“Atlante delle case maledette” di Francesco Bianconi – Premio Bergamo 2022
Ci sono libri che riescono a toccare le giuste corde del ricordo e dell’emozione e lasciano il lettore con un groppo alla gola e gli occhi umidi senza che nemmeno capisca il perché; ce ne sono altri, di libri, che invece al lettore lasciano un’espressione poco convinta sul volto, cinica, forse un po’ arrogante e presuntuosa, come se le pagine avessero tradito la promessa stampata sulla copertina. “Atlante delle case maledette”, l’ultima opera del cantautore e scrittore Francesco Bianconi, finalista del Premio Bergamo 2022, è uno di questi libri. “Quale dei due?” vi chiederete. Ancora sto cercando di capirlo.
Certo, non ha giocato a favore del mio personale giudizio sull’opera la sua affinità con “Il libro delle case” di Andrea Bajani, finalista del Premio Strega 2021, che ho avuto il piacere di recensire qui e che personalmente ho adorato. Ma questa di certo non è l’unica ragione che mi porta a stendere un commento dolceamaro sull’opera di Bianconi, né lo sono i quattro o cinque refusi editoriali sparsi per il libro, che pur mi hanno fatto storcere il naso. Numerosi sono gli elementi dell’opera che mi trattengono dal gridare al capolavoro. È questo un male? Non necessariamente. Cogliere gli aspetti negativi di un libro è anche il primo passo per far risaltare quelli positivi e sarebbe da parte mia disonesto negare l’esistenza di questi ultimi. Ma andiamo con ordine.
L’elefante nella casa: un confronto tra Bianconi e Bajani
È forse una coincidenza che nel 2021 e nel 2022 siano stati selezionati come finalisti dei premi letterari più importanti d’Italia ben due “Libri di case”, ossia cataloghi attraverso i quali un protagonista, alter-ego dell’autore, ripercorre la propria vita sulla base delle case che ha abitato? No. Non lo è come non è una casualità il fatto che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, tanto Pavese quanto Fenoglio abbiano scritto della resistenza partigiana. Anche se per alcuni può ancora sembrare difficile ammetterlo, la pandemia di Covid- 19 è stata la nostra Seconda Guerra Mondiale – sempre che ora non ne scoppi una terza. Quando tra mezzo secolo le quinte superiori studieranno gli anni 20 del 2000 sui libri di scuola – augurandoci che finalmente i programmi scolastici saranno stati aggiornati oltre la caduta del muro di Berlino – gli studenti non potranno fare a meno che temere una domanda di maturità sulla pandemia. È così difficile dunque immaginarsi che l’alunno interrogato, per collegare la materia di storia a quella di italiano, citi Bianconi o Bajani, che con le loro opere hanno indagato il rapporto tra l’identità dell’individuo e come esso si sia modificato durante il lockdown?
Potremmo dire quindi che il merito di entrambe queste opere, così simili e così diverse tra loro, è stato quello di tuffarsi a capofitto e senza paura nella contemporaneità, cogliere lo spirito di un momento storico ben preciso e tradurlo in letteratura. Lo stesso non si può dire di molti altri autori che descrivono l’Oggi a prescindere dalla pandemia, finendo col delineare una contemporaneità paradossalmente surreale dove le persone entrano in un ristorante senza la mascherina. Ci vuole intuito e coraggio, insomma, per fare ciò che questi due autori hanno fatto affrontando di petto il tema della “clausura” nelle proprie abitazioni, indagando la storia con i propri libri. E non sono forse queste le opere che rimangono e che si continuano a leggere e rileggere per decifrare un momento storico? Da questo punto di vista la dedica di Bianconi “Agli uomini che verranno” è quasi profetica.
Vale dunque la pena dedicare alcune parole al confronto di queste due opere – non si sa mai che possa tornare utile a uno studente del 2060. Per prima cosa è bene ricordare che nessuna delle due può contendersi il primato dell’idea: senza bisogno di lanciarci in acrobazie sui libri di filosofia o nella letteratura neoavanguardistica, quando si parla di casa come alter ego dell’identità l’esempio più recente è presto individuato in “Asterusher. Autobiografia per feticci” di Michele Mari, che al suo interno contiene già i temi citati nei prossimi paragrafi.
