Caso chiuso – Un racconto di Stefano Bartolomeo
Un pomeriggio d’ottobre, nel paese di Campofontana, in cui il libeccio fischiava sulla piana trascinando fra i vicoli anonimi la rena bianca e polverosa della campagna, in una seduzione secolare. Un pomeriggio che Nicola Barletta avvertiva sfaldarsi già in una storia dimenticata. Neppure un usciere abitava il palazzotto municipale in quell’ora spenta da cirri in ammassi saliti dal mare. E Nicola riaccostava proprio il mare che, a lui, nel centro dell’isola, si era nascosto da sempre, equidistante da qualsiasi direzione avesse tentato di raggiungerlo; più lontano adesso di quanto lo fosse stato da bambino in occasione del gran viaggio estivo sulla costa, nella gioia familiare. Quell’enorme distesa un po’ temuta nei racconti dei compaesani che spesso infornavano cupi pareri su qualcuno avventuratosi appunto «’dda banna u’ mari». Ma non sarebbe andata meglio se fosse stato lui uno di quei proscritti «dall’altra parte del mare»? Già, perché Nicola Barletta, medico condotto stimatissimo e Sindaco di Campofontana, avviato a un secondo mandato, teneva un odiosissimo difetto: era uomo integerrimo e con i coglioni.
Quasi un anno prima, sul finire di novembre, il signor Sindaco – dimenticavo, democristiano onesto – ricoprendo altresì la carica di Segretario comunale dello Scudo Crociato, una mattina, (alzatosi più dissennato del solito a detta dei detrattori), ebbe a negare la tessera del Partito a Don Vincenzo Giua e a quattrocento suoi carissimi. Quattrocento, signori miei! Amici. Carissimi… Cosa? Rifiuta quattrocento tessere, anzi quattrocento più una, a cominciare, nientemeno, da quella di Don Vincenzo?… Esatto!
Insomma, Barletta tiene o no al Partito? Immediata la domanda di tanti cittadini democristiani, e non. Come puoi dire no a quattrocento nuovi iscritti e di qual peso, senza nulla togliere, per carità, a gente come Vito Monaco, comunque maestro elementare, perdio! O Fofò La Lumia, vicedirettore dell’ufficio postale e fratello di sbirro (suo malgrado!) o Ignazio Bajo, detentore della migliore frutta e verdura del paese, pur sempre un bottegaio però, o altri ancora, laureati alcuni, d’accordo, in ogni caso non per questo paragonabili a quelle quattrocento tessere speciali, emerite, già «correntone» di Don Vincenzo. E poi, tra quei nomi, non sarebbero mancati notabili fra i più in vista e in ogni caso la gente perbene del paese.
Come può del resto essere altrimenti, signori miei, se chiedono di servire lo scudo crociato e, per di più, vantano amicizia comune con Don Vincenzo? Beh! Con tutto ciò il Barletta espresse il suo diniego. Ricordava il gelo dello scorso dicembre, gelo non ceduto nemmeno al perpendicolo dei raggi di luglio che spaccavano la terra cuocendo la testa ai cani. I cani! Quelli investiti sulla statale fuori dal paese o quelli che, malati, si esiliano consapevoli di essere sul punto… Quanta dignità, i cani!
Don Mimmo Agrò, dell’Anagrafe, seppur si piccasse di sostenere che quei quattrocento galantuomini non fossero reperibili sui cartellini del proprio ufficio bensì presso quelli dell’omonima «Sezione Bestiame», in quegli ultimi giorni prima del pensionamento, almeno tre volte, ebbe a domandargli: «Sei sicuro, Nicò?»
«Sicurissimo!» rispondeva il Sindaco, intristendosi al pensiero che di lì a poco l’amico e collega di tanti anni avrebbe non solo lasciato il lavoro ma addirittura il paese per andare a crepare in città dalla figlia, secondo la sua disposizione dittatoriale.
