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“Autoritratto automatico” di Umberto Fiori

di Marco Cresti

L’ultima raccolta di Umberto Fiori è Autoritratto automatico, edita da Garzanti nel febbraio di quest’anno.
Il libro prende spunto da due album di fototessere che raffigurano il poeta per un totale di circa 750 scatti, che Fiori ha collezionato e che coprono un cinquantennio, con i primi che risalgono agli anni ’60. Ci sono foto scattate a Napoli e molte a Milano, città di adozione del poeta.
La silloge poetica si compone delle sezioni Verso la faccia, Altre poesie, Seconda singolare e dell’appendice intitolata Tre poesie per l’Orientina (18 Aprile 2008).

Nella poesia Collezione, che appartiene alla prima sezione, si accenna all’insieme delle foto che l’io raccoglie in una serie che «non prevede scarti»: ogni scatto compiuto, indipendentemente dal suo esito, viene salvato e inserito in uno dei due grossi album che costituiscono la collezione fotografica. La creazione di questi due album rappresenta, a detta dell’io, «non un’opera ma un’operazione», come si legge nel dialogo dal titolo Colloquio fra il Ritratto e un giovane visitatore. L’opera poetica nasce nel momento in cui si riflette su questo almanacco di facce e smorfie, con l’esito di una poesia che si inserisce nel solco delle precedenti raccolte, apportando ulteriori riflessioni alla filosofia quotidiana di Fiori, soprattutto per quanto riguarda i temi dell’identità in relazione all’invecchiamento, al passare del tempo.

Un elemento che lega quest’ultimo libro con i precedenti fioriani è l’indagine del rapporto tra l’io lirico e la dimensione storica e collettiva rappresentata dal «noi». Nel Colloquio, il visitatore interroga l’io-poetico-empirico sull’uso del pronome di prima persona nella sua poesia, e l’autore replica che «si vergognava di dire io», venendo da un periodo, quello della contestazione operaia e studentesca, «in cui a dominare era un noi». Gli album, dunque, «sono uno sgabuzzino dove ho ammucchiato la spazzatura dell’ego, per cercare di liberarmene. Una specie di discarica della ‘personalità’ e dell’‘identità’ […]», un recipiente delle «scorie tossiche della mia scrittura».

Il «noi» a cui fa riferimento Fiori rappresenta le istanze storiche che in Autoritratto automatico fungono da metonimia dell’intero presente. La “storia”, però, risulta automaticamente esclusa da questo deposito di scorie che risulta essere la raccolta degli scatti. Nella poesia Soggetto si esplica chiaramente un netto rifiuto della dimensione collettiva, che non ha modo di esistere all’interno di una cabina per le foto: «Non ero una sezione, un collettivo, / un soggetto di classe; lì con me / non c’erano le masse popolari.» Particolare rilievo in questi versi è dato dalle parole in corsivo, che marcano il vocabolario politico della sinistra degli anni ’60-’70 che però risultano escluse dallo spazio della cabina che il poeta definisce «vano bianco» in cui si avverte «la miseria del naso, delle guance, di questa / prima persona».

Un elemento che caratterizza il rapporto con l’identità è il tentativo di prendere le distanze dalla faccia, che in una poesia intitolata Reportage viene definita «la nostra prima disgrazia», immortalata nello spazio della cabina, nel cui vano non entrano i grandi e tragici eventi della storia: «avevo provato a farci entrare / due terremoti, un golpe, un bombardamento, / ma poi ho rinunciato: nella cabina / non c’era proprio spazio».

