Avrei preferenza di no: Bartleby lo scrivano e l’indifferenza
Al momento avrei preferenza a non essere un poco ragionevole, fu la sua mite quanto esangue risposta
Vivere ma non esistere: l’indifferenza come modo di fuggire da sé nella figura di Bartleby lo scrivano.
Il peso dell’esistenza
Un nodo alla gola, le pareti della camera che si restringono, una difficoltà a mettere un piede davanti all’altro nel futuro. A tutti noi capita di avvertire, talvolta, una particolare sensazione spesso racchiusa nella frase “ho bisogno di staccare la spina”. Ma staccare la spina da cosa? Da cosa spegnersi? Tutti noi adoperiamo mezzi di evasione nella quotidianità: ascoltare musica stesi sul letto, passeggiare da soli, andare a correre, controllare le email dal telefono. Quindi la risposta alla domanda potrebbe essere: da noi stessi, dal peso che avvertiamo semplicemente esistendo. Bloccare lo schermo della realtà per utilizzare “lo smartphone” è uno dei modi per prendere le distanze dai legami sociali che ci circondano e che a volte ci opprimono. Quel regalo sociale che è l’identità si rivela anche un peso gravoso da portare. Inoltre, è chiaro come l’individuo di oggi sia estremamente connesso, collegato e stimolato da tutti quei colori “da slot machine” delle app, delle notifiche, dei social media, come se vivessimo tutti insieme in una sala di qualche casinò di Las Vegas. La frantumazione di questa iperconnessione ci restituisce la nostra libertà, è una boccata d’aria in cui ci riappropriamo di noi stessi anche solo per un minuto. Sostiene David Le Breton:
In una società nella quale dominano flessibilità, urgenza, velocità, concorrenza, efficienza e così via, essere se stessi non è più cosa ovvia, poichè diventa necessario rigenerarsi di continuo, adeguarsi alle circostanze, assumere autonomia, mantenersi all’altezza
– Fuggire da sè. Una tentazione contemporanea.
In questa negativa sindrome della fenice ogni allentamento è una cura palliativa. Ma, purtroppo, c’è anche chi non riesce, con tutte le “cure palliative”, a sopportarsi e supportarsi nella continua costruzione del Sé. In questa fatica di essere se stessi, l’individuo cede e si adombra. Si lascia diventare sfocato, non messo a fuoco da se stesso.
Fuggire nell’indifferenza
L’indifferenza non è sempre un male. A volte l’individuo sa di non poter cambiare determinate cose e se ne distacca, ne mantiene le distanze stoicamente: una sorta di galateo della finitudine. Altre volte, invece, l’indifferenza assume forme estreme: forme in cui l’individuo che non riesce più a trovare il filo del gomitolo di sé, si butta o cade: rimuove il nervo e lascia il dente. L’individuo funziona come corpo, ma la “sensibilità” è ridotta a zero. Questa, l’indifferenza, può essere una forma di “fuga da sé” e Bartleby è l’esempio dello scomparire in essa. Herman Melville, il famosissimo autore di Moby Dick, ha anche prodotto breve racconto “Bartleby lo scrivano”.
Bartleby […] è una figura senza alcuna possibile salvezza, figura di ciò che non può essere salvato. Ma si può anche pensare sia la figura di chi non ha nessuna voglia di lasciarsi salvare, come se la salvezza che altri propongono fosse altrettanto irrimediabile quanto la solitudine e la desolazione a cui si va incontro.
Melville racconta la storia di questo scrivano, Bartleby, che un giorno si presenta in un ufficio a Manhattan e, appena assunto, svolge con solerzia il suo lavoro, “quasi fosse da lungo tempo affamato d’alcunché da copiare”. Passate alcune settimane ecco che Bartleby si autorizza ad occuparsi solo di alcune mansioni: il direttore dell’ufficio – nonché narratore della vicenda – un giorno gli chiede di revisionare alcuni documenti, incarico che Bartleby rifiuta, rispondendo “Avrei preferenza di no”. In questa frase sembra aprirsi una voragine e il racconto rivela tutta l’oscurità che risiedeva tranquilla sotto la luce di un impiegato solerte.
“I would prefer not to”: è traducibile in italiano con “preferirei di no” ma questa forma non riesce ad esprimere l’infinita distanza che Bartleby ha nei confronti del mondo della vita. “Avrei preferenza di no”, invece, sembra quasi una traduzione letterale, un po’ alla buona. In realtà, come spiega Gianni Celati, questa forma restituisce il ritornello di Bartleby come barocco, troppo formale ma proprio per questo evidenzia la chiusura del ponte che lo scrivano ha sul mondo. Anche le sue uniche parole vogliono evidenziare la distanza massima. Anche le sue uniche parole non restituiscono cordialità o una volontà di partecipazione. Nelle sue uniche parole, lo scrivano pone in essere la sua chiusura.
Bartleby non ritratta. Ad ogni domanda la sua risposta sarà sempre la stessa: “Avrei preferenza di no”. Continua ad osservare il muro di mattoni che poteva vedere dalla sua finestra e si ritira nel suo eremo. Il problema di una figura come Bartleby è che non se ne capiscono le intenzioni, dal momento che lo scrivano non comunica. Tutti noi, quando dialoghiamo con gli altri, magari tirando ad indovinare, cerchiamo di capire anche cosa c’è oltre ciò che ci stanno comunicando in quel momento. Ma Bartleby è imperscrutabile; non si lascia intendere. Se anche solo per un momento ritrattasse o cambiasse la sua risposta, allora forse una soglia di comprensione si aprirebbe, ma Bartleby non ritratta.