«Perché non vieni via con me?» lo tallonò un pomeriggio Don Mimmo, dopo aver ricevuto la sopracitata risposta con cui Nicola garantiva piena certezza sulle decisioni adottate.
Il Barletta abbozzò un sorriso da cui, comunque, baluginò chiaro un senso di precarietà, forse timore ma ritrasse tutto replicando: «Va’, Mimmo. Va’ tranquillo!».
Così, una mattina di metà dicembre, Don Mimmo Agrò, dopo sessantacinque anni di onorata permanenza, voltò le spalle al suo paese seppur, con lo sguardo ancor fisso al Municipio, montasse il dubbio se fosse giusto andar via proprio adesso.
Altra domanda seguì implacabile: «Aveva forse lui i coglioni dell’amico Barletta?»
«No!» fu secca la risposta. «Neppure altri, in questo paese…» si consolò subito e salì sulla vettura della figlia che strombazzava irritata alla vista del padre assorto nella contemplazione dell’edificio municipale, come se mirasse per la prima volta quel «capolavoro d’architettura». Al primo giro delle ruote Don Mimmo accennò al desiderio di recare ancora un saluto al Sindaco.
«Cosa di un momento!» comunicò alla figlia dolcissima creatura che aprì bocca.
«Quello è pazzo… E tu sei scemo perso! Fortuna che è intervenuta la pensione» e superò la piazza verso la Via Nuova che conduceva a nord.
Mancava poco al Natale quando una mattina risuonò il telefono sulla scrivania di Nicola.
«Buongiorno!… Dottor Barletta?» una voce delicata di donna.
«Prego!» fece il Sindaco.
«La Segreteria. Le passo il dottor Cinquemani».
Attese una manciata di secondi, sufficienti contro ogni effetto sorpresa.
«Era ovvio!» mormorò a sé mentre già squillava l’accento del Segretario regionale della Dc.
«Nicola caro! Come stai?»
«Bene bene!»
«Lo sai per cosa ti chiamo?» attaccò spavaldo il Cinquemani.
«Posso immaginarlo», confessò.
«E allora?» proseguì sullo stesso tono.
«Allora cosa?» si sorprese il Sindaco.
«Ma Nicola… Che mi combini?» lamentò con imbarazzo il Segretario.
La conversazione andò avanti per alcuni minuti mantenendosi su un piano di cordiale apparenza ma si esortava vivamente a recedere dall’atteggiamento assunto per il bene comune al Partito e soprattutto al paese di Campofontana.
Chiese a Cinquemani un incontro diretto ma questi sottolineò: «Nicola! Io considero il caso chiuso. Domattina regolarizza!».
«Vediamoci» replicò il Barletta.
«Ci vedremo certamente. Sappi, comunque, che per me è cosa fatta. Caso chiuso! Risolto! Fa-vo-re-vol-men-te» sillabò a suggello.
«Non correre! Vediamoci prima» riprese il Sindaco.
«Nicola! Ti ripeto: caso chiuso… Un abbraccio!» strinse irriducibile.
«A te» dovette concludere il pover’uomo cui era stata quasi sbattuta in faccia la cornetta.
E sopraggiunse la notte sul letto a due piazze che oramai occupava solo, privato della sua Adelina avuta per quarant’anni a fianco di ogni gioia e di ogni apprensione. La cercò esile e disperato come un bimbo. A lei si sarebbe stretto a conforto dell’angoscioso rimbombo delle parole del Segretario che saturava già la camera fredda del primo mattino. Caso chiuso, Nicola. Caso chiuso s’avvitava alle tempie, a sfinirlo in un sonno tardivo nel timido accendersi del giorno.
