Cinque parole dalla guerra
Ci sono circa duemila chilometri che separano Kiev da dove queste righe stanno venendo scritte. La
guerra è fisicamente molto lontana dall’Italia, ma fotografie, racconti, notizie e testimonianze
stanno raggiungendo i nostri telefoni e le nostre televisioni a getto continuo, lasciando impresse
nella memoria di ognuno immagini che nessuno avrebbe voluto vedere. In questo marasma di input,
in queste giornate in cui gli equilibri del mondo vacillano e con loro la vita di milioni di persone,
per lo più indifese, si illuminano e si rendono visibili cinque parole, cinque parole dalla guerra.
Umanità: “che mostro sei”, ci si chiede in questi giorni, “per spingere sull’orlo del precipizio la
vita di civili inermi?” Si ricerca il nemico chimerico, il male metafisico che può solo agire nella
malvagità, il demonio incarnato che travia e condanna gli umani. È un peccato constatare che dietro
le azioni più turpi, dietro le esistenze stroncate, ci sono semplici uomini. Enti finiti, vestiti in giacca
e cravatta, che giocano a scacchi muovendo pedine di carne e sangue, tanto banali da essere mortali
e vincibili. E se in questa debolezza risiede la speranza, spietata si mostra anche la realtà più
inquietante.
Narrazione: dal calduccio delle nostre case e dalla sicurezza delle nostre routine non c’è modo di
capire cosa effettivamente sia la guerra. Tutto ciò che possiamo avere tra le mani al massimo è un
racconto, più o meno dettagliato, di una serie di eventi. È per questo che i coraggiosi inviati in
Ucraina escono per le strade con un caschetto sulla testa e con un giubbotto antiproiettile con in
bella vista la scritta “PRESS”, per provare a carpire e riferire fatti e percezioni in grado di
permettere a noi fortunati di approssimare un disegno di ciò che sta accadendo. Ma questo,
ricordiamocelo, non è altro che una narrazione. Singolare. Interpretata. Parziale. Lontana.
Impotenza: al cospetto della sofferenza degli sfollati, del pianto degli afflitti, della fuga dei
rifugiati, si rivela la tragicità della nostra finitezza. Con le mani in mano, davanti agli schermi
luminosi che recitano l’elenco delle nuove sanzioni dei governi occidentali, ci sentiamo inermi,
esclusi e fagocitati da una realtà che vediamo disgregarsi a velocità supersonica, impotenti come
davanti ad un predatore che trucida il suo pasto.
Innocenza: mentre i pochissimi decidono il destino tragico dei più, mentre i potenti giocano a
essere Dio in forma umana, il primo bersaglio che viene attaccato è l’innocenza. Troppo pericolose
le vite ripetitive e anonime dei civili, necessitano di essere riviste per giustificare lo scempio, vanno
macchiate di un peccato originale tanto umano quanto profondo per legittimarne la fine e lo sconvolgimento. Muori perché stai dalla parte sbagliata, perché hai appoggiato il male, perché hai
lasciato che decidessero per te. Ma, anche crivellata di colpi, l’innocenza non vacilla, perché un
morto innocente rimane innocente.
Voce: la guerra toglie le speranze a tanti, la vita a troppi, ma ad alcuni resta la voce. La voce
squillante dei manifestanti russi che sfidano le autorità contro l’offensiva in corso, la voce
intermittente dei reporter che si espongono a pericoli immensi per permetterci di intravedere cosa
sta accadendo, la voce silenziosa dei civili che, inermi, bloccano un convoglio di mezzi corazzati
nella loro avanzata. È quella voce ciò che può trarre in salvo da sotto le macerie, quel “Here I
stand” che ferma la nebbia della violenza dall’avvolgere la singolarità.
La scrittura che libera: Primo Levi “a lezione”da Freud – Intermezzo (arateacultura.com)