuggente ordine i pali.
Qual di gemiti e d’ululi rombando
cresce e dilegua femminil lamento?
I fili di metallo a quando a quando
squillano, immensa arpa sonora, al vento.
In questo madrigale la rotaia, insieme all’altro elemento tecnologico impattante rappresentato dal telegrafo, vengono descritti come rumori che “alludono a inquietanti misteri”[1]. In un verso della poesia incontriamo il «femminil lamento» (v.8) che per alcuni critici, si ritiene riferibile alla vaporiera, su impronta carducciana, quindi al treno a vapore. Anche qui, come nella seconda poesia riportata di Carducci, il lamento del treno si oppone alla scena bucolica inziale, in cui l’elemento animale è parte di un mondo contadino e arcadico che ispira invece tranquillità all’io, il quale viene turbato dal passaggio del treno. Mentre il telegrafo è accostato in positivo a un elemento musicale «arpa sonora, al vento» (v.9), il treno si “esprime” attraverso «gemiti» (v.7) «ululi» (v.7) e «lamento» (v.8).
Un altro autore in cui ho visto le tracce di una visione poetica avvicinabile è Vittorio Sereni. In Sereni troviamo delle immagini minacciose dei treni che preannunciano la seconda guerra mondiale, e siamo all’interno della raccolta Frontiera (1941). Proprio da questa raccolta è tratta la poesia che riporto, ovvero Concerto in giardino:
A quest’ora
innaffiano i giardini in tutta Europa.
Tromba di spruzzi roca
raduna bambini guerrieri,
echeggia in suono d’acque
sino a quest’ombra di panca.
Ai bambini in guerra sulle aiole
sventaglia, si fa vortice;
suono sospeso in gocce
istante
ti specchi in verde ombrato;
siluri bianchi e rossi
battono gli asfalti dell’Avus,
filano treni a sud-est
tra campi di rose.
Da quest’ombra di panca
ascolto i ringhi della tromba d’acqua:
a ritmi di gocce
il mio tempo s’accorda.
Ma fischiano treni d’arrivi.
S’è strozzato nel caldo
il concerto della vita che svaria
in estreme girandole d’acqua.
In questa poesia vediamo che i treni «filano» (v.14) e «fischiano» (v.20); soprattutto nel secondo caso, si presenta il treno in un versicolo staccato che riporta uno degli stilemi più emblematici della scrittura di Sereni cioè il “Ma”: «Ma fischiano treni d’arrivi» (v.20) è un verso che crea una rottura, una strozzatura della poesia con un segnale nefasto che è l’avvicinarsi della guerra anche per l’Italia. Un segnale, infatti, quello dei treni, che rappresenta il “mostro” che interrompe il «concerto della vita» (v.22).
E vediamo ancora un’altra poesia della raccolta, che è In me il tuo ricordo:
In me il tuo ricordo è un fruscìo
solo di velocipedi che vanno
quietamente là dove l’altezza
del meriggio discende
al più fiammante vespero
tra cancelli e case
e sospirosi declivi
di finestre riaperte sull’estate.
Solo, di me, distante
dura un lamento di treni,
d’anime che se ne vanno.
E là leggera te ne vai sul vento,
ti perdi nella sera.
Qui il «lamento di treni» (v.10) – si noti che si tratta dello stesso termine pascoliano della poesia riportata sopra – fa da cornice allo sforzo della memoria dell’io di trattenere il ricordo del tu a cui si riferisce la poesia. In questo caso, il lamento del treno è un’espressione dell’io e significa dunque l’unione tra questo e le “anime che se ne vanno” (v.11).
In un’altra poesia di Sereni si incontrano i caratteri inquietanti e minacciosi legati all’immaginario poetico del treno. Mi riferisco a Intervista a un suicida dalla raccolta Gli strumenti umani (1965).
[…]
Ero, come sempre, in ritardo
e il funerale a mezza strada, la sua furia
nera ben dentro il cuore del paese.
Il posto: quello, non cambiato – con memoria
di grilli e rane, di acquitrino e selva
di campane sfatte –
ora in polvere, in secco fango, ricettacolo
di spettri di treni in manovra
il pubblico macello discosto dal paese
di quel tanto…
In che rapporto con l’eterno?
[…]
Qui l’occasione da cui scaturisce la poesia è già funesta di suo: si tratta del funerale di un suicida conoscente del poeta. Anche qui il treno è accostato a l’elemento fantasmatico. In un elenco di immagini sterili, gli «spettri di treni in manovra» (v.8) aggiungono una carica mortifera, un senso di spaesamento ulteriore. Anche in questo caso, i primi versi riportano a un “prima” vissuto dal poeta: «il posto: quello, non cambiato» (v.4) e l’elemento del treno sorge anche qui a scostare l’io da questo ricordo, infatti tutta la sequenza «ora in polvere, in secco fango, ricettacolo / di spettri di treni in manovra» (vv.7-8) segna una rottura con l’immaginario impresso nella memoria dell’io e lo riporta bruscamente a un presente di morte, che rende sterile anche il fango, al funerale nel paese, e in cui i treni sono un chiaro riferimento di morte.
In un altro autore del secondo Novecento troviamo una prospettiva simile sull’elemento del treno. Si tratta di Giovanni Giudici, che ambienta molte sue poesie in viaggio in cui ricorre spesso l’elemento della stazione. Vorrei qui soffermarmi su uno stralcio della poesia Un’altra voce, dalla raccolta La stazione di Pisa e altre poesie (1955).
[…]
(E fosse stato amore la mia sola
Verità di rimorsi?)
Un’altra voce
Oggi mi parla che non so, mi dice:
lo sai perché resistere. E resisto
a un assedio di giorni e di rotaie,
d’empi orologi, di tranvai, di strade
affollate al mattino, se con voi
io m’affretto ai cancelli (e mi ripete:
lo sai perché resistere), se ancora
l’eco perdura in me della mia casa,
della porta sbattuta sulla quiete
del respiro domestico.
La morsa
s’allenta e si richiude; si ripetono
gli scatti, brillano i fuochi, ritornano
le oscure vigilie in cui m’inseguo.
In questa poesia, Giudici riporta una serie di elementi della modernità tecnologica visti in maniera minacciosa. L’io rimane infatti in un campo semantico che rievoca la battaglia («e resisto» (v.4) oppure «un assedio» (v.5)), quindi, oltre che al terreno del mostruoso, si fa riferimento anche a un rischio di offesa da parte dell’elemento tecnologico, di cui l’io non solo diffida, ma è in allerta e teme per la propria integrità. E questi versi indicano come l’io non sia in grado di trovare una risposta per uscire da questa aggressione tecnologica, non sapendo come definirla. In questo, il finale è indicativo di un eterno ritorno del negativo, evidente negli ultimi due versi: «ritornano / le oscure vigilie in cui m’inseguo» (vv.14-15). In Giudici quello del treno è un elemento correlato alla critica verso la quotidianità borghese, che diventa per alcuni aspetti una vera e propria trappola per l’io.
[1] Pascoli, Myricae, a cura di G. Lavezzi, Milano, Bur, 2015, (p.248).
L’autore:
Marco Cresti, nato a Siena nel 1998. Mi sono laureato presso l’Università degli Studi di Siena, corso di Studi Letterari e Filosofici, nel 2021 con una tesi sull’autorappresentazione in musica del poeta in alcuni autori contemporanei. Attualmente frequento il corso di studi di Italianistica presso l’Università degli studi di Bologna. Mi interesso di poesia contemporanea in particolare italiana.