Quella mattina Nicola attendeva le ultime derrate da ammonticchiare sulle altre che già guarnivano l’Albero, in basso, al di sotto delle frasche più lunghe, piccoli pensieri per la folta schiera dei meno abbienti. Li avrebbe riuniti in Municipio la sera, qualche ora prima, per porgere personalmente a ciascuno il modesto dono e l’invito, in ultimo, a seguirlo presso la Matrice per la Santa Messa. Molti di loro, dall’avvento del Barletta a primo cittadino, avevano disertato i tuguri per migliori domicili che il Comune aveva edificato poco fuori: il primo complesso edilizio satellite non abusivo, che una puntuale corriera collegava al paese, non privo di un commercio di generi di prima necessità, di un’edicola e un tabaccaio.
Almeno un migliaio di ex inquilini della fatiscente casbah vi si erano insediati. Erano di tutte le età. Non meritavano, pertanto, un parco, proprio lì dove la terra già germogliava spontanea, e una chiesetta? Un piccolo segno che Nicola sperava di affiancare al programma di parziale recupero del centro storico, dopo aver già curato tra l’altro, in tre anni di governo, la viabilità cittadina, attraverso un nuovo progetto di manutenzione stradale e riportato alla luce il paese, sensu strictu, mettendo mano a tutta l’illuminazione pubblica deficitaria.
Aveva ridato un tetto e un’agibilità a una delle due scuole elementari su cui la forza dell’acqua e dei soffi di una bufera domenicale s’era abbattuta anni addietro. Aveva ristrutturato e ampliato il Civile Nosocomio dotandolo di nuova degenza per gravide, le cui creature avrebbero, finalmente, rimesso il primo strillo nel paese dei padri. Alleati e partiti d’opposizione erano stati contagiati dal suo intendere la vita come servizio al prossimo nel nome di quel Dio che non tiene conto di ciò che si dice, piuttosto di ciò che si fa. Anni di incredibile fermento in un vulcano di idee. S’era dato da fare fino in Regione a tastare il terreno per quella Casa di Riposo Comunale che vagheggiava quale Arca entro cui accogliere la gran massa degli inabili e nullatenenti rastrellati da strade e fondaci: il suo regalo al borgo natale, se fosse stato rieletto come tanto si buccinava.
Il tramonto di dicembre si sfrangiava in un fragore rossastro, depositando oltre le creste dei colli la sera lucida come lacca, su tetti e guglie che, dai vetri della Sezione, Nicola scorgeva acquattarsi sulla piazza. Infittiva il suo discorso settimanale ai ragazzi sui doveri, su quello supremo di servire il bene comune lì, nella forma repubblicana, argomentando, sulle parole del Machiavelli e del Cattaneo, come l’assenza di cittadini disposti a vigilare, a impegnarsi, a far quadrato contro l’arroganza del singolo potesse sprofondare la Repubblica in un luogo di dominio per pochi. Cigolò la porta su quel silenzio di meditazione e zoppicando si fece avanti Santuccio Abbate, vicesegretario comunale del Partito, che sembrava essersi aggravato e in tale stato s’incomodò verso il Sindaco che gli mosse incontro.
«Dimmi pure!» lo precedette Nicola.
L’Abbate appariva malfermo anche nella voce e ben appressandosi al Barletta gli zufolò nell’orecchio:
«Di là!… Don Settimio Cimarra!»
D’impeto il Sindaco pensò di congedare il giovane uditorio ma aveva ancora da concludere e salutare. Era il 22 dicembre, sarebbe seguito un lungo periodo di vacanza. Avrebbe dovuto, del resto, intrattenersi molto col Cimarra? Per nulla al mondo! Si scusò con i ragazzi e, scartando il traballante Santuccio che ben si guardò dal seguirlo, ricevette l’ospite presso il bancone d’ingresso.
Il Cimarra presupponeva un’accoglienza deferente e riservata, e il Barletta: «Caro Don Settimio. Devo confessarvi che vado di gran fretta, ma se volete conferire… Prego. Ditemi!»
