“Ballate di Lagosta” di Christian Sinicco – Premio Strega Poesia 2023
Quando Walter Benjamin nel 1936 scrive Il Narratore, una delle riflessioni sullo statuto del narrare più importanti del Novecento, individua due tipi di novellieri sulla base della loro posizione rispetto al luogo che raccontano. Il primo è un narratore stanziale, come un contadino, vive onestamente il suo luogo e ne conosce le storie e le tradizioni. Il secondo è il marinaio viaggiatore, il mercante che viene da lontano, portando con sé il suo bagaglio di storie. Christian Sinicco, in qualche modo, incarna entrambe queste figure: nato a Trieste, lavora in una zona di transito tra Nord Europa, Adriatico e Balcani. Così, quando racconta il territorio della Croazia nella sua ultima silloge Ballate di Lagosta (Donzelli, 2022), finalista del Premio Strega Poesia 2023, il suo punto di vista è sia interno sia esterno.
Da visitatore, Sinicco entra nel luogo, ne conosce la profonda religiosità cattolica, le tradizioni popolari, i modi di fare; conosce i nomi, le donne del posto, le litanie ripetute ai bambini. Questi elementi – che emergono soprattutto nelle sezioni “La processione di Ferragosto” e “Ballate di Lagosta” – non sono descritti con il gusto esotico dello straniero, ma con la vicinanza di un complice, che sceglie di restare. («posso richiedere la cittadinanza del mondo/ eppure sono rimasto fino a mezzogiorno/ a guardare lo specchio d’acqua del pozzo»[1]). L’esperienza del luogo attraversa l’individuo e si intreccia alla sua memoria («anche dopo che ce ne siamo andati/ siamo rimasti qui»[2]), in un modo che ricorda certi versi sulla partenza da Alessandria di Ungaretti e di Kavafis («Non troverai nuove terre, non troverai altri mari. / Ti verrà dietro la città.»[3]). Così il luogo rurale, con il suo ritmo e le sue voci, diventa una sorta di antidoto ad una vita altrove soffocante: la via d’uscita, il sentiero che esce dal tracciato, da percorrere inseguendo una donna e allontanandosi dal mondo («evitando i buchi di asfalto e sterrato hai seguito Daniela/ prendendo di mira te stesso e l’asfissia della tua vita/ che segue il sentiero per erigere l’intelligenza della specie/ che sul lavoro ha costruito la sua repubblica di ruberie»[4]).
Dal punto di vista della forma, la raccolta è molto varia. Accanto a forme tradizionali come il sonetto, compaiono componimenti di ispirazione popolare: un canto che viene dal basso e riesce a coinvolgere la parte più umana della gente. In questo si nota l’esperienza nel campo della poesia performativa di Sinicco, che è il fondatore della Lega italiana Poetry Slam. Allora in molte poesie di Ballate di Lagosta emerge la musicalità della recitazione, sostenuto da assonanze e rime baciate che avvicinano il testo più al cantato che allo scritto. Qui si inserisce anche un componimento in dialetto triestino dichiaratamente ispirato a Saba (Danica e la cavra), una “Favola portoghese” e due canzoni rap (“Rap di Martino” e “Un asso di cuori è la tua bocca”). Queste ultime sono tuttavia un azzardo e risultano efficaci più per l’idea che per il risultato: l’intento quasi antropologico di avvicinarsi alla canzone comune, ritmata e moderna, stona non poco al centro della raccolta, dimenticando che c’è un motivo se il rap è nato in simbiosi con la musica, e non per la lettura. Così, invece che rendere musicale la pagina, Sinicco finisce per rendere atona la canzone.