Lo schema si ripete per tutto il racconto. A domanda posta Bartleby risponde con la stessa formula e ad essa segue il silenzio.
Bartleby rompe le regole di reciprocità che presiedono lo scambio e usa il silenzio quale unica modalità di comunicazione, in tal modo condannandosi all’esclusione […] senza mai dare agli interlocutori la possibilità di afferrare almeno un brandello di senso, Barteleby distrugge il legame sociale.
Fuggire da sè. Una tentazione contemporanea
Proprio per questa assenza di senso, il direttore dell’ufficio durante tutto il racconto ha continui dialoghi interiori in cui cerca di capire Bartleby, arrivando a giustificare il suo atteggiamento, ne accetta l’esilio e:
Sì, Bartleby, rimani pure dietro il tuo paravento, mi dicevo: non ti perseguiterò più […] in breve non mi sento mai così solo come quando so che tu sei lì dietro.
L’uomo che non parla
Bartleby è lì, nel suo ufficio, ma è altrove. E’ un individuo con cui non si può avere un rapporto. Nel racconto non ci è detto nulla riguardo alle sue origini né su cosa lo abbia condotto a comportarsi così e, chiaramente, ad ogni domanda con cui il capoufficio cerca di capirne di più, Bartleby “avrebbe preferenza a non rispondere“. Bartleby è la figura dell’indifferenza. Ha scelto di lasciarsi sbiadire, di escludersi dall’esperienza quotidiana. E’ possibile guardare Bartleby dietro il suo paravento mentre fissa il muro, ma non si può interagire con lui. Nonostante le quattro mura dell’ufficio, Bartleby sembra inifinitamente distante, eppure è lì.
Il mondo sembra un triste e insonoro momento per Bartleby. La sua è una chiusura in sé stesso, una fuga che può avverarsi solo nella distruzione di ogni legame con ciò che è al di fuori di lui e questo principalmente avviene attraverso il linguaggio. Quell’educata forma di rifiuto, altro non è che la reiterata affermazione della sua distanza dal mondo, incomprensibile per gli altri abitanti del linguaggio. Non a caso Bartleby verrà, alla fine del racconto, chiuso in un manicomio dove si lascerà morire di fame.
Ah, Bartleby! ah, umanità!
Lo scrivano è un uomo che soffre. Il racconto non fornisce notizie su di lui. Il dolore pone Bartleby fuori dal mondo, gli fa apparire estranea qualunque mansione che lui avrebbe, appunto, preferenza a non svolgere. Bartleby ha perso fiducia nel mondo e ha scelto l’indifferenza come risposta. Ha scelto una specie di tranquillità pallida. Tuttavia non si tratta della scelta, per così dire, epicurea di chi sceglie la distanza dal vorticoso turbinio degli atomi di cui è composto il mondo, da chi è seduto sulla scogliera a guardare il naufragio dell’esistenza saldo nella propria sicurezza. No, Bartleby è già naufragato.
Credits:
Cinzia Pedruzzi
per l’opera Tracce, olio su tela, 60×60
Nell’opera dell’artista il tronco assume una posizione di assoluto rilievo in quanto occupa larga parte della scena in primo piano. Il soggetto sembra solido e vivo come un corpo, e del corpo condivide le ferite, nei tagli e nei colori che lo rendono animato. Questa caratterizzazione del relitto lascia intuire la sua passività di fronte a un mare che lo scarica, allusione alle perturbanti turbolenze della vita.
In uno scenario così disposto, suggestivo e simbolico, che lascia pensare ad un avvenimento spettacolare o mistico, le orme di un uomo evitano la vittima della storia e proseguono indifferenti il loro cammino.
Autodidatta sin da giovane, Cinzia Pedruzzi viene indirizzata alla scuola d’arte del maestro Ernesto Doneda da Brembate.
Sotto la sua guida perfeziona la tecnica della pittura ad olio, esprimendo uno stile figurativo moderno, paesaggi e nature morte. La ricerca delle forme la spinge allo studio del disegno e alla rappresentazione del corpo umano, dedicandosi successivamente al ritratto. Interessata allo studio dell’arte e curiosa di formarsi su nuove tecniche espressive, apprende la tecnica dell’affresco e la manipolazione plastica della materia, rappresentando in terracotta figure umane e busti. Insegna in corsi di disegno, pittura ad olio e manipolazione della terra.
Collabora per la realizzazione di corsi scuola con due amministrazioni locali. Ha partecipato a varie rassegne d’arte, mostre collettive e tenuto esposizioni personali in svariati centri culturali. Iscritta al Circolo Culturale Bergamasco dal 1997, partecipa alla collettiva annuale presso la sede di Bergamo.
Sito Web di Cinzia Pedruzzi
Instagram: @cinziapedruzzi
Fonti:
Herman Melville. Bartleby lo scrivano, Universale Economica Feltrinelli, 2019. (Bartleby_lo_scrivano)
David Le Breton. Fuggire da sé. Una tentazione contemporanea, Raffaello Cortina Editore, 2016. (david le breton)