L’uomo si concentrò sul Sindaco appuntandogli sguardi perplessi ed esterrefatti con i quali pretendeva spiegazioni per quel cotanto ossequio dispensato lì, su due piedi, davanti lo squallido bancone d’ingresso, alla mercé di chiunque volesse transitare e magari, dopo aver ascoltato, interromperli.
Nicola se ne beava, avrebbe pur atteso che Don Settimio si degnasse di aprir bocca ma il pensiero che era lì per rubargli anche il tempo da dedicare ai suoi ragazzi lo indusse a spronare l’ospite.
«Allora?» tuonò inaspettato provocando quasi un sobbalzo nell’interlocutore che in un sussulto proferì basso: «Signor Sindaco, sono venuto qui… per quelle iscrizioni».
Il Barletta, che non amava equivocare, domandò fissandolo negli occhi: «Quelle di Giua?»
La negazione del Don davanti a quel cognome turbò il bandito confermando che questi si riferiva proprio all’amabile personaggio e senza attenderne ulteriore assenso comunicò
«Niente da fare, Don Settimio». E sentenziò «Caso chiuso!»
L’uomo tentennò, annaspando alla ricerca di altro tempo, Nicola limitò il soccorso a un’aggiunta minima e cortese: «Buone feste, Don Settimio» e fece per rientrare. Il Cimarra, trattenendolo per un braccio, lo ammonì. Lo sdegno nello sguardo del Barletta si scaricò sulla mano nemica che, come solcata da un fendente, fu costretta a ritrarsi lasciando il Sindaco alla sua lezione. Dinanzi ai ragazzi ora diffidava meno dei suoi insegnamenti, nella gratitudine di una prova superata. Forse poteva non avvertire più nei suoi moniti dissonanze incerte, poteva salire degnamente a quella cattedra che aveva avuto la baldanza di istituire e la presunzione di esserne il docente unico. Forse poteva discendere anche fra quelle testoline innocenti, carezzandole una per una senza dubitare del gesto. E in mezzo a quei piccoli, spese ancora qualche parola.
«Sappiate dire no!» impartì ferreo nel generale stupore di quell’improvvisa potenza vocale.
Avrebbe voluto soffermarsi su come a ciascuno, un giorno, si parino davanti circostanze tali che in quel no trovano l’unica risposta possibile e avrebbe allora desiderato rassicurarli a non temere altri che Dio, se mai fossero scivolati su qualsiasi alternativa al categorico diniego… ma gli occhi dei fanciulli, increspati da un’attenzione sempre più vaga, lo indussero a ritrarsi sugli auguri per genitori, fratelli e amici, oltre che sul rinnovato invito alla Messa di mezzanotte.
Alla Vigilia, attorniato dalla folla dei piccoli indigenti che, qualche passo innanzi ai propri familiari, avevano ritirato il dono sotto il Grande Albero del Comune, il Barletta muoveva alla volta della Chiesa Madre.
Le canne dell’organo libravano inni alla Gloria nel Corpo di Cristo elevato ed esposto al centro della tessitura dorata dell’ostensorio. Nicola, lì, consustanziale quasi a quel pane consacrato che meno indegnamente riusciva ora a fissare, vi si accostava nello stordimento di quella particolare felicità che solo il martirio può pattuire.
La mattina del 25, allo scandire della mezza dal campanile della Matrice, rimbalzò uno squillo alla porta del Barletta. Un ragazzino consegnò una confezione regalo. Erano bottiglie di rosso sulle quali campeggiava un biglietto. Ne dispiegò la busta e, sui caratteri di una Olivetti, forse una «Studio 44», tipo quella che teneva nel suo ufficio, lesse: «Se lo goda questo Natale». Avvertimento unico, seppur seguisse inaspettata, alle prime ore del trentuno, e sempre da quei tasti, una sollecitazione composta a ravvedersi in favore di quelle quattrocento tessere. Nel silenzio di quelle stanze tornò a serrarsi dietro quella negazione asciutta che immaginò piombare sugli avversari, contemporanea al suo pensiero: «Caso chiuso!» Uscì incontro al nuovo anno.