Per quanto riguarda la struttura, l’ “Atlante delle case maledette” è assolutamente lineare se confrontato con il mosaico caotico predisposto da Bajani nel “Libro delle case”. Le case maledette di Bianconi sono collocate in ordine per lo più cronologico, a partire dall’infanzia, in cui anche una stanza vuota per un bambino può diventare il regno della fantasia, fino ad arrivare alla vita adulta, dove si cerca un approdo definitivo in un nido d’amore. Ogni capitolo, corredato dalle meravigliose illustrazioni di Paolo Bacilieri, narra un tema autoconclusivo, come il rapporto con la fede nella “Casa del Signore”, o come le prime esperienze sessuali nella “Casa del Bosco”. Il che per certi versi ricorda i capitoli monotematici de “La coscienza di Zeno”, con l’unica differenza che qui l’inconscio di Dimitri, il protagonista, non sta dentro di lui, ma si incarna all’esterno, nelle abitazioni da lui vissute.
Di contro, Dimitri resta vuoto: pezzi di lui si frammentano e rimangono indietro, nella forma di spettri, per sempre imprigionati nelle case del suo passato. È lo stesso autore a spiegare questo distaccamento tra l’io e la realtà, facendo riferimento alla propria esperienza di scrittore. “Non sono mai riuscito a scrivere del mondo standoci dentro” afferma Bianconi in una conferenza tenutasi alla Biblioteca Tiraboschi di Bergamo “Ho sempre dovuto distaccarmene per poterne scrivere”.
Lo stesso concetto di frammentazione dell’io è evidentissimo anche nel “Libro delle case” di Bajani, dove viene portato all’estremo: in quel caso nemmeno il tempo e lo spazio riescono a trovare un equilibrio, ma si fondono in un labirinto intricatissimo – forse fin troppo. Emerge dunque una prima evidenza da entrambi i libri: rimanere chiusi in casa durante la pandemia ci ha permesso di comprendere da un lato quanto la nostra identità dipenda dal luogo in cui abitiamo e al contempo quanto di fatto la nostra persona sia in continua disgregazione. Ogni rapporto che intrecciamo con persone e oggetti – sembrano dire questi due autori – ci costringe a lasciare indietro una traccia di noi stessi e a portare con noi una traccia di loro. Come se fosse soggetta a un continuo ricambio cellulare, insomma, la nostra identità è in continuo rinnovamento e le tappe che più di tutte ne delineano la metamorfosi sono proprio le case che ci hanno custodito.
Una biografia sbiadita
Un ulteriore parallelismo tra i due autori è l’autobiografismo. Come parlare di identità, dopotutto, senza parlare di se stessi? Entrambi gli autori si sono trovati di fronte alla necessità di creare alter-ego che ricalcassero alcune vicende della loro vita, pur senza chiamarsi Andrea Bajani o Francesco Bianconi. A mio parere il risultato nell’opera di Bajani è decisamente il più stabile ed elegante: la storia del protagonista si regge perfettamente in piedi all’interno del libro e di rado si ha l’impressione che alcuni passaggi siano lasciati al caso. (E con questo chiudo i conti con “Il libro delle case” di Bajani, di cui ho trattato abbastanza).
Nell’ “Atlante delle case maledette”, invece, si ha costantemente il dubbio di non riuscire a comprendere pienamente la trama del libro senza conoscere la vita di Bianconi. Un solo esempio basterà: Dimitri, il protagonista, è uno scrittore, ma non parla mai del suo rapporto con questo mestiere; certo, in alcuni episodi cita un libro che ha pubblicato, piuttosto una rivista con cui collabora, ma nulla ci suggerisce se la scrittura per lui sia una vera e propria passione oppure soltanto un impiego di convenienza, né che cosa lo abbia portato a scegliere questa forma d’arte. Chiedendosi insomma per quale ragione Dimitri, invece che fare lo scrittore, non sia diventato – che so? – un pittore, l’unica risposta sembra essere: perché Francesco Bianconi è uno scrittore e questo libro parla di lui.
Il che sarebbe anche comprensibile se il libro fosse un’autobiografia del frontman dei Baustelle. Il problema però è scoprire che solo alcuni dei fatti raccontati del libro appartengono alla vita di Francesco Bianconi. Il rapporto tra l’io narrante (Dimitri) e l’io scrivente (Bianconi) è dunque inutilmente ambiguo: il risultato è che né l’uno né l’altro risultano opportunamente delineati. Terminata la lettura, non sono in grado di ritrarre nessuno dei due, se mi dovessi attenere soltanto a quanto è scritto nel libro.