La raccolta delle fototessere non ha la presunzione di essere un’autobiografia, ma un autoritratto, come dice il titolo della silloge; l’autore sostiene che sarebbe incompleta, come autobiografia, che ci sarebbero troppi elementi mancanti, oppure la storia, che non entra nei versi, è volutamente esclusa anche dalla rappresentazione poetica della propria persona. L’io del presente si sente molto lontano dall’individuo che compare nelle prime fotografie. Si veda la poesia Ordine, in cui il soggetto descrive prima una sua foto da ragazzo e sostiene che se «ci ritrovassimo uno di fronte all’altro, / vivi, dopo un saluto / e due commenti sul caldo che fa, / avremmo ben poco da dire». Questo concorre a dare una visione frammentata e monadica di ogni frammento fotografico, che appartiene a un microcosmo a sé della biografia, in cui ogni fototessera, e quindi ogni periodo della vita, risulta impossibilitato a legarsi con l’altro. Un’incomunicabilità tra presente e passato impedisce di creare un percorso autobiografico coerente, che tenda a una narrazione del sé. Il massimo che la prima persona può fare è proporre un mosaico poetico che rispecchi l’autonomia dei singoli scatti raccolti negli album. L’io del presente e quello del passato sono due persone a tal punto diverse che non possono comunicare, costituire un tessuto autobiografico coerente.

La protagonista della silloge è la cabina degli autoscatti. Si tratta di un oggetto all’apparenza austero e che sicuramente costituisce un lascito del secolo scorso, che continua però a essere presente nelle città e nelle abitudini delle persone. Fiori descrive l’uso ironico che si tende a fare, soprattutto da parte dei giovani, di un oggetto che invece ispira un atteggiamento serio e formale (non a caso l’altro uso, oltre a quello ludico, presta la cabina allo scatto di fototessere per documenti). A tal proposito Fiori scrive nell’introduzione: «C’è nella fototessera, qualcosa di mortuario, al quale il vivente è portato a opporre la sua indomita scempiaggine».

La cabina è accostata per metafora a una lunga serie di oggetti. Questo si osserva in particolare nelle poesie della prima sezione, Verso la faccia: nella prima poesia della raccolta, intitolata Foto-tessera, la cabina è definita «come nella navata di una chiesa / l’armadio bruno del confessionale»; in MM è una «capanna»; in Sera «il casottino della foto-tessera» e «luccica come un’astronave»; in Seggio è paragonata a una cabina elettorale; in Collezione è addirittura «l’oracolo»; in Scena diventa un teatrino, un «rettangolo» in cui «si prendono a bastonate Pantalone e Arlecchino»; in Obiettivo è «l’antro della Sibilla».

La seconda sezione, Altre poesie, cambia leggermente tono e protagonisti – che nella prima sono la cabina e il volto o, meglio, i vari volti dell’io – e approda a una lirica della quotidianità che rientra nel solco delle precedenti opere di Fiori. Si ricordano episodi dell’infanzia del soggetto, come ad esempio nella poesia Nulla e in Corrente (ripresa), in cui, pur rimanendo in una cornice di fatti quotidiana e autobiografica, si raggiungono delle vette poetiche limpide e una capacità affermativa, di dare un chiaro nome alle cose. Parlando di un ruscello, Fiori scrive: «Mi ha guardato, il ruscello. La sua immagine / semplice, viva, nuda, lì davanti, / mi sfuggiva. Di lui / non sapevo più niente. Pensavo ai secoli / al fumo, al sangue, ai canti / che dalla riva / pregavano, / chiamavano per nome la corrente…».

Anche nella seconda sezione i frammenti di memoria personale appaiono come scatti fotografici di situazioni molto lontane nel tempo, ad esempio riferite all’infanzia dell’io, che rimangono isolate tra loro. Per quanto qui la lingua poetica arrivi anche a farsi affermativa e portatrice di conoscenza, e quindi non sia un mero veicolo di constatazione del quotidiano, si tratta quasi sempre di episodi isolati e lontani dall’io del presente. Quest’ultimo ha il ruolo di cercare di ricordare dei fatti e dei volti immortalati nella sua immensa collezione fotografica, e lo fa senza particolari pretese di completezza o universalità. Anzi la parola poetica che informa Autoritratto automatico non basta neanche a delineare chiaramente i tratti di un io che è quello dell’autore.

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