L’Epifania, lucore chiarissimo, dalle rupi distanti merlate di querce si raccolse sul pianoro di Campofontana recando Monsignor Terenzi, Segretario del Vescovo nonché nunzio, nel suo giro d’auguri, del viaggio pastorale che l’Alto Prelato avrebbe disposto fra i paesi della provincia alle prime gemme dei mandorli. «Ite missa est» terminò di officiare il Segretario accanto al collega, ma non si ritirò, curioso, come sempre, di spiare il rientro dei fedeli sul loro percorso di dubbio, d’indifferenza, di desolazione. Nel fluire fuori dal tempio, tutti parvero, giunti alla porta, incenerirsi nel sole. Nicola, in piedi, in prima fila, attendeva che Monsignor Terenzi godesse fino in fondo di quel viatico d’ombre.
«Li vede?» indicò al Barletta nell’accompagnare l’ultimo sparuto gruppo di uomini oltre la soglia.
«Vanno via! Più confusi che altro» Poi, diretto: «Venga!»
«Accomodatevi di là», indicò Padre Zambito ai due ospiti, verso la cella di calce viva, in fondo alla canonica, con due fessure di luce bianchissima, un fratino seicentesco fra due seggiole dozzinali e la gran Croce affissa a una delle pareti laterali.
«Avremo allora la gioia di Sua Eminenza qui a Campofontana?» ruppe il ghiaccio, sciogliendo Monsignor Terenzi da futili convenevoli.
«Dipenderà, Sindaco», depose senza reticenza il Segretario.
«Che devo fare?» si arrese subito.
«Lasci pure che il Vescovo non venga», annunciò il Monsignore.
«Perché?» mormorò soffrendo.
«A mio avviso non può essere altrimenti».
Barcollando riprese: «Vorrei parlare a Sua Eminenza».
«Per dirgli cosa?» lo mise in guardia il Segretario.
«Vorrei spiegargli bene».
«Non è all’oscuro di nulla».
«Allora mi ascolterà meglio», rivendicò, mentre l’altro s’insinuava con una punta di malizia.
«E dopo?» puntualizzò.
«Mi consiglierà!»
Con pietoso sarcasmo: «Certamente! Cosa?»
«Come muovermi!» riversò lasciandosi travolgere a sua volta dall’ecclesiastico.
«Sicuro! Come muoversi… Non le pare di sentir già con quali carezzevoli parole le andrà contro?»
«In ogni caso, perché non inserire Campofontana nel suo giro?»
«Ma che soddisfazione darebbe a lei?»
«Perché coinvolgere il viaggio…» lesinò ancora il Sindaco.
«Non sia ingenuo».
«Non lo sono» si difese Nicola.
«Sembra dimenticare la fazione politica protagonista di questa dolorosa vicenda… Fazione di cui lei, qui, è il più alto rappresentante».
«E allora?» tremò il Barletta.
«Ma a lei pare tutto possibile?» vibrò nell’aria Monsignor Terenzi.
«Continuo a non vedere la connessione con la visita pastorale» ebbe a insistere Nicola.
Il prelato disserrò il cuore astraendosi nella luce bianca di una fenditura. «Noi sì, dottor Barletta», iniziò. «Strano personaggio, lei, la cui imperdonabile parola è «no» al sacco politico di questa frazione di terra dall’aria trasognata».
«Non è giusto!» piagnucolò Nicola come un bambino e l’uomo in tonaca vacillò ancora.
«Forse neppure per noi lo è però non si aspetti conforto. Noi siamo nel mondo, comprendiamo l’altrui peccato perché non riusciamo a esimerci dal nostro, ma non possiamo non vedere, soprattutto se si pretende di interrogarci… Qui è stato sfigurato il volto di Cristo finché non è comparso lei, Nicola, inatteso».