Per tornare all’esperienza del luogo, si può dire che l’incontro del “narratore marinaio” con la Croazia riscopre due tipi di identità. Da un lato quella presente, custodita nei nomi dei luoghi e delle persone del posto («canto un’astronomia privata di nomi/ perché nulla resterà di noi/ quando ce ne andremo dalla casa»[5]): sono queste le uniche iniziali maiuscole di tutta la silloge che, per il resto, non utilizza mai il punto fermo, come se le parole del poeta fossero una finestra senza inizio né fine che concede uno sguardo fugace sulle parole del cantore. Accanto a loro non mancano i nomi della natura stessa: Sinicco nomina con precisione soprattutto le piante, come il cardo, le pascoliane tamerici, l’elicriso, la posidonia.
Dall’altro lato, l’identità del luogo trasporta lo sguardo nel passato, rivelando la stratificazione di epoche diverse. I ruderi dell’antica Illiria mostrano la duplice influenza classica che ha caratterizzato per secoli questa terra di mezzo del mondo greco-romano. Non a caso la raccolta si apre con un ingresso nel pantheon di Spalato («entra nel pantheon senza volta, a Spalato/ il cuore sono le cicale/ e una canzone d’amore, una chanson/ sola come te»[6]) e prosegue in un’intera sezione – quella intitolata “Permanenze” – disseminata di una simbologia classica, in particolare quella legata alla morte: il ramo bianco (colore della morte), la melagrana (frutto di Persefone), il sogno (surrogato del sonno eterno), la maschera (specchio del volto della Gorgone). Molto ricorrente e di ispirazione classica è anche l’immagine del tuffo, che riappare in numerosi componimenti della raccolta («tutto sarà al suo posto/ al centro dell’apertura/ da cui hai paura/ a lanciarti nel vuoto»[7]). Questo gesto rituale che simboleggia il passaggio da uno stato all’altro dell’esistenza, compreso quello dalla vita alla morte, è forse il più indicativo e rievoca la precarietà, il limbo, la medietà di cui questo luogo sembra far parte.
La storia, però, ha anche connotazioni meno oniriche e, nel suo strato più recente rivela le macerie della Guerra dei Balcani. Il turista osserva la Croazia sorseggiando una birra, senza avere una coscienza reale delle cicatrici che ancora percorrono il territorio, né della crisi che ne è seguita, ma una vacanza non può trasformare la dignità perduta di un paese. («credi di sapere cosa sia la guerra/ con la birra della tradizione»[8]) («ma chi ha trovato i soldi per acquistare le armi/ ha combattuto la guerra dagli edifici grigi/ e ora è un dirigente di banca/ che vende i palazzi appesi ai mutui,/ la dignità del paese su gocciole minuscole/ che una vacanza non può trasformare»[9]).
Come per universalizzare il dramma della guerra, la raccolta si conclude con una serie di poesie civili sui migranti africani, e in particolare sull’oblio che li avvolge. “I soldi dell’oblio” e “L’erosione della nostra memoria” sono le immagini con cui si concludono gli ultimi due componimenti. È la natura stessa della raccolta, però, a suggerirci un rimedio. Alla velocità frenetica del pensiero occidentale, che ci trascina verso la dimenticanza indossando una maschera assetata di denaro – come direbbe Giorgio Falco –, bisogna contrapporre la quiete appresa in un luogo che conserva gli strati della sua tradizione e che è ancora capace di memoria. Soltanto così saremo in grado di ricordare e, forse, di cambiare le cose.
[1] La cittadinanza di Ambroz, dalla sezione “Ballate di Lagosta”
[2] Il piccolo crocifisso, dalla sezione “Partenze e ritorni”
[3] Konstantinos Kavafis, La città, in Le poesie (Torino, Einaudi 2015)
[4] La canzone di Daniela, dalla sezione “Ballate di Lagosta”
[5] La casa sulla strada, dalla sezione “Ballate di Lagosta” a
[6] Canzone di Spalato
[7] Il faro dalla sezione “Ballate di Lagosta”
[8] Canzone di Spalato
[9] Le argomentazioni di Mojmir, sulla costituzione della Repubblica, dalla sezione “Ballate di Lagosta”