L’intera narrazione, poi, che si ripropone di ripercorrere la vita di un individuo quasi cinquantenne attraverso le case che ha abitato, di fatto è sbilanciata all’indietro e approfondisce soltanto la prima parte della sua vita: dall’infanzia all’età universitaria. Solo l’ultimo quarto del libro tocca in modo sbrigativo alcune tematiche relative alla vita adulta, come il divorzio e la paternità. Riprende quota nel penultimo capitolo, con quello che chiamerei un “elogio dell’amore coniugale”, per niente scontato in un Occidente contemporaneo dove, come scrive lo stesso Bianconi, “pare obbligatorio cominciare a svagarsi facendo del sesso in giro” ogni volta che finisce una relazione.
Per lo stesso motivo ho estremamente apprezzato anche la riflessione finale, in cui traspare addirittura un poetico consiglio di ordine architettonico:
Ogni casa dovrebbe essere progettata per essere invisibile, pensata per non esserci, costruita per essere decostruita. Al punto da disintegrarsi in quanto abitazione e lasciare spazio agli abitanti e al loro sottoutilizzato amore. Non costruiremo più per abitare. Costruiremo per aprire, essere in comunione.
Francesco Bianconi, Atlante delle case Maledette, Rizzoli, 2021.
I fantasmi di Francesco Bianconi e la nostalgia del presente
Un altro elemento apprezzabile dell’ “Atlante delle case maledette” è il carattere evanescente di tutti quanti i personaggi che ruotano attorno a Dimitri. Al contrario dell’inconsistenza del protagonista, che – come detto sopra – arriva a rendere lacunosa la stessa storia narrata, il tratto fumoso e passeggero di amici, amori e familiari è coerente e funzionale agli intenti del libro. I personaggi sono fantasmi sfuggenti, poco delineati, tanto che spesso si ricorre a soprannomi come Barbara “l’apache” e la vicina di casa “Hitchcock” per semplificare all’osso la loro caratterizzazione. Quindi abbiamo personaggi che fanno la loro comparsa in un capitolo per poi sparire per diverse decine di pagine e ricomparire come visioni nei luoghi che li rievocano.
A pensarci bene è così che funzionano i ricordi: nell’arco della vita i “personaggi” vanno e vengono incessantemente e anche noi stessi, ai loro occhi, siamo soltanto transitori. Ma a volte basta una fotografia o un comodino per rievocare presenze che credevamo di aver dimenticato. È in quel momento che ci sentiamo trascinati nell’oblio del passato che, con il suo buio, ci fa paura. Dagli angoli più reconditi della nostra mente, per Bianconi, possono emergere spiriti degni di Poe, mostruosi nella loro resurrezione inaspettata.
Tuttavia, se i personaggi a volte sembrano decisamente “maledetti”, lo stesso non si può dire delle case. Certo, il tema della casa infestata ripreso dal titolo è ovviamente ironico e ricalca proprio le presenze nascoste, sottoforma di ricordi, nelle varie abitazioni in cui abbiamo vissuto. Tuttavia personalmente trovo che si potesse osare di più nel caratterizzare gli ambienti – oltre che le persone – attraverso questa metafora horror, che invece compare solo in modo sporadico e, la maggior parte delle volte, timido.
In ogni caso ciò che si percepisce leggendo l’ “Atlante delle case maledette” – o per lo meno ciò che io personalmente ho provato – è un estremo senso di abbandono che ruota attorno al protagonista e che si dischiude solo sul finale, come se riemergesse da un’apnea. Per l’intero libro, insomma, Dimitri è sostanzialmente solo. È proprio la solitudine, forse, che lo spinge a ripercorrere la propria vita per tappe obbligate, rifugiandosi dentro di sé per affrontare i propri fantasmi.
E questa solitudine mi ha preso il petto. Spesso lo stesso libro racconta storie diverse a diversi lettori. E l’ “Atlante delle case maledette” a me, che ho poco più di vent’anni, ha raccontato l’opprimente nostalgia di ricordi che ancora devo vivere. Leggere di come Bianconi rievochi la propria vita da adolescente o da studente universitario e scoprirla così precaria, così transitoria, quando riguardata con gli occhi di un adulto, mi ha fatto sentire – è proprio il caso di dirlo – un fantasma. Il fantasma di me stesso che mi apparirà tra vent’anni quando anche io mi metterò a pensare a tutte le case che avrò abitato. E, come tale, una presenza vana, senza contorni, intenta a costruire ricordi che presto diventeranno fumosi.
E quindi cosa resta dalla lettura di un atlante di case scritto nel 2021? Forse proprio questo: la consapevolezza che in ogni momento della vita ciascuno di noi sta costruendo e insieme disintegrando la propria identità. E che forse a volte è il caso di andarne a cercare i pezzi.
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