«Io?» tentennò.
«Sì! Lei! Da quello stesso Cristo prescelto a rappresentarlo nella Politica… Il Vescovo, comunque, le ingiungerebbe di non scuotere la comunità intera… Sì. Proprio a lei… Che ha sempre proposto in nome del Padre… Cosa può attendersi da noi?»
«Non dica questo!» supplicò. Il Monsignore proseguì.
«Il vostro parlare sia secondo sincerità: sì se è sì, no se è no. Quello che dite in più appartiene al male. Ecco dove l’ho riconosciuta… Sì! Questo paese ha bisogno del suo eretico o del suo cristiano migliore e lei dovrà esserlo, fino in fondo. Per noi!… Non si lasci fuorviare».
Il Segretario uscì e il Sindaco, cadendo ai piedi del patibolo dell’uomo di Nazareth, confessò ogni personale miseria. Ininterrotti piovaschi alleggerirono grasse nubi che sulla piana avevano trovato dimora. Pareva udirsi solo il tramestio dell’acqua sui vetri, sui vecchi coppi, sulle lamiere, sulla terra assetata; sembrava possibile intrattenere un dialogo soltanto con la furia altalenante dei rovesci. Tentò un contatto importante, fuori paese, adoperando il telefono che risuonò di un’attesa breve fino al materializzarsi di una donna in una voce attenta e soave già nota, ma che quel mattino avvertì levarsi contrita.
«Buongiorno, signorina. Sono Nicola Barletta… L’onorevole? Potrei solo minuto?»
«Attenda!» comunicò frettolosa dimenticando di ricambiare il saluto. Si fece un silenzio lungo.
«È in riunione. Provi domattina!» ricomparve per troncare la comunicazione.
Il mattino seguente, Nicola ritrovò la vocina che, imbarazzata, lo rimandò alla settimana successiva, il Cinquemani già viaggiava per Roma. Prima di riagganciare informò ancora: «Dottor Barletta, l’onorevole mi ha comunque incaricata di pregarla di non occuparsi più della vicenda per cui, certamente, lo sta inseguendo».
«Non inseguo alcun uomo, signorina» avrebbe voluto avvertirla. Le augurò una buona giornata e chiuse.
Ma come quei mariti inquieti che, fiutando aria di corna, si precipitano in tanto strazio sul luogo dell’adulterio, così il Barletta, non annunziato, si presentò presso la Segreteria regionale. Spese qualche parola, anzi credette solo di suggerirle, a un amico.
«Il Partito… Il suo simbolo! Non posso consegnare il Comune a quella gentaglia. Lo sappiamo entrambi. Non siamo stati chiamati per fingere. Ricordi l’insegnamento?»
«Quattrocento persone tutta gentaglia? Non stai peccando di presunzione?» lo redarguì.
«No! Tutti suoi accoliti, purtroppo» asserì senza esitare.
Il Cinquemani, indignato dalla completa inettitudine a vivere di quell’uomo, formalizzò. «Basta! Sei sospeso!»
«Non puoi!» si scagliò in un urlo.
«Sei un pazzo visionario!»
«Non è questa la verità» gli scivolò fuori dalle labbra. Si sentì venir meno.
«Sì, Nicola… Sei un visionario! Sei sulla bocca di tutti», incalzò per finirlo.
Gennaio alle spalle. Ogni cosa fuggiva via e al Barletta non restava che un fioco intervallo, per prepararsi. Il primo compito che spettò a Santino Abbate, assurto al rango di Segretario, fu quello di non muoversi dalla locale sede del Partito sino a tarda sera, per ricevere nelle proprie mani le quattrocento tessere concesse e spedite dalla Segreteria. Il secondo comportò la convocazione, in piccoli gruppi, dei nuovi iscritti per consegnare quanto di loro diritto in confacente accoglienza, favorendo le opportune scuse e la personale doverosa discolpa. Fu un andirivieni di belle presenze nell’apertura di Don Vincenzo Giua che, non degnando quasi l’Abbate di uno sguardo, ne sottolineò la connivenza con quel pazzo e cornuto del Barletta.
«Vi sbagliate, Don Vincenzo» obiettò subito il neosegretario che non tollerava tale accusa. Lui connivente con quel pazzo di Nicola Barletta? Neppure per celia bisognava affermarlo. Lui non aveva mai e poi mai concordato con i pensieri, l’ostinazione, e forse la cattiveria di quel visionario, e a voler dimostrare che non temeva le provocazioni di alcuno su un simile argomento osò replicare a Don Vincenzo, bofonchiando «Vi sbagliate! Parola d’onore!».
Il Giua avrebbe desiderato farne un unico boccone ma non era opportuno. Di fronte agli intimissimi convenuti con lui, afferrandogli la guancia destra tra l’indice e il medio, gliela strinse tenace corredando il gesto di una fraterna inflessione
«Segretario bello… Grandi cose!»
I presenti riconobbero nell’Abbate la figura calzante di responsabile di Partito e non dispiacque loro irretirlo in sviluppi di carriera che poi, negli anni, a onor del vero, favorirono. Dietro i vetri del balcone comunale sfilò la disfatta nella passerella quotidiana di quei galantuomini in sparuti drappelli sino alla bicchierata finale di benvenuto offerta a ripagarli dell’affronto subito. Era ancora il primo cittadino di Campofontana? Nicola si ricordò allora del famoso «fermacarte». Così, infatti, da piccolo, nella combriccola dei monelli, aveva deriso un omino che, perdute le gambe in guerra, si reggeva a fatica sulle stentate natiche non senza l’ausilio di un appoggio posteriore. Nessun nesso fra quella sgradevole e rattristante sagoma e la sua attuale di Sindaco? Non se li raffigurava forse scorrere innanzi a lui, puntellato a un muro quale mendico monco? Poteva ancora decidere? domandò all’amica d’infanzia Maria Spitali. Esisteva un differente destino alle minacce che oramai strangolavano lui e quelle case di mattoni? Rullio lugubre spirava per le strade e sospingeva all’affannosa ricerca di una via di salvezza. Un paese fantasma faceva da sfondo.
Maria approvò ogni sua scelta. A Nicola, che da sempre scorgeva nella donna quell’aiuto che Dio aveva dato all’uomo per poter lottare ancora, sgorgarono allora parole di fuoco in un memoriale così rovente da ustionare le mani dei Vertici regionali e da annerire quella splendida immagine fotografica dell’onorevole Cinquemani consegnata alla Storia in premuroso atteggiamento verso il Segretario Nazionale di cui era proconsole nell’Isola.
Quel matto di Barletta spiegò di illegali conquiste, di tracolli del Partito a opera di ben precise figure e di quale rischio corresse lui stesso, accennando ai suoi possibili sicari. Scrisse proprio «mafia» su quei fogli, del suo divenire organico nella vita politica oggi di Campofontana, e domani chissà. Tanto profetizzò quell’uomo robusto e mite, che in bambini e scolari trovava la ragione ultima del suo mandato. Per loro, sfidò, aveva ancora da fare ma anche per coloro che, avvistandolo, cercavano di negargli il saluto virando su traiettorie diverse o, nell’impossibilità di scansarlo, parevano non accorgersi, a rammentargli come non vi fosse più bisogno di lui e di come avrebbero gradito non incontrarlo. Non ebbe alcuna risposta dalla Segreteria Grande e non perché non gli credessero…
Bruciò l’estate nella speranza che la calura seccasse anche questa piaga: non era forse vero che gli volevano tutti bene anche se, a sera, far strada col Barletta per rincasare era sempre meno consigliabile
Ora quel pomeriggio d’ottobre. Peppe Ruoppolo, l’usciere capo, licenziato il suo vice già al mattino, saliva nello studio del Sindaco ad annunciare
«Dottore, oggi sto troppo male con la testa. Penserei, tra breve, di andare via. Chiuderebbe lei?».
Il Barletta, a quelle parole, non riuscì che a volgere lo sguardo all’orologio di fronte. Erano le due. Ruoppolo lamentava mal di testa, chiedeva di allontanarsi ben prima…
«Certo!» garantì Nicola.
«Grazie, dottore. A domani!»
«Grazie a lei, Ruoppolo, per avermi avvisato» rispose ad alta voce.
Dal balcone del suo studio sovrastava il paese e il suo affetto s’adagiava sulla nuova scuola elementare ai cui alunni, il giorno prima, aveva recato la sorpresa di una grossa fetta di torta. Lo avevano applaudito, i ragazzi, ancora una volta. Era felice.
Spense la luce nella stanza: l’ultimo momento in cui si sottraeva alla vista altrui.
«Questa piazza non è eterna!» rammentava scrutandola inerme e bellissima attraverso i vetri già affidata alla sola luce dei lampioni. Chiese perdono e benedizione per sé, per tutti. Discese le scale di quel palazzo che amministrava l’umana convivenza coi suoi matrimoni d’affari, i suoi potentati di soldi e di prestigio.
«Questa vita breve…» considerava nell’abbassare la leva dell’erogatore generale di corrente. «Eppure dobbiamo restituirla!» rifletteva aprendo il portone.
Gli parve di esitare a chi dovesse tornar indietro quella sua felice esistenza; sorrise scrollando il capo per la futilità del dubbio e, tirata fuori la chiave, serrò l’ingresso. Girate le spalle al Municipio la piazza circolare sussiegosa di luce sembrava essergli riconoscente per averla ricondotta all’originaria sobrietà. A lusingarlo caliginosa e gorgogliante era l’antica fontana, asse sul quale ruotava quell’accampamento di uomini, ora che, calato il libeccio, l’umido nebulizzava il chiarore delle lampade più distanti. Pensava a Maria Spitali che lo aveva invitato per una delle sue ricette al calore del focolare. Se non avesse avuto la fortuna della sua Adelina lei lo avrebbe sposato. Di tale tardiva coscienza, andando, se ne rallegrava.
Quella sera d’ottobre, impavesata di innumerevoli occhi che, alti oltre i tetti, ne seguivano i passi verso il fiottare della sorgente, si spegnevano le luci di Campofontana e il Sindaco a un tratto ritrovava il fermacarte orripilante ai piedi della vasca.
«Aiuto!» immaginò di aver pronunciato ma ineludibile coglieva solo l’onda di fuoco schiantarlo e insieme sorreggerlo: da punti opposti della piazza cinque cavalieri in cappa nera sparavano e sparavano. Divelto, per terra, e sfigurato, sparavano ancora: l’anima bisognava frantumargli! Oltre cento proiettili per quel corpo che ancora resisteva.
Nel buio una voce scuoteva violenta la porta di Maria Spitali. «Hanno ammazzato il dottore Barletta». Nicola attendeva e lei, scalza e scossa da brividi, s’avviava a serbarne il riflesso ultimo. Le braccia avvitate sotto al seno, le unghie conficcate nel costato, su un convoglio di luce e senza più fretta arrivava a quell’uomo che, dissipato in mille strappi, già caricavano su un’automobile alla volta di un’ipocrita corsa. La donna, la testa nel finestrino su quel volto macabro, stringendo a sé il pallore del palmo lo chiamava. «Prega insieme a me», lo carezzava dolcissima. «Gesù mio misericordia! Gesù mio misericordia!» lo udirono rari testimoni.
Null’altro proferì Nicola Barletta e lasciò Campofontana nella millenaria nebulosa spirale della piazza.
L’autore:
Stefano Bartolomeo
(Chirurgo generale con) una forte passione per la scrittura teatrale.
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