“Autobiogrammatica” di Tommaso Giartosio – Premio Strega 2024
Si traveste da autobiografia, ma concede meno di quanto il genere prometta. Somiglia piuttosto a un lungo biglietto da visita, l’ultimo romanzo di Tommaso Giartosio. Leggendolo non si afferra mai una visione completa della vita dell’autore e, quando ci si sente finalmente pronti a scoprirla, le pagine finiscono. In effetti il linguaggio – di questo parla Autobiogrammatica, di come l’identità dell’autore, e di ciascuno di noi, venga plasmata dalle parole, a partire dalle singole espressioni del “lessico famigliare” fino alla pseudo-lingua di una conversazione in codice tra amici – il linguaggio, appunto, non è che una premessa alla propria storia, un preambolo inesauribile alla domanda “chi sono?”. O forse – risponderebbe Giartosio, e con lui Wittgenstein –, una storia non è nemmeno necessaria: basta il linguaggio per raccontarci completamente… e molto più in profondità di quanto immaginiamo.
Poche penne avrebbero potuto affrontare l’argomento con altrettanta intelligenza. E questo dipende dal fatto che Tommaso Giartosio possiede una qualità rarissima tra gli scrittori italiani, e non una qualità letteraria, ma prima di tutto umana: l’onestà. Un’onestà schietta, umile e spietata, inclemente nei confronti di se stesso, da fare invidia ai “cannibali” più scabrosi. Giartosio non ha bisogno di raccontare dettagli osé della propria vita privata per denudarsi, ben cosciente che al giorno d’oggi chiunque è capace di parlare di sesso, ma pochi sono capaci di scavare nel proprio io.
Già altrove Giartosio aveva dimostrato una capacità di autoanalisi fuori dal comune. Nel suo romanzo precedente, Tutto quello che non abbiamo visto (Einaudi 2023), l’autore aveva messo a nudo moltissimi preconcetti tipici della mentalità occidentale che avevano caratterizzato il suo viaggio in Eritrea. Ad esempio, si era raccontato nell’atto di fare il bagno spensieratamente con degli amici a pochi chilometri da un carcere famigerato che si affacciava sullo stesso mare cristallino; o nell’atto di augurare un futuro promettente a una classe di bambini eritrei in condizione di povertà estrema. Il tutto senza edulcorazioni e in funzione di un’introspezione analitica, quasi ossessiva, per cercare di comprendere se stesso a partire dai propri bias.
Lo stesso accade in Autobiogrammatica, dove il procedimento si estende alle parole e viene portato al suo estremo sviluppo. Ogni inciampo verbale, ogni gioco linguistico, ogni influsso straniero diventa occasione per una spirale di riflessioni concentriche, che scendono sempre più a fondo nella proverbiale tana del Bianconiglio. Il risultato è autoevidente: ogni vocabolo che pronunciamo o ascoltiamo è una finestra dietro la quale si apre uno scorcio potenzialmente infinito sulla nostra identità.
Accade per Salvo Lima, sindaco di Palermo assassinato dalla mafia nel 1992, il cui nome suscita in Giartosio un gioco di parole completamente fuori luogo in presenza degli amici siciliani. “Che cosa dicevano i suoi amici per fargli tagliare corto i discorsi interminabili? Salvo, eddai, lima”. Il gelo e la rabbia scatenati dalla battuta portano Giartosio a interrogarsi sul perché non si sia saputo trattenere, fino a una conclusione volutamente spropositata, ma che prelude ai voli pindarici del resto del romanzo: “Salvare” e “limare” sono parole congenite a Giartosio, in quanto descrivono l’azione dello scrittore, che salva i ricordi e li sottopone ad un accurato labor limae.
Accade per l’òla lombardo che il padre esclama nel silenzio ogni volta che rincasa. Accade per un verso dantesco, per la parola stronzo, per i nomi degli animali. Il linguaggio permea la realtà e il nostro punto di vista su di esso, è il filtro dei nostri occhi, le lenti che non possiamo rimuovere.
Come sciami di insetti le parole si vanno a raggruppare in sei sezioni, dopo la prima, introduttiva, che si concentra esclusivamente sul nome “Salvo Lima” e a mo’ di patto narrativo e introduzione esemplificativa al romanzo. Esse sono dedicate rispettivamente: ai silenzi del padre, alla lingua madre, all’affinità elettiva tra Tommaso e il mondo animale, ai sistemi linguistici nostrani e stranieri, al codice intimo e (forse) privo di senso su cui si innestano le relazioni umane, e infine alla letteratura, in particolare alla poesia di Ezra Pound.
Questa sintesi – quasi irrispettosa per la complessità del contenuto – lascia già intravedere quello che è il punto di forza e insieme di debolezza dell’opera di Giartosio: l’eterogeneità. Ogni sezione costituisce un romanzo autonomo, con una progressione cronologica e tematica interna. Ma la continuità tra una sezione e l’altra è labile. Si potrebbero inserire infiniti capitoli dopo l’ultimo, che di per sé non arriva a nessuna conclusione unitaria più di quanto facciano gli altri. Il che crea una struttura aperta, nello stile di un dizionario, molto calzante per il significato dell’opera, ma poco coinvolgente dal punto di vista della lettura.
La successione dei temi non corrisponde davvero alla cronologia della vita dell’autore, né la loro unione forma un diorama esaustivo. Ecco perché non si può dire che Autobiogrammatica sia un’autobiografia nel senso tradizionale del termine. Il risultato che si ottiene è, quasi per paradosso, un’opera sia estremamente personale, sia estremamente de-personalizzata. Attraverso dettagli privati della vita dell’autore, si scopre poco di Tommaso Giartosio, molto del modo in cui utilizziamo il linguaggio. Il lettore arriva talmente vicino all’inconscio di Giartosio da perdersi Giartosio, come quando si osserva al microscopio un oggetto di uso quotidiano senza riconoscerlo.
Sia chiaro, questo effetto di de-personalizzazione è tutt’altro che un difetto di forma. Già la Premio Nobel Annie Ernaux con Gli anni ha fatto scuola a un’intera generazione di autori narcisisti mostrando che è possibile scrivere l’autobiografia di se stessi e della propria epoca rimanendo sempre defilati dietro le quinte. Giartosio non arriva alla creazione di una “auto-sociografia” come la Ernaux, ma segue comunque la scia di un “naufragio del singolare”, come titola un suo recente articolo su The Italian Review. Qui l’autore scrive: “nulla è più personale di ciò che appartiene ad altri. L’io è una sommatoria di altri io; è un noi. L’autobiografia si predica come essenzialmente collettiva.”
Nulla – aggiungiamo noi, rimandando alla lettura dell’articolo, per chi non ne ha ancora abbastanza – nulla è più collettivo del linguaggio. Così l’Autobiogrammatica di Giartosio vuole essere bio-grammatica dell’identità di ciascuno.
L’operazione è riuscita? Solo in parte. Per coerenza con i propositi dell’opera, Giartosio adopera uno stile da mastro vetraio, virtuosistico e ricercato, con frequenti intrecci plurilinguistici e una punteggiatura quasi decorativa. Il risultato è una pagina densa e limata, ma non sempre scorrevole e, a volte, ripetitiva. Il linguaggio diventa una rete, una trappola, dove Giartosio dimostra di sapersi muovere con maestria, ma in cui il lettore rimane ingarbugliato troppo spesso.
L’impressione è quella di un autore approdato alla sua opera più ambiziosa, ma non ancora al suo miglior romanzo. Non resta che aspettare il prossimo.