“Il cerchio perfetto” di Claudia Petrucci – Recensione
Un libro, proprio come una casa, poggia su una pietra angolare che vi fa da fulcro. Può trattarsi di un’idea sfuggente, di un tema di fondo, di una scena vivida nell’immaginazione dell’autore, insomma: un elemento a partire dal quale si erigono prima le fondamenta, poi l’intera impalcatura. L’impressione che si ha leggendo Il cerchio perfetto (Sellerio, 2023), secondo romanzo di Claudia Petrucci, è di una pietra d’angolo ben solida, che però sorregge un edificio a tratti fragile. L’opera, finalista del Premio TIR 2023, è nel suo complesso godibile e ben congegnata, ma in alcune parti rimane approssimativa e non riesce ad approfondire in modo soddisfacente per il lettore molti degli spunti che propone.
La pietra d’angolo è il fondamento. Mi sembra di avere costruito la casa intera allo scopo di onorarne una sola parte; tutta la costruzione non è che una giustificazione a questo centro di pochi metri. Su questo centro si regge ogni cosa, fuori, e ancora di più dentro.
Claudia Petrucci, Il cerchio perfetto, p. 126
Così scrive Claudia Petrucci, per bocca di uno dei suoi personaggi, riferendosi alla casa di via Saterna, il luogo in cui si svolgono la maggior parte delle vicende del romanzo. L’affermazione acquista anche un significato metanarrativo, in virtù sia della posizione centrale del capitolo in cui compare, sia del fatto che l’autrice afferma di aver concepito l’opera a partire da uno schizzo della planimetria dell’edificio stesso.1 Questa corrispondenza tra la casa e il romanzo è un elemento ricorrente e che non si limita alla sostanza, ma anche alla forma: così come la piantina dell’abitazione è eccentrica – squadrata all’esterno e circolare all’interno – allo stesso modo il romanzo rivela una costruzione interna ad anello, dove l’ultimo capitolo sembra incoraggiare il lettore a ricominciare dal primo. E in effetti tornando a posteriori su alcuni dei primi capitoli del romanzo emergono dettagli e riferimenti che si possono cogliere solo a storia conclusa, regalando in questo modo all’opera una qualità rarissima nella letteratura contemporanea: un notevole valore di rilettura.
In senso lato, la pietra d’angolo su cui poggia Il cerchio perfetto è proprio la sua struttura, originale, intricata, ma per niente ardua da comprendere e seguire. La trama, infatti, si compone di due linee temporali che procedono in senso opposto. La prima è la storia di Lidia Castelli, una ventenne dell’alta borghesia milanese che, negli anni 80, muore precipitando dal secondo piano della casa di via Saterna. Da quel momento la vicenda procederà a ritroso, ricostruendo gli ultimi due anni di vita della ragazza e la sua storia d’amore con l’architetto impegnato nella ristrutturazione dell’abitazione – lo stesso che ne ha ideato la struttura insolita. Così, mentre i tasselli della parabola discendente di Lidia si ricompongono lentamente all’indietro, la casa ripercorre tutte le fasi della sua costruzione scavando nelle sue fondamenta e nella sua storia.
La seconda linea temporale, invece, procede in avanti e si svolge in un 2030 distopico dove la crisi climatica e l’emergenza migratoria sono degenerate: Milano è completamente immersa in una nebbia arancione ed erige muri lungo i suoi confini. Irene Sartori, curatrice fallimentare, riceve l’incarico di occuparsi della vendita all’asta della casa di via Saterna, ma si imbatte in una ragazza di nome Lidia, che vive abusivamente all’interno dell’edificio ed è identica alla Lidia Castelli morta lì quarant’anni prima. Entrambe affrontano le precarietà del proprio presente e trovano l’una nell’altra un valido confronto: Irene, che sta valutando la possibilità di diventare madre tramite fecondazione artificiale, indaga nel suo rapporto con la ragazza il proprio ruolo genitoriale; Lidia, spaventata da un futuro senza prospettive per la sua generazione, scopre nella donna un senso di sicurezza e stabilità mai provato prima. Due tematiche, la maternità e la precarietà dei giovani, che rappresentano il fiore all’occhiello del romanzo e propongono spunti di riflessione inediti.
La vicenda di Irene, dichiaratamente ispirata al capolavoro di Tornatore La migliore offerta (2013), prende in prestito dal film svariati elementi: il mestiere della protagonista, la figura di una ragazza fantasmatica che abita un edificio come un “genius loci” moderno, l’attrazione ambigua che si sviluppa tra i due personaggi e l’inaspettato capovolgimento finale. Eppure, a differenza del film da cui prende spunto, la storia di Irene scopre il fianco a qualche punto debole. Ad esempio, la somiglianza tra la Lidia del 2030 e quella del 1986, punto chiave della trama, non viene mai spiegata in modo esplicito; il che di per sé non sarebbe un problema se non fosse per il fatto che la stessa Irene, dopo averla notata con grande stupore, si accontenta di una spiegazione parziale e sviante da parte della ragazza. Questo pone il lettore nella fastidiosa situazione di non avere abbastanza elementi per comprendere gli intrighi della storia, ma non per l’abilità della narratrice di occultare la verità dei fatti come in un buon giallo, quanto piuttosto per il fatto che la protagonista, per esigenze di trama, non si ponga le domande più ovvie.
Questo esempio è il perfetto punto di partenza per riflettere su quelli che sono gli elementi più fragili de Il cerchio perfetto. Proprio come nel caso del cortocircuito delle regole del giallo, Claudia Petrucci nel tentativo di abbracciare trasversalmente diversi generi letterari – il romanzo distopico, il thriller, il rosa, le storie di fantasmi – finisce per gestirne in modo equilibrato soltanto alcuni. Accanto ad aspetti come la dimensione del misterioso, che sono rielaborati con originalità e completezza lungo tutta l’opera, ce ne sono altri, come la distopia, non sembrano dare pienamente fondo alle proprie potenzialità. Il 2030 precipitato nella catastrofe ambientale, evocativo sì di un senso di insicurezza generazionale, rimane, purtroppo, uno sfondo come un altro: il tema della crisi migratoria, ad esempio, viene accennato in pochissime righe, pur comparendo sulla seconda di copertina. L’elemento distopico, insomma, è poco problematizzato, poco legato alle vicende di Irene: la trama sarebbe rimasta pressoché identica in una ambientazione non-distopica. Lo stesso vale l’ambientazione degli anni 80 in cui si svolgono le vicende di Lidia Castelli: essa rimane anonima, caratterizzata da pochi elementi dell’epoca, separata da qualsivoglia contesto storico. Infine, le ultime pagine, sulle tinte del thriller, sono un cambio di rotta tanto inaspettato quanto didascalico e anche questo timbro rimane poco più che una suggestione.
Insomma, Il cerchio perfetto non ha la pretesa di diventare il grande esponente di un genere letterario particolare. Questa scelta di non prendere una posizione definita, se da un lato dimostra acume critico e padronanza del materiale letterario, dall’altro lato rischia di cadere nell’approssimazione e accavalla un surplus di spunti che non trovano una vera e propria risoluzione. Se il romanzo non fosse per sua stessa natura conchiuso su se stesso in un cerchio perfetto, verrebbe quasi da chiedere all’autrice un seguito, che ampli le possibilità qui esplorate solo parzialmente. Tanto più che una scrittura lineare e stabile come quella di Claudia Petrucci, invoglia la lettura di molte altre pagine nate dalla sua penna.
[1] Intervista a Claudia Petrucci su Artibune. https://www.artribune.com/editoria/2023/07/intervista-claudia-